31 luglio 2011

Usi e abusi di potere



Il 24 luglio 2010 grazie ad uno straordinario gruppo di ragazzi è nata una delle più belle iniziative che si siano organizzate a Labico negli ultimi anni, la “Fraschetta al Fontanone”. In quell’occasione una struttura pubblica che versava in uno stato indecoroso è stata completamente sistemata, riverniciata, ripulita e allestita per ospitare una cena all’aperto, a cui hanno preso parte circa 130 persone. E’ stato necessario un grande lavoro, durato alcuni giorni, ma che ha permesso a molti labicani di riscoprire e un pezzo del paese condannato – da un’amministrazione apatica - all’abbandono e al degrado.
Il successo è stato eccezionale. Per molti mesi si è parlato di quella serata come qualcosa di magico, del quale tutti quelli che hanno partecipato serberanno un ricordo particolare, mentre quelli che non c’erano aspettavano con ansia la “seconda edizione” per poterci essere. Non a caso appena sono iniziate le prenotazioni si è raggiunto il tutto esaurito. L’aspettativa era tanta e gli organizzatori ce la stavano mettendo tutta per riuscire a bissare il successo dell’anno prima.
A gelare gli entusiasmi ci ha pensato il sindaco del Paese. La fraschetta non si poteva fare. Nella comica lettera con cui negava l’autorizzazione si arrampicava sugli specchi di improbabili motivazioni (ordine pubblico, rispetto dell’ambiente, sicurezza personale) che dessero una credibilità all’incomprensibile divieto.
Le ragioni del divieto sono, evidentemente, altre. Se una serata all’aperto è un problema per l’ordine pubblico bisognerebbe impedirle tutte, a meno che il problema non sia “chi” le organizza. Sul rispetto dell’ambiente davvero non si capisce cosa volesse dire. Vedersi, parlare, stare insieme, rappresentano un rischio di contaminazione ambientale? O non sono – invece – il rischio concreto di una contaminazione positiva tra le persone, che hanno la possibilità di conoscersi, di confrontarsi, di capire quello che succede? E poi chi parla di tutela ambientale? Gli stessi amministratori che si sono resi responsabili di un colossale scempio del territorio per favorire interessi speculativi. E la sicurezza personale cosa significa? Una persona è caduta. Succede. Lo scorso inverno c’è stata una nevicata di venerdì. La tanto attenta amministrazione non si è minimamente curata di provvedere alla pulizia e messa in sicurezza di strade e marciapiedi nelle 48 ore successive. Il lunedì mattina per molti bambini andare a scuola è stato un vero problema. Decine di persone sono scivolate sul ghiaccio per l’indifferenza degli amministratori. In quel caso la sicurezza non è stata una priorità.
Quali sono, dunque, le ragioni del divieto? Vanno cercate esclusivamente nel grande successo dell’iniziativa. Un successo che faceva risaltare troppo l’incapacità di un’amministrazione che – nonostante disponga di soldi pubblici e di qualunque spazio – non riesce a competere con chi ha più idee e creatività. Troppo imbarazzante sarebbe stato il divario tra la fraschetta al fontanone e Miss Intimo. Meglio proibire la prima e inserire il calendario dell’estate labicana in un quadro volutamente desolante.
Proibire è verbo che evoca momenti storici sgradevoli. Proibire è il verbo più utilizzato nei regimi. E a Labico qualcuno è convinto che un regime ci sia. Qualcuno che confonde il ruolo di amministratore (io al servizio della cosa pubblica) con quello di padrone (la cosa pubblica al mio servizio). E pensa, davvero, di poter “proibire” ai cittadini di esprimersi, di dare vita ad iniziative, di vivere liberamente il proprio paese. Questo atteggiamento denota, tra l’altro, una sesquipedale ignoranza. Gente che amministra da venti, trent’anni e che palesa un’avvilente impreparazione in tema di diritto amministrativo. E forse anche semplicemente di diritto, visto che sono convinti di avere il potere di negare diritti incomprimibili e sanciti dal dettato costituzionale. Davvero il sindaco pensava di avere l’autorità di impedire l’accesso alla fontana? Quella è la fontana chiusa, caro sindaco, notoriamente di sua proprietà, la fraschetta si è fatta nell’altra fontana, quella “aperta”.
I cittadini di Labico non si lasciano prendere facilmente in giro. Hanno capito tutti che col suo gesto rozzo e autoritario aveva abusato del proprio potere. E hanno deciso di contestare, pacificamente e allegramente, il suo patetico tentativo di imbrigliare tutto ciò che non fosse controllato da lui e dalla sua congrega. Si è avviata così, con un tam-tam in rete e qualche volantino, un’inattaccabile alternativa alla fraschetta. Alla fontana ci si andava, lo stesso giorno previsto per la fraschetta, per utilizzarla per la sua funzione propria: lavare i panni. Niente da fare, il nostro sindaco, un ectoplasma dell’impegno amministrativo, ma attivissimo nell’azione di censura e di veto, inviava prontamente un’informativa alle forze dell’ordine per impedire anche di lavare i panni.
Qualcuno deve avergli pazientemente spiegato che la qualità di sindaco non gli conferisce un potere assoluto e se i cittadini decidono di andare a lavare i panni alla fontana nessuno – nemmeno il sindaco, no, non insista – glielo può impedire. Fatto sta che una spensierata e tranquilla passeggiata dalla piazza, con bagnarole e cestini, è diventata, giocoforza, l’avvenimento di maggiore rilievo sotto il profilo dell’ordine pubblico.  Una pattuglia dei carabinieri si è dovuta preoccupare di vigilare sul pericolosissimo assembramento di facinorosi. Gente armata di calzini sporchi, sapone di marsiglia, pane e pomodoro, che – secondo qualcuno - poteva certo compromettere l’incolumità dell’intera popolazione labicana.
Alla faccia del sindaco e della sua arroganza le cento persone che hanno partecipato si sono divertite tantissimo e si sono appropriate nuovamente di uno spazio che non è del sindaco (aperta, non chiusa, santa pazienza), ma dell’intera collettività. Tutti loro, ma non solo loro, hanno potuto rendersi conto della meschinità con cui viene amministrato questo paese. Una meschinità che ha portato ad una situazione che dall’esterno potrebbe sembrare divertente. Invece, per chi la vive sulla propria pelle, è semplicemente ridicola, surreale, grottesca.

