20 luglio 2006

Garrufo di Sant’Omero

Garrufo di Sant’Omero. Come spesso accade di fronte al nome di una località di cui sino a pochi minuti prima si ignorava l’esistenza pronunciare queste parole mi fa lievemente sorridere. Poche settimane prima avevo visto l’annuncio su una rivista dedicata al ciclismo, mia tardiva passione e alla quale dedico ormai da diversi mesi tutte le domeniche. Sono convinto di essere allenatissimo, visto che ogni domenica riesco a macinare 20, 30, 40 e persino 50 chilometri in bicicletta. Un vero asso del pedale. E così quella notizia su un giro in mountain bike nel parco dei Monti Sibillini mi sembra l’occasione giusta per mettere a frutto le mie indiscutibili doti ciclistiche. Chiamo la segreteria organizzativa (…) e mi faccio mandare il programma della “pedalata dei due mari”, una vacanza in bicicletta a tappe all’interno del parco dei Monti Sibillini, che è proprio quello che ci vuole per ossigenarsi un po’ dopo un anno trascorso tra scartoffie e documenti. Il programma è davvero allettante. Salite mozzafiato, paesaggi da fiaba, si prevede anche l’escursione (a piedi) sulla cima più alta dei Sibillini (monte Vettore). Prenoto subito, per non correre il rischio che non si trovi più posto negli alberghi (sic). La partenza è prevista per lunedì 1 agosto alle nove. Chiamo per chiedere se l’orario sia alla romana, quindi un tantino elastico, oppure se è richiesta la massima puntualità. Massima puntualità. Sveglia alle sei quindi e partenza alle sette. Bici montata sul tetto e bagagli ridotti al minimo indispensabile.
Quando vai in un posto nuovo cerchi sempre di immaginarti quello che ti aspetta ed è esattamente quanto avevo fatto io. Immaginavo, chissà perché, che Garrufo fosse un paese (scoprirò che in realtà è una frazione, di Sant’Omero, appunto) con la chiesa, il municipio, i giardinetti, il bar centrale tutti concentrati nell’unica piazza del paese (che so: piazza Roma o piazza Garibaldi), per l’occasione invasa da biciclette e ciclisti multicolori, pronti per la partenza dell’evento dell’anno.
Alle nove in punto supero il cartello di Garrufo. Mi aspetto che la strada cambi fisionomia, diventi “urbana”, in qualche modo, mi aspetto la piazza, il municipio, i ciclisti multicolori, le biciclette. Non vedo le biciclette, nemmeno una. Non vedo i ciclisti, nemmeno uno. Non vedo la piazza, non vedo il municipio. In compenso sono uscito da Garrufo. Torno indietro. Guardo a destra, guardo a sinistra, non c’è traccia di quanto avevo immaginato. Un bar. Non è il bar centrale, ma serve alla bisogna. Entro, sfoggiando il look multicolore tipico che inspiegabilmente ci fa sentire fighi mentre agli occhi del resto dell’umanità smembriamo poveri deficienti, e chiedo al barista se ha notizie dell’evento del secolo: la pedalata dei due mari. Conosco così uno dei mitici personaggi del ciclismo garrufino (o garrufese?): è Emilio, barista-meccanico, ma, soprattutto, grande ballerino di ritmi sudamericani. Comincio a capire che le cose non sono esattamente come le avevo immaginate. La piazza, il municipio, la chiesa, le biciclette, i ciclisti e, soprattutto, la massima puntualità. Emilio mi comunica infatti che sono stato il primo ad arrivare (e sarà l’unica volta in tutta la pedalata). In compenso sono tutti molto gentili e dopo qualche telefonata ed una breve apparizione di un indaffaratissimo Attilio mi affidano - letteralmente – all’incolpevole Giulio, a cui tocca l’ingrato compito di tenermi compagnia in attesa che gli altri partecipanti arrivino. Immagino che ci vorrà mezz’ora, un’ora al massimo…
