Ho ancora il nitido ricordo di
una chiacchierata che feci, diversi anni fa, con colui che – all’epoca - ricopriva
la carica di vicesindaco di un piccolo paese, paese del quale sarebbe diventato
sindaco, pochi anni dopo. Si parlava dell’importanza della valorizzazione del
territorio, dei suoi prodotti, di quell’economia “pulita” e sana che è l’agricoltura.
La sua stessa attività di imprenditore era in buona parte legata all’agricoltura
e alla zootecnia. Eravamo praticamente d’accordo su tutto. Ed entrambi
giudicavamo miope e dannosa la scelta di fare economia attraverso la
devastazione del territorio e il consumo di suolo agricolo. E lui aveva
pubblicamente ribadito questi concetti favoleggiando di noti riferimenti
geografici la cui ricchezza si basava sulla tutela del territorio, del
paesaggio, delle colture agricole, come la Val d’Orcia.
Guardavo negli occhi il mio interlocutore
con grande interesse. Sembrava sinceramente convinto di quello che diceva, pur
facendo parte della giunta di un’amministrazione che percorreva esattamente la
strada inversa rispetto alle sue parole. Non era lui a prendere le decisioni,
posso immaginare. Ma lui era “parte” di quel sistema e trovavo surreale il
distacco con cui lui che, a buon diritto, poteva tranquillamente chiedere di
esaminare e valutare (e magari contrastare) le scelte che gli interessi dei
costruttori legati all’amministrazione imponevano. Continuavo a osservarlo
mentre parlava, vicino allo stand che pubblicizzava i prodotti agricoli della
zona, e faticavo a nascondere il mio disagio. Per metterlo di fronte alla sua
contraddizione ho provato a fargli una semplice domanda e gli ho chiesto in
quale modo si potesse spingere nella direzione da lui indicata. Mi ha
restituito lo sguardo, ha fatto una lunga pausa come per cercare le parole e,
poi, col tono di chi rivela una verità nascosta, mi ha detto: “Il problema è la
politica. Il problema sono gli amministratori”.
Sono rimasto attonito e
affascinato dall’infantile semplicità con cui era riuscito a prendere le
distanze dal ruolo che ricopriva. Non era ricorso ai faticosi strumenti della retorica
politica. Si era semplicemente accreditato come “altro” rispetto alla politica
e all’amministrazione di cui faceva parte. Sono passati alcuni secondi prima che
riuscissi ad articolare una sola sillaba.
Il mio sentimento non era di rabbia, ma di curiosità antropologica. Provavo
una sorta di ammirazione per la temerarietà con cui, in modo così grossolano e
puerile, cercava sottrarsi alle proprie responsabilità.
Ogni tanto ripenso a quella
conversazione e mi convinco sempre di più che sia stata un’esperienza utile ed
istruttiva, grazie alla quale ho smesso di stupirmi di fronte all’italico vizio
di prendere così sfacciatamente le distanze da se stessi tutte le volte che
ragioni di opportunità lo consigliano. E in politica non è una prassi diffusa:
è (quasi) la regola.
Ho un vaga idea riguardo l'identità del personaggio... ss
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