28 luglio 2011

Il percorso accidentato della costituente ecologista


C’è qualcosa che non mi convince nel percorso della costituente ecologista. Si fa un largo uso della parola partecipazione, ma poi si assiste a meccanismi e dinamiche in cui le scelte sono – sostanzialmente – calate dall’alto. Non ho mai smesso di far parte dei Verdi e seguo con grande interesse dall’inizio il tentativo di dare vita al nuovo soggetto politico, ma provo un po’ di disagio nel dovermi sentire, ancora una volta, intruso in quella che considero casa mia, la casa ecologista. Una casa che, negli ultimi vent’anni, ha visto passare tante persone: inquilini, coinquilini, affittuari, subaffittuari, ospiti, imbucati e via dicendo. Per periodi più o meno lunghi e con pretese più o meno larghe. Ogni tanto assisto a qualche “cambio di rotta”, a qualche “nuovo corso” a qualche “rifondazione”. Di solito questi momenti sono accompagnati dalla speranza che il cambiamento produca effetti positivi, per il soggetto politico e, perché no, per la politica ambientale e dei diritti del Paese. Ho quindi cercato di essere presente al maggior numero possibile di iniziative. Ho anche tentato di dare, quando consentito, un contributo al dibattito politico. Anche con qualche difficoltà, visto che i miei impegni – personali e di lavoro – non sempre si conciliano tanto agevolmente con questa scelta. Riconosco il grande lavoro svolto da Angelo Bonelli e dalle persone che lo hanno affiancato in questo difficile momento di recupero della credibilità dei Verdi e sono ben lieto che qualche risultato si stia vedendo. Però gli ultimi appuntamenti mi hanno convinto poco. La “duegiorni” preconfenzionata e autocelebrativa della costituente mi è sembrata prevalentemente un evento mediatico e c’è stato ben poco spazio per l’elaborazione programmatica. Mi aspettavo che questo spazio si sarebbe trovato negli appuntamenti successivi. Ho scoperto, però, che questo spazio non c’era. Era stato nominato un gruppo di lavoro della Costituente, che si è incontrato una prima volta e che si incontrerà di nuovo a Perugia. Ho chiesto come si fa a partecipare a Perugia. Mi è stato detto che non si può. La ragione è del tipo “mica possiamo fare un’assemblea ogni volta”. Prevalgono, come troppo spesso è capitato in passato, le logiche dell’esclusione su quelle dell’inclusione. Come se il rischio fosse che da 50 persone si possa passare a 5000 (magari). Il ragionamento dovrebbe essere impostato in modo completamente opposto e provare a capire se c’è l’opportunità di passare da 50 a qualcosa di più. Sono fermamente convinto che difficilmente si arriverebbe a 100. Sarebbe davvero questo il problema? O non sarebbe invece un problema il rischio di scoraggiare chi davvero crede nel valore della partecipazione. Con grande fatica ho preso parte a diverse iniziative del tormentato cammino dell’ultimo periodo (Firenze, Bologna, Roma, ecc.). Andrò in bicicletta a Perugia e farò la marcia Perugia-Assisi, come ho fatto tante altre volte, per convinzione e non per calcolo politico (l’avevo programmato prima di sapere della concomitanza con l’appuntamento della costituente). Poteva essere una nuova occasione di partecipazione e confronto. Non sarà così. Passerò davanti ad una porta chiusa e mi incamminerò, su una strada aperta, verso Assisi. Il mio simbolo sarà la bandiera della pace.

20 luglio 2011

Genova. Luglio 2001 – luglio 2011. Non dobbiamo dimenticare.