A mezzogiorno arriva il secondo partecipante. Si chiama Livio. Sa che gli orari delle pedalate sono a malapena indicativi, ma, essendo uno preciso, si presenta con solo tre ore di ritardo rispetto alle indicazioni. Ne approfittiamo per andare a pranzo e per fare quattro chiacchiere. Quando torniamo al bar (che non era centrale, ma era quello giusto) iniziano ad arrivare alla spicciolata tutti gli altri. Man mano che li vedo arrivare mi convinco sempre di più di aver perso il mio tempo. Mi aspettavo di incontrare altri atleti della mia levatura e invece mi ritrovo in mezzo a turisti del pedale. Passa il tempo. Si decide di ritardare la prima tappa (giro della Val Vibrata recitava il programma) perché fa ancora troppo caldo. Alla fine si parte verso le cinque e mezza, con solo otto ore e mezza di ritardo sulla tabella di marcia. Non vedo l’ora di dimostrare il mio valore - anche se il panorama è così desolante da avere la sensazione di sparare alla croce rossa (c’è persino qualcuno in ciabatte da mare…) – e salgo sulla mia splendida mountain bike. Il giro è proprio una passeggiata. C’è pieno di ragazzini e ci fermiamo ogni tre chilometri per ammirare manufatti di dubbio interesse. Continuo a mordere il freno, ma proprio non riesco a trovare l’occasione giusta per far mangiare un po’ di polvere a questa accolita di principianti. Giusto alla fine del giro si presenta l’occasione. Qualcuno alza il ritmo e penso che potrebbe essere il momento giusto. C’è una salitella. Ecco, li posso bruciare lì. Ma, vuoi il caldo, vuoi la lunga attesa, vuoi il fattore sorpresa, riesco appena a superare un paio di bambini. Vabbé ci sarà tempo e modo.
La sera l’organizzazione – scoprirò solo più in là quanto il termine fosse così lontano da rappresentare la realtà – ci comunica che il previsto trasferimento in del giorno dopo non si farà più in pullman, ma direttamente in bicicletta. Il chilometraggio del giro passa pertanto da circa 30 chilometri a circa 120, comprendenti la salita di Forca Canapine (1541 mslm). Partenza quindi alle sei del mattino. Sì, certo, voglio proprio vedere: domani me la piglio comoda…
E così alle sei e cinque minuti della mattina dopo mi ritrovo già a dover inseguire il gruppo dei pedalatori (pratica che diventerà usuale). I miei compagni di strada viaggiano con le superga, con improbabili copricapi e in me riaffiora la convinzione di avere a che fare con una compagine ciclistica di modesta statura.
Così io e un altro che si crogiolava in pensieri simili a miei – e suppongo con ancor maggior convinzione – diamo fuoco alle polveri sin dai primi chilometri e ci facciamo beffe degli altri ciclisti con scatti ed accelerazioni, per poi, alle prime pendenze, staccare – definitivamente? – il gruppo.
Già pregustiamo una lunga attesa in cima al passo, sdraiati a goderci l’ombra di qualche albero, quando la strada comincia “veramente” a salire e le nostre gambe iniziano a farsi legnose, mentre le mani si affaccendano sul cambio alla ricerca di un rapporto adatto.
E così, mentre noi atleti di rango cominciamo a dare qualche impercettibile segno di cedimento (tipo occhi fuori dalle orbite, pulsazioni a 200 bpm, respiro modello serial killer nei b-movie e via dicendo), si materializzano “gli altri”, i turisti del pedale, i quali, chiacchierando amabilmente come se fossero seduti davanti ad una limonata al bar del paese (quello centrale), ci superano allegramente per scomparire alla nostra vista al primo tornante utile.
La vita è fatta di insegnamenti. E il valore degli insegnamenti non è necessariamente proporzionale alla loro durata temporale. Puoi seguire dotte lezioni universitarie o convegni accademici di alcune ore di cui non ti rimane quasi nulla e puoi, in una manciata di secondi (che so: il tempo di arrivare al tornante successivo), ricevere una lezione di vita di cui rimarrà una traccia indelebile nella memoria, nell’anima e un po’ anche nell’orgoglio.
Li abbiamo rivisti solo dopo un tempo “percepito” di qualche secolo a godersi il famoso fresco in cima al passo.
Le tappe successive hanno lo stesso mortificante tenore e alle prime rampe comincia per alcuni - tra cui il sottoscritto - il solito interminabile ciclogolgota. Né, a parziale indennizzo delle sofferenze patite, provvede l’agognata sosta in albergo, magari con un bagno tonificante nella vasca idromassaggio o un po’ di relax nella sauna. Niente di tutto questo purtroppo, poiché – scoprirò a mie spese - lo spirito della pedalata è squisitamente e rigorosamente “francescano” ed è pertanto bandita ogni forma di comfort e le soste sono organizzate in alloggi di fortuna (ma non è che ci si senta tanto fortunati) come palestre, scuole e conventi. E la volta che, non trovando nulla di peggio, ci sistemiamo in un camping qualcuno degli organizzatori giudica la scelta esageratamente lussuosa.
In piena sintonia quindi con i principi della pedalata si impone l’aurea regola, di fronte ad un bivio, di scegliere la strada in salita e, tra due salite, quella con la pendenza più accentuata. E, per non lasciare dubbi su quanto attende gli ignari ciclisti, soccorre la toponomastica. Via quindi con le già citate “forche” (ancorché canapine), col passo “Cattivo” (di nome e di fatto), con le gole dell’Infernaccio (un inferno normale non bastava) e con la val di Panico.
Dopo una settimana così ci sono solamente due possibili opzioni: la prima (e più equilibrata) di gettare la bicicletta in un fosso e cancellare la parola “Garrufo” dalle cartine geografiche; la seconda (sintomatica di quali conseguenze psichiche possa produrre la pedalata e assimilabile alla sindrome di Stoccolma) di appassionarsi alla bicicletta, alle salite, ai monti Sibillini, ai garrufesi e a Garrufo di Sant’Omero. E tornarci di tanto in tanto: rigorosamente con la bicicletta.

2 maggio 2006

Riflessioni ad alta velocità…


TAV. NOTAV. Prodi o Berlusconi. Destra o sinistra. Procreazione assistita sì, procreazione assistita no. Franzoni colpevole o Franzoni innocente. Centro-destra o centro-sinistra (e, nel centro*sinistra trattino sì o trattino no). Amnistia sì, amnistia no. E poi, andando indietro nel tempo, Nucleare si nucleare no. Divorzio sì, divorzio no. Coppi o Bartali. Fino ad arrivare al primo referendum che ha diviso in due l’Italia: monarchia o repubblica.
Ci siamo abituati. Tutte le volte che una qualunque questione diventa di pubblico dominio e attiva un qualche dibattito collettivo, le ragioni sragionano, gli approfondimenti non approfondiscono, le analisi non analizzano, le valutazioni non valutano. Il “merito” non esiste più. Lo scontro diventa preconcetto, ideologico, avulso da ogni considerazione sul fatto in sé: o di qua, o di là, per dirla con una sgradevole quanto azzeccata locuzione del nostro ex (vivaddio) premier.
La realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità in val di Susa non si sottrae a questa logica delirante. Come è stato brillantemente fatto notare durante i giorni caldi della protesta, nessuno tra gli autorevoli (e non) commentatori che hanno descritto le proteste dei valsusini ha spiegato in modo chiaro le ragioni del sì e, tantomeno, le ragioni del no. Per chi fosse – se mai ci sia stato qualcuno – scevro da condizionamenti ideologici era davvero difficile farsi un’idea di chi avesse ragione, tenendo conto del celeberrimo monito manzoniano sulla non agevole separazione tra torto e ragione.
E così, anche la vicenda della TAV in Val di Susa è stata liquidata da gran parte dei media in modo piuttosto superficiale come la solita disputa tra ambientalisti-integralisti e modernisti-sviluppisti. Descrivendo – nella stragrande maggioranza dei casi – i primi come ottusi oppositori ad interventi non più differibili e i secondi come animati da un sano e razionale approccio alle esigenze di un paese moderno ed europeo.
Ma, nel merito, il silenzio rimane assordante. Eppure non è proprio difficile provare a spiegare le ragioni del no. Ragioni che perdono di credito quando ad esprimerle sono coloro i quali vengono penalizzati dal devastante impatto dell’opera – “non possiamo permetterci di anteporre gli interessi di pochi a quelli della collettività”, hanno prontamente sostenuto i ministri del passato governo (ma temo che sarà così anche per qualcuno del prossimo) – ma che invece hanno piena dignità e che andrebbero valutate con una certa attenzione.
Vorrei tralasciare le questioni che ritengo prioritarie, proprio per la soggettività che le caratterizza: le questioni ambientali. Normalmente infatti la controargomentazione rispetto alle preoccupazioni di tipo ambientale fa riferimento alla dottrina utilitaristica: l’importanza strategica dell’opera giustifica il prezzo da pagare in termini ambientali. Sempre e comunque.
E’ quindi il caso di valutare con più attenzione i reali benefici dell’opera, confrontandoli magari con i costi – ambientali, ma anche economici – per capire quanto sia davvero irrinunciabile la sua realizzazione.
I costi ambientali non sono facilmente misurabili (non con un’unità di misura che possa permettere confronti) e quindi conviene concentrarsi sul costo dell’opera. Si parla di 20 miliardi di euro. Una cifra pazzesca e, al contrario di quanto si dice, interamente a carico della collettività. La quale collettività dovrebbe quindi essere consapevole del fatto che 20 miliardi di euro destinati alla Torino-Lione sono 20 miliardi di euro sottratti ad una qualunque altro uso pubblico di interesse – davvero – generale.
Normalmente questa considerazione viene accolta con un atteggiamento che è una via di mezzo tra paternalistica rassegnazione e spocchiosa saccenteria. Perché preoccuparsi – che so – di asili nido o di assistenza sanitaria o dell’ammodernamento del “materiale rotabile” che coraggiosamente presta servizio a beneficio di chi il treno lo prende tutti i giorni, ossia i pendolari, significa avere una visione minimale delle questioni. Perché è riduttivo preoccuparsi di queste inezie, quando il progresso e la modernità passano per le “grandi opere”, attribuendo all’aggettivo “grandi” il primo – banale, forse scontato – dei significati, quello dimensionale. Un po’ come in quella vecchia pubblicità che giocava sulla sfumatura semantica tra “pennello grande” e “grande pennello”. Tra le due opzioni io, preferisco la seconda, e, per “grandi opere” intendo quelle opere che danno davvero un contributo alla qualità della vita, al benessere, alla solidarietà, ai diritti. E queste grandi – anche se piccole – opere sono proprio quelle che più facilmente trascurate dai “grandi politici”. Facciamole dunque queste piccole grandi opere. Proviamo ad investire sugli interventi che migliorano la nostra quotidianità. Se poi questo comporterà l’effetto collaterale di avere utilizzato le risorse finanziarie che si volevano destinare alla devastazione di una magnifica valle alpina, compromettendo la vita, la salute e la serenità di un’intera popolazione… Beh!, in tal caso, cercheremo di farcene una ragione.

Tullio Berlenghi

Articolo pubblicato sul sito di Avantipop

30 gennaio 2006

Abusivismo edilizio. Dalla parte della legge

Ho la strana e sgradevole sensazione che sulla questione dell’abusivismo edilizio venga utilizzata una chiave di lettura fuorviante, anche se figlia di una cultura dell’illegalità purtroppo molto diffusa.
Partiamo da un presupposto incontrovertibile: l’edificazione in assenza delle prescritte autorizzazioni e licenze edilizie è illegale e, come tale, punita dalla legge. Chi lo fa sa di commettere un abuso e di correre il rischio di vedersi bloccati i lavori. E’ altrettanto evidente che chi costruisce illegalmente punta su due fattori: la frequenza di provvedimenti di sanatoria varati da governi disposti a tutto pur di fare cassa e la facilità con cui la stragrande maggioranza delle amministrazioni comunali tende a chiudere un occhio (se non due) sugli abusi commessi sul proprio territorio; magari per la preoccupazione che eventuali interventi per il ripristino della legalità possano comportare un calo dei consensi. In pratica chi costruisce una casa abusiva ritiene – a buon ragione peraltro – che ci siano ottime probabilità di farla franca. Un po’ come l’automobilista che percorre indisturbato la corsia preferenziale mentre gli altri sono pazientemente in coda. Lo fa pensando che le probabilità che venga fermato (e multato) sono piuttosto basse, ma se ciò avviene si ritiene vittima di una profonda ingiustizia.
Molto raramente gli abusi edilizi sono veri abusi “di necessità”. La cosa più frequente è la vera e propria speculazione edilizia. Spesso e volentieri a carattere familiare, come, ad esempio, il padre che trasforma il vecchio tinello nella zona agricola in villetta bifamiliare per garantire un tetto ai propri due figli. Il proposito è senza dubbio lodevole: quello che non va è la scorciatoia del mancato rispetto delle regole di civile convivenza.
Ciò che preoccupa è la mancanza di percezione dell’illegalità per quanto riguarda gli abusi edilizi. Molti di coloro che edificano abusivamente non pensano di fare qualcosa di sbagliato. E le stesse persone che hanno costruito immobili successivamente sanati sono pronte a protestare quando nuovi abusi (fatti da altri) possano in qualche modo danneggiarli. C’è sovente un atteggiamento miope ed egoistico e manca sostanzialmente il senso della collettività, il rispetto delle regole e degli altri e l’intervento dell’autorità giudiziaria viene visto come una ingiusta ingerenza.
Il fenomeno dell’abusivismo edilizio però andrebbe analizzato nella sua complessità e non attraverso la lettura – parziale - del caso singolo, nei cui confronti spesso viene naturale e quasi comprensibile un atteggiamento giustificatorio. Il fenomeno va letto in misura più ampia soprattutto per le conseguenze che porta all’intero territorio e alla comunità che ne pagherà i costi. Serve cioè la consapevolezza che chi costruisce una casa abusiva contribuisce ad alterare profondamente l’equilibrio territoriale, sociale ed economico (quanta economia agricola è andata in fumo per le speculazioni edilizie), comporta inevitabili conseguenze ambientali e paesaggistiche, rende necessarie opere di urbanizzazione primaria e secondaria che verranno sostenute dall’intera collettività, concorre alla formazione del fenomeno della “residenzalità diffusa”, rendendo pressoché impossibile una programmazione urbanistica coerente ed omogenea.
L’adozione di provvedimenti di sanatoria poi realizza una profonda ingiustizia, poiché comporta una sorta di premio per chi ha violato la legge e, qualora l’amministrazione comunale decida di attuare un piano di recupero, rischia di penalizzare chi la legge l’ha rispettata, magari attraverso l’esproprio di terreni necessari a realizzare servizi e strutture di pertinenza della zona sanata (e quindi a beneficio dei “trasgressori”). Oltre al danno quindi la beffa. Non stupisce pertanto che anche chi non aveva costruito in passato decida di farlo, considerandolo un diritto dovuto, visto che “così fan tutti”. I sindaci in questo caso se ne lavano le mani e spetta alla magistratura l’ingrato compito di sanzionare gli abusi, sapendo comunque di dare vita ad un’iniquità. E, d’altronde, non sanzionarli sarebbe un’omissione. Neanche una nuova sanatoria risolverebbe il problema perché darebbe vita a nuove aspettative, in una spirale perversa da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.
Purtroppo non c’è soluzione. Se non quella di partire dalla consapevolezza di aver avallato in questi anni tante ingiustizie e tante regalie ai furbi della prima (e della seconda e della terza) ora, facendo pagare lo scotto agli onesti e ai furbi della quarta ora. Il Governo Berlusconi dopo il varo di ogni sanatoria ha sempre dichiarato che dall’indomani le violazioni urbanistiche non sarebbero più state tollerate e che avrebbe dato alle amministrazioni gli strumenti adeguati per difendere il territorio. Invece ha adottato la tecnica “Prendi i soldi e scappa”, lasciando i comuni – ma non per questo incolpevoli – a gestire in piena solitudine un fenomeno che ha radici profonde nella forma mentis dell’arbitrarietà, così diffusa e così perniciosa. E all’inerzia – se non alla connivenza - dei comuni difficilmente potrà far fronte l’impegno e il coraggio della magistratura, il cui intervento, pur se impeccabile sotto il profilo giuridico, quando non cade nell’indifferenza, diventa impopolare. E mentre l’impopolarità si spiega con l’interesse leso, l’indifferenza spaventa molto di più, visto che è il sintomo di una seria patologia sociale: la mancanza di un sentimento di appartenenza ad un organizzazione sociale. In pratica: la mancanza di senso civico.

3 gennaio 2006

La frana sulla ferrovia

Aldo: "Questa roccia e' franabile!". Giovanni: "Se mai e' friabile...". Aldo: "Ma questa qua frana, mica fria!". Questa memorabile gag surreale di Aldo, Giovanni e Giacomo, alle prese con un’arrampicata su un costone, continua a venirmi in mente dal giorno della frana che ha portato Labico agli onori della cronaca regionale. Un ben mesto motivo di popolarità e che tutti i labicani si sarebbero volentieri risparmiati.
A mente un po’ più calma credo che sarebbe opportuno fare qualche riflessione sulla vicenda in particolare e cercare di allargare gli orizzonti alla più generale gestione del territorio. Per quanto riguarda quello che è successo occorre sottolineare alcuni aspetti, serenamente e con razionalità:
- un ammasso di terra e detriti che scivola lungo un pendio per alcune decine di metri e finisce sopra una delle più trafficate arterie ferroviarie del paese è un evento di enorme gravità e solamente per puro caso non ci sono state conseguenze tragiche;
- la zona in prossimità del dirupo è stata dichiarata edificabile nel vecchio piano regolatore;
- sembra fosse abitudine diffusa – da parte delle ditte di costruzioni – abbandonare le terre di scavo lungo la parte sommitale del costone, senza che nessuno (o quasi) abbia mai espresso perplessità in proposito;
- sia il Comune che Trenitalia, per diversi aspetti e con livelli diversi di responsabiltà, erano tenuti a vigiliare sullo stato di stabilità del costone e valutare l’opportunità di intervenire per mettere in sicurezza l’area;
- il costo economico per la collettività di quanto è avvenuto è enorme e gran parte di esso non verrà indennizzato in alcun modo, a cominciare dalle ore (e in alcuni casi giornate) di lavoro perso da migliaia di pendolari, che pagheranno così di tasca propria le altrui responsabilità.
Vorrei sottolineare che questa non è che la punta dell’iceberg di un modello urbanistico che io sto criticando da tempo e che antepone gli interessi di chi costruisce a quelli di chi le case le va ad abitare. Un modello urbanistico che permette di realizzare abitazioni là dove il buonsenso (non la perizia geologica: il buonsenso) consiglierebbe di non farlo; un modello urbanistico che punta su edificazioni ad alto profitto e a bassa vivibilità, con spazi abitabili insufficienti e l’implicito invito ad usare per civile abitazione le parti dell’immobile con destinazioni diverse; un modello urbanistico che si esaurisce nella costruzione delle case, ma che nulla prevede (e fa) per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria; un modello urbanistico in cui sono insufficienti (o completamente assenti) quegli standard urbanistici (scuole, piazze, marciapiedi, giardini, servizi, verde pubblico) che distinguono una vera città da una borgata.

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura