29 dicembre 2012

Equilibrismi di bilancio


L’esercizio del diritto di critica infastidisce molto il nostro sindaco e immagino che non apprezzerà troppo questo mio articolo. Già in passato l’avere espresso perplessità sul suo operato di amministratore mi è costato un causa al tribunale di Velletri. Non mi limiterò dunque a dire quello che penso del nostro primo cittadino e del suo modo di amministrare, ma farò alcune considerazioni basate sulle sue affermazioni e sulle azioni conseguenti. Penso – ad esempio – alla solenne promessa di riduzione dell’IMU in campagna elettorale. Promessa prontamente disattesa. Penso ai continui impegni di rispettare norme e statuto comunale in tema di convocazione delle commissioni, revisione dello statuto, risposta alle interrogazioni consiliari e calendarizzazione delle mozioni. Tutta roba che non dovrebbe essere (come lui pensa) frutto della sua gentile concessione, ma un vero e proprio dovere istituzionale. Niente da fare. Lui continua ad essere convinto di essere il padrone del paese e nulla glielo toglie dalla testa, nemmeno il devastante calo di consensi registrato nell’ultima consiliatura. A Labico meno di un terzo degli elettori ha votato per la sua lista (in pratica quando gira per strada sa che, su 10 persone che incontra, 7 non lo hanno votato, sarà per questo che è spesso di cattivo umore). E questo prima che si rimettesse nuovamente sulla poltrona di primo cittadino. Da maggio in poi non ne ha fatta una buona. E’ riuscito ad aumentare in modo punitivo ogni tassa e tariffa di competenza comunale, a fronte di una pessima qualità ed efficienza dei servizi. Nei giorni scorsi ai cittadini è arrivata la TARSU ed è stata una nuova stangata, che ha sancito il totale fallimento della raccolta porta a porta. Della quale si ostina a negare dati che dovrebbero essere pubblici, ma che lui si guarda bene dal divulgare, forse per la vergogna. E’ già riuscito a perdere un pezzo della giunta comunale. Ancora una volta nel silenzio più totale, senza darne alcuna comunicazione in consiglio, in totale spregio delle normali regole di trasparenza, di democrazia e di rispetto per l’organo sovrano dell’amministrazione comunale. Continua a negare il permesso di fare le riprese video dei consigli comunali, abusando in modo ignobile del proprio potere e ledendo vergognosamente i diritti dei cittadini che vorrebbero essere informati sull’attività dell’amministrazione.  Dopo l’esilarante giustificazione dello “statuto dei lavoratori”, l’ultima motivazione è la mancanza di un regolamento, che lui ovviamente non proporrà mai (ma che si impegna ad approvare).  Del resto bisogna capirlo. Meno gente viene a sapere cosa viene detto in consiglio comunale e meglio è per lui e per la sua calante credibilità. L’ultimo consiglio comunale è servito ad approvare gli equilibri di bilancio. Un documento contabile che avremmo dovuto approvare entro la fine di novembre, ma che Galli – convinto che a rispettare le leggi debbano essere solo gli altri – ha portato all’esame del consiglio solo il 27 dicembre, dopo il richiamo della prefettura. Anche in questo caso la recalcitranza  è comprensibile e l’idea di approvarlo tra Natale e Capodanno con i cittadini distratti dalle feste natalizie gli deve essere sembrata geniale. La relazione, infatti, è l’ennesima riprova del disastro di un’amministrazione incapace e incompetente.  E’ a causa loro che ci troviamo con un debito di quasi quattro milioni di euro (in pratica l’intero bilancio comunale) e Galli continua a comportarsi come se si trattasse di un banale imprevisto. Invece era tutto prevedibile e, soprattutto, prevenibile. L’inadeguatezza del depuratore è dipesa dall’incapacità programmatoria degli ultimi vent’anni (chissà chi amministrava il paese) e dalla commissione di reati contro l’ambiente e la salute, per i quali sono indagati anche amministratori comunali. Ma a pagare, secondo Galli, dovranno essere i cittadini. E l’ha messo nero su bianco sulla delibera che prevede la svendita di pezzi del nostro patrimonio e approvata con deprimente prontezza e avvilente silenzio da tutti i consiglieri comunali di maggioranza: Giorgio Scaccia, Nadia Ricci, Luciano Galli, Mirko Ulsi e Adriano Paoletti. In compenso l’ineffabile Alfredo Galli ha dato – se mai ce ne fosse bisogno – un’ulteriore prova della sua scarsissima affidabilità, etica e politica. Quando Spezzano ha fatto notare la presenza della lunga lista di debiti contratti con gli autotrasportatori per un totale di 3,7 milioni di euro, Galli ha detto che non significava niente e che mica è detto che questi soldi verranno dati a chi ha svolto il servizio. Era già successo in precedenza. L’ardita tesi di Galli è la seguente: l’atto amministrativo con cui l’ente locale si impegna ad onorare una determinata spesa non significa che poi quei soldi verranno spesi sul serio. Quindi nessun documento approvato dalla giunta o dal consiglio (gli unici a cui i comuni cittadini possono accedere) ha alcun valore. Lui può, in qualunque momento, decidere di bloccare l’erogazione delle risorse (in barba alla competenza e responsabilità dei dirigenti). Un delirio di onnipotenza sconcertante e preoccupante, ma anche una manifesta propensione a mentire. Se Galli stesso, infatti, dichiara non attendibili gli atti da lui stesso sottoscritti, ammette implicitamente di essere un bugiardo. Il problema è che, ormai, l’hanno capito tutti. E, a parte chi pensa di trarne un beneficio personale, non credo saranno in molti a rinnovargli la fiducia alle prossime elezioni. Ma l’attaccamento alla poltrona è troppo forte per ammettere la disfatta politica e Galli cerca di vivere, anzi di vivacchiare, o meglio sopravvivere, alla giornata. Approvando alla bell’e meglio gli atti di cui proprio non può fare a meno e limitandosi al  rispetto minimo sindacale delle regole democratiche. Questa volta si è trattato degli equilibri di bilancio, che vista la precarietà, andrebbero denominati equilibrismi.

26 dicembre 2012

Il "pacco" di Natale


La strenna natalizia dei nostri amministratori non è, come si potrebbe pensare, la seconda rata dell’IMU, ossia il ripristino di un imposta sugli immobili voluto dal governo Monti per sanare i conti pubblici e che Galli aveva promesso – in campagna elettorale – di ridurre al minimo (e invece ha alzato quasi al massimo). Non è neppure la TARSU che ci avevano promesso sarebbe stata ridotta e che è invece schizzata alle stelle, probabilmente anche a causa del fallimento della raccolta porta a porta (i cui dati sono rigorosamente top secret). No, la strenna natalizia è ancora peggio degli altri due "regali" dei nostri amministratori ed è ben nascosta dietro un documento contabile denominato “verifica degli equilibri di bilancio”, previsto dalla normativa vigente e che serve a monitorare lo stato dei conti dell’amministrazione. La norma prevede che questa verifica debba essere fatta almeno una volta all’anno (ma di più con amministratori come i nostri non è neppure immaginabile) entro il 30 settembre. Quest’anno c’è stata una proroga e il termine è slittato al 30 novembre. Con due mesi in più a disposizione ci si sarebbe aspettato che i tempi venissero rispettati. Invece – neanche a dirlo – i nostri ineffabili amministratori non sono riusciti nell’arduo compito e si sono fatti richiamare dal prefetto che ha indicato un nuovo termine per l’approvazione. Ovviamente è saltato anche quello e il nostro comune (che, in teoria, potrebbe essere destinatario di un provvedimento di scioglimento) si appresta a votare degli equilibri di bilancio che – considerati i tempi – assomigliano molto ad un rendiconto.
La prima cosa che salta agli occhi è l’enorme divario tra il quadro contabile della previsione di bilancio (sostanzialmente confermata dall’assestamento) e la situazione fotografata con la verifica degli equilibri. L’importo complessivo si riduce di