 Quando si parla del G8 di Genova la mente corre subito alle drammatiche immagini degli scontri di piazza, alle scene di violenza e di devastazione. Tutto il resto rimane sullo sfondo, visibile solo agli occhi delle persone più attente e sensibili. Il “resto”, lo sfondo, è qualcosa di ben più complesso e articolato e non può certo essere liquidato con formule del tipo “manifestazioni di protesta” o cose così. Il resto è un movimento che si è sviluppato in tutto il mondo e che ha iniziato a diventare popolare a Seattle. Parliamo di quelli che sono stati definiti “no global” dai media, con una rozza semplificazione. Termine che, per molti media, è diventato, con una procedura di semplificazione ancor più stolta e grossolana, sinonimo di “terrorista”.  Ma il contesto in cui si è sviluppato il “movimento” qual era? E quali erano le questioni in campo? Non se ne parla molto e quasi non se ne parla più. Il contesto era il meccanismo attraverso il quale gli uomini più potenti degli stati più potenti decidevano (e tuttora decidono) le sorti del mondo. Di solito spartendo la torta (delle risorse, dei diritti, delle tutele) con grande vantaggio per i potenti. Qualcuno, paradossalmente quelli che, in ogni caso, traevano beneficio da queste scelte (perché cittadini dei paesi privilegiati), ha cercato di esprimere il proprio dissenso. E così, in quel periodo, ogni riunione dei grandi – una G seguita da un numero a seconda della quantità di partecipanti – era accompagnata da contestazioni di chi chiedeva, semplicemente, un mondo più equo e più giusto.
Vorrei insistere su questo aspetto. Chi andava a manifestare “contro” i G8 erano gli abitanti dei paesi ricchi e sviluppati. Quelli che hanno un tenore di vita elevato grazie al fatto che, da un lato, si sfruttano risorse e manodopera del sud del mondo, pagando sia le prime sia le seconde molto meno del loro reale valore, e che, dall’altro, si impedisce ai paesi poveri di elevare i propri standard di vita, per la consapevolezza che questo pianeta non basterebbe se il livello dei consumi e degli stili di vita di tutta l’umanità uguagliasse quello dei paesi più facoltosi. Se decidessimo di portarci tutti quanti al livello degli statunitensi avremmo bisogno di sette pianeti per poter soddisfare le esigenze di tutti. E allora? Allora chi divide la torta decide le dimensioni delle fette a seconda del proprio potere e i grandi e potenti si beccano le fette più grosse.
Così i “no global”, i “terroristi”, proponevano in realtà una diversa e più equa distribuzione della ricchezza e, in particolare, di non depredare le risorse dei paesi poveri. In sostanza suggerivano qualcosa che – a parole – sostengono tutti i sòloni che si proclamano portatori dei valori della solidarietà e della carità cristiana.
Anche a Genova il quadro era lo stesso. L’unica differenza è che si era appena insediato un governo di destra, xenofobo e reazionario. Un governo diretto da un personaggio privo di carisma e credibilità internazionale, giunto al potere grazie alle sue ricchezze e all’abile utilizzazione dei mezzi di comunicazione e che sentiva fortemente l’esigenza di accreditarsi nei confronti dei (veri) grandi del mondo. Sono state emanate direttive molto inquietanti. E’ stato creato, ad arte, un clima da assedio e da guerra di posizione. E’ stata creata una patetica zona rossa presidiata da schieramenti di forze sproporzionati e irragionevoli. Si è voluto dipingere – da subito – con tinte fosche un quadro che, in origine, sarebbe dovuto essere di festa e di allegria.
In quei giorni ero a Genova. Ho subito incontrato un gruppo di scout e poi alcune suore. C’erano tante ragazze e tanti ragazzi pieni di sogni e di voglia di cambiare il mondo. Quella voglia che si ha quando si hanno vent’anni. Chissà quanti di loro erano stati l’anno prima al giubileo a Roma. Non erano né criminali né terroristi. C’erano anche quelli più agitati, c’erano quelli che si opponevano, un po’ ingenuamente, alla prevaricazione della militarizzazione della città con infantili tentativi di superare le barriere create dalle forze dell’ordine. Armati di scudi di plastica, protezioni di gommapiuma e poco più, affrontavano un nemico armato per davvero. E si è visto e si è capito. Tardi. Purtroppo.
La degenerazione di quei giorni è stata oggetto di troppe analisi e dibattiti. I dubbi sui famigerati black block. Un gruppo davvero violento che agiva – non si sa bene perché – pressoché indisturbato. Gli strani episodi di infiltrazione tra i manifestanti. Lo scandaloso assalto alla scuola Diaz, con scene di violenza da golpe argentino e le successive torture nella caserma di Bolzaneto. Amnesty International aprì un’inchiesta e il giudizio fu tremendo. Una pagina vergognosa nella storia del nostro paese.
Ero lì e osservavo. Ho visto la trasformazione di una festa in una tragedia. La prima sera c’era stato un concerto. Il clima, nonostante la tensione che si cominciava ad accumulare, era ancora allegro e piacevole. Poi le cose sono degenerate in tempi rapidissimi, cogliendo di sorpresa i tanti che erano arrivati a Genova con uno spirito ben diverso dall’atmosfera cupa che si è ritrovato a vivere. Non è mai facile la distribuzione delle responsabilità quando succede qualcosa di spiacevole. Se la logica ha un senso, è facile comprendere che chi ricopriva “ruoli di responsabilità” sia in buona parte responsabile di quello che è accaduto. Si è deciso – e temo con cognizione di causa e con precise finalità – di costruire un clima di contrapposizione feroce tra i manifestanti e le forze dell’ordine. La sensazione è che, per molti poliziotti, chi stava a Genova in quel momento era un “nemico”. Io nutro profondo rispetto per chi svolge un compito di servizio per la collettività e la mia indole mi porta a riporre fiducia nelle persone che indossano una divisa. Mi fido del medico e dell’infermiere che mi hanno in cura, del vigile che regola il traffico e delle forze dell’ordine, a cui spetta il compito di vigilare sulla sicurezza. Non ho mai considerato il “pubblico” - lo Stato o il Comune - come un’entità astratta da guardare con sospetto. Anzi, ho sempre pensato che rappresentasse la forma giuridica di quella comunità di cui mi sento parte, con diritti e doveri, ma soprattutto collaborazione e solidarietà.
Queste mie convinzioni sono vacillate a Genova. Per la prima volta la “divisa” non mi è sembrata un punto di riferimento in positivo. Per la prima volta ho avuto paura dei poliziotti. Leggevo segnali ostili nei loro sguardi e mi sembrava più prudente tenermi alla larga. E gli spazi vuoti, la mancanza di comunicazione, di dialogo, i muri, le barriere, le armi (le armi!), sono esattamente il modo più facile per far germogliare quello che si dichiara di voler impedire: la violenza. E così è stato. Ora dopo ora, la temperatura si è fatta sempre più rovente. Le cariche si sono susseguite e la guerriglia urbana si è diffusa incontrollata nelle zone non presidiate. E’ stata una resa dello stato di diritto. Da una parte si è – colpevolmente – permesso il saccheggio della città, dall’altra le cariche della polizia si trasformavano in raid punitivi che colpivano con feroce brutalità chiunque avesse la sola colpa di trovarsi in un determinato posto e di non essere stato abbastanza scaltro o abbastanza veloce da scappare in tempo. Per molte settimane ho avuto problemi respiratori per l’uso sconsiderato dei gas lacrimogeni – sparati anche ad altezza d’uomo – che venne fatto. Per molti mesi la mia mente tornava ogni tanto a rivivere una sensazione di paura, quella sensazione di paura, assolutamente ingiustificata ed incomprensibile. Solo nei regimi si deve aver paura delle forze dell’ordine. Negli ordinamenti democratici chi agisce in nome e per conto del diritto deve garantire la tutela delle persone, a prescindere dalle (eventuali) colpe. E’ l’habeas corpus. L’inviolabilità della persona. A Genova, all’alba del terzo millennio, è calata una gelida notte sul diritto e sui diritti. Abbiamo pagato un prezzo enorme. Un prezzo che ha permesso di distogliere l’attenzione dalla vera questione: una ristretta elite di persone deve poter continuare a scegliere indisturbata il destino di tutta l’umanità. Una profonda ingiustizia. “Carlo non sopportava le ingiustizie” è una delle prime frasi pronunciate da Giuliano Giuliani, il padre di Carlo. E morire per questo è un’altra terribile ingiustizia. Non dobbiamo dimenticare.

14 luglio 2011

Bilancio, la pubblicità ingannevole della maggioranza

“Il comunicato dell’amministrazione in materia di bilancio è basato su un ottimismo che rasenta l’utopia. Parlare di 4 milioni di investimenti per il 2011 è una vera e propria pubblicità ingannevole nei confronti dei cittadini da parte dell’amministrazione”. Lo dichiara Tullio Berlenghi, capogruppo di minoranza, commentando le dichiarazioni sul bilancio rilasciate dall’amministrazione.
“Che sul bilancio abbiano predisposto un elenco di opere il cui costo (il costo, non il valore) ammonta a circa 4 milioni di euro è vero. Ma è altrettanto vero – prosegue Berlenghi — che nemmeno un quarto di quanto annunciato verrà realizzato nei tempi previsti. E gli amministratori lo sanno bene. E’ giusto quindi che i cittadini sappiano come stanno le cose: le opere sono un libro dei sogni che chissà se e quando vedrà la luce”.
“L’amministrazione ci dica se è disposta a mettere in gioco la propria credibilità politica sulla realizzazione, nei tempi stabiliti dal bilancio, di opere come l’ampliamento della pista ciclopedonale (ossia l’ampliamento di un’opera ancora incompleta) o la ristrutturazione del palazzo di caccia Doria Pamphili. In caso contrario – conclude il capogruppo di Cambiare e Vivere Labico — i nostri amministratori, se davvero vogliono essere corretti nei confronti dei propri cittadini, farebbero bene a dire chiaramente quali opere ritengono che verranno davvero realizzate come da programma. Siamo stufi di sentire sempre le solite chiacchiere  e di vedere un paese immobile e abbandonato a sé stesso”.

4 luglio 2011

Labico/Bilancio 2011: il comune sbaglia, pagano i cittadini!

Con emendamento minoranza finanziate le associazioni sportive. Approvato un ordine del giorno per l’istituzione di una commissione di controllo sull’urbanistica.

Giovedì 30 giugno, dopo nove ore di discussione, la maggioranza ha approvato il bilancio per l'anno 2011. Il gruppo Cambiare e Vivere Labico ha fortemente contestato l’atto, caratterizzato principalmente dai tagli imposti dal governo e dall'aumento del costo della gestione dei rifiuti.

“Un provvedimento lacunoso, con molti lati oscuri e punti interrogativi che non hanno trovato una risposta adeguata in sede consiliare – dichiara il capogruppo di Cambiare e Vivere Labico, Tullio Berlenghi – che va a scapito dei cittadini, tagliando alle associazioni, alla scuola, allo sport e, quindi, mettendo un freno al futuro sviluppo socio-culturale del nostro paese”.

“Il nostro bilancio poteva reggere senza grandi problemi ai tagli governativi - dichiara Benedetto Paris - grazie a numerose entrate straordinarie previste anche per quest'anno e che da tempo sono in crescita (add. Irpef, ici sui terreni del nuovo PRG, multe, oneri di urbanizzazione). Il vero problema di questo bilancio è stato l'aumento di 200.000 euro dei costi della gestione e raccolta dei rifiuti, costi dovuti in buona parte alle mancanze della Giunta Galli – Giordani: siamo l'unico paese che ha avviato la differenziata senza chiedere i fondi alla Provincia di Roma! A Labico sarebbero spettati circa 130.000 euro (il contributo provinciale è, in media, di 28 euro a cittadino) e i costi coprire sarebbero stati di soli 70.000 euro!”

“A causa di questo vero e proprio buco – sottolinea Berlenghi - la Giunta ha aumentato ancora una volta la Tarsu del 5% (+22% in tre anni) e allo stesso modo ha aumentato i servizi dello scuolabus e della mensa, molto più dell'adeguamento all'inflazione”

“Solo grazie ai nostri emendamenti sono stati reperiti 5.000 euro per le associazioni sportive e 10.000 euro per dare alla Provincia l'area necessaria alla realizzazione di un marciapiede in via Marcigliana, - ricorda Paris - mentre invece hanno bocciato le nostre proposte per i fondi alle associazioni culturali e per un contributo alle famiglie bisognose per l'attività sportiva dei bambini tra i 6 e i 14 anni”.

Oltre al bilancio, la notizia di questo consiglio è stata l’approvazione, all’unanimità, di un ordine del giorno, proposto dal consigliere Maurizio Spezzano, per l’istituzione di una commissione straordinaria di controllo sulle attività dell'Ufficio Urbanistica del Comune: “Penso di aver raggiunto l'obiettivo che inseguivo da nove anni, dal giorno in cui sono venuto ad abitare a Labico, il motivo vero – dichiara Spezzano - che mi ha spinto ad impegnarmi in politica, che ha caratterizzato il mio lavoro di consigliere, a volte in silenzio, a volte urlando: fare chiarezza sui troppi lati oscuri di questa materia nel nostro comune. Basta conoscere Labico per constatare di persona la violenza fatta a questo territorio negli ultimi 15 anni”.

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura