26 luglio 2014

#avevaragionesilvio

Che il nostro Paese stia vivendo un momento difficile, sul piano economico e sociale, mi sembra un dato difficilmente contestabile. Che questa difficoltà si superi con delle non meglio precisate riforme è possibile, ma tutt’altro che certo, anche perché – spesso – le riforme con cui si vorrebbe rilanciare l’economia, hanno il non trascurabile effetto collaterale di ridurre diritti e tutele. Che poi le riforme “necessarie” per risollevare le sorti dell’Italia siano quelle costituzionali è davvero tutto da dimostrare. Al di là della sua reale efficacia, lo spirito riformista sembra essere, chissà perché, un’intramontabile arma di seduzione di massa, brandita ogni volta con entusiasmo e convinzione e molte forze politiche e coalizioni hanno promesso ricette salvifiche basate su nuovi e più funzionali assetti del nostro sistema costituzionale. L’ultimo, in ordine di tempo, è l’attuale presidente del consiglio, Matteo Renzi, che sta spingendo la sua proposta di riforma costituzionale con una veemenza davvero incomprensibile. Sia per il discutibile contenuto della proposta, sia per il metodo con cui si sta procedendo: si usa la forza dei numeri, con una propensione al dialogo vicina allo zero e giustificando l’esigenza con affermazioni del tutto prive di fondamento. In questi giorni ho spesso sentito frasi del tipo “E’ il paese che ce lo chiede”. “Gli italiani stanno aspettando le riforme” e via discorrendo. A fare queste affermazioni non è il Presidente del Consiglio nominato a seguito di una indiscussa vittoria alle elezioni, alle quali la sua coalizione aveva portato un programma di governo che conteneva esattamente “questa” proposta di riforma costituzionale. Premesso che anche così io avrei le mie perplessità - ché le regole non le può scrivere una parte (ancorché vincitrice alle elezioni), ma devono essere ampiamente condivise (soprattutto in considerazione del fatto che le regole devono essere un elemento di garanzia per tutti) - l’attuale presidente del Consiglio “non” ha vinto le elezioni (ad essere precisi era uscito anche sconfitto alle primarie). Non le ha vinte il suo partito e non le ha vinte la sua coalizione. In più la sua coalizione non è compattamente in maggioranza, ma una parte (segnatamente SEL) è all’opposizione e contesta questa proposta di riforma. Il suo partito ha condotto una battaglia elettorale contro una coalizione (PDL), una parte della quale è entrata in maggioranza (quindi con buona pace delle proposte programmatiche di entrambi) e tutti, dico tutti, risultano eletti in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale e con una ripartizione dei seggi alterata dal premio di maggioranza. Né l’ampia e indiscussa affermazione del PD alle elezioni europee può diventare il passepartout per fare qualunque cosa. Lo stesso Renzi aveva dichiarato – correttamente - che le europee non avevano una relazione diretta con la politica nazionale e che, in caso di insuccesso, avrebbe mantenuto la guida del governo.  Sicuramente il governo è stato rafforzato dall’ottimo risultato, ma questo non solo non lo rende onnipotente, ma non sana certo i numerosi vizi che ne hanno caratterizzato la genesi. In una situazione di questo tipo sarebbe comprensibile solo una riforma che metta d’accordo l’80 per cento del Parlamento. Non certo una riforma che si basa su un accordo segreto con un alleato quantomeno “imbarazzante” e che trova una ferma opposizione sia in una parte significativa dell’emiciclo, sia nel Paese (checché ne dicano Renzi e, purtroppo, i troppi media sensibili al potere).
Sempre a proposito del metodo, non dobbiamo dimenticare la precedente proposta di modifica costituzionale, che dieci anni fa un Berlusconi in gran spolvero (e corroborato da una solida maggioranza) impose con la forza al Parlamento, attirandosi le accuse e le critiche degli stessi che adesso usano le medesime armi per far passare le proprie scelte. Con la piccola differenza che Berlusconi le elezioni politiche le aveva vinte sul serio. Solo il referendum popolare permise la cancellazione di quella modifica costituzionale, così tanto criticata dall’allora centrosinistra. Quando Ciampi firmò la legge il coordinatore della segreteria DS, Vannino Chiti, dichiarò "Il fatto che il presidente della Repubblica abbia controfirmato la legge elettorale voluta dalla destra nulla toglie né alle critiche né ai rilievi che il centrosinistra ha sollevato né alle critiche severe di metodo" aggiungendo che "La destra, calpestando ogni regola di rapporto con l'opposizione si è confezionata una legge non pensando all'Italia ma ai suoi ristretti interessi".
Ma la critica era anche nel merito e se quella di Berlusconi era un attentato e quella di Renzi è la panacea di tutti i mali c’è qualcosa che non quadra. Perché, in tal caso, qualcuno deve avere cambiato idea, visto che adesso gli avversari dell’epoca sembrano andare d’amore e d’accordo. Proviamo a vedere alcuni punti della proposta, magari confrontandoli con quella di Berlusconi.
La prima differenza è all’articolo 55. Mentre Berlusconi riduceva il numero dei parlamentari in entrambi i rami del Parlamento - in ossequio alla bufala sui costi della politica, mentre la progressiva riduzione degli eletti è  soprattutto un taglio alla rappresentanza ed alla democrazia – lasciandoli entrambi elettivi, Renzi trasforma il Senato in un organo di rappresentanza di secondo livello, con l’evidente obiettivo di ridurre la rappresentanza diretta dei cittadini ed aumentare il potere degli eletti nelle autonomie locali (il suo ambito naturale di riferimento).  La logica è quella di avere pochi eletti con molte leve del potere e minori meccanismi di controllo. I doppi incarichi sono da sempre una delle più preoccupanti forme di inefficienza e creano sgradevoli cortocircuiti e conflitti di interesse. Chi svolge con scrupolo il proprio ruolo di eletto, anche se è un semplice consigliere comunale, non ha molto tempo per dedicarsi ad altro e una vera importante riforma sarebbe proprio quella di impedire i doppi incarichi. La riforma di Berlusconi prevedeva delle limitazioni, quella di Renzi, no.
Renzi lascia inalterato il numero dei deputati, mentre Berlusconi li avrebbe ridotti da 630 a 518. Come ho detto non mi entusiasma il principio, ma, sotto questo aspetto, quella riforma era più coerente. E addirittura riduceva l’età di eleggibilità a 21 anni. Un altro aspetto non disprezzabile della riforma berlusconiana era l’introduzione di una maggioranza qualificata per le modifiche regolamentari, proprio per evitare i colpi di mano di maggioranze prepotenti (ed è quello che dovrebbero pensare tutti quelli che si ritrovano ad avere in mano le leve del comando: una contrazione dei principi democratici potrebbe in futuro penalizzarli).
Per il resto, con modalità e meccanismi differenti, entrambe le riforme costituzionali puntano non tanto (o almeno non solo) alla governabilità – anche comprimendo i diritti dell’opposizione -, ma ad un quadro istituzionale verticistico in cui sempre meno persone decidono per tutti, il Parlamento viene ridotto ad un organo di ratifica delle decisioni assunte dal Governo e lo spazio per il dissenso (anche quello interno a partiti e coalizioni) e sempre più ristretto e soggetto a facili ricatti. Questo anche grazie ad una proposta di legge elettorale terribilmente simile a quella dichiarata incostituzionale che permette alle segreterie dei partiti di decidere i parlamentari.

Sappiamo che in politica si cambiano con una certa disinvoltura coalizioni ed alleanze e, con loro, si cambiano o, meglio, si ammorbidiscono idee e convinzioni. E il ventennio berlusconiano ci ha regalato un lento quanto inesorabile avvicinamento dei due schieramenti avversi e distanze che un tempo sembravano siderali adesso si sono praticamente annullate. Mi piacerebbe sentire solo qualcuno dei leader che dieci anni fa (un’era geologica in politica, mi rendo conto) tuonava contro la riforma costituzionale di Berlusconi (tra cui lo stesso Renzi, come evidenzia il Fatto di oggi) dire: "scusate, abbiamo sbagliato, in fondo le riforme di Berlusconi (e lo stesso Berlusconi) non erano poi così male", magari con un bell’hashtag: #avevaragionesilvio.

Alle colonne d'Ercole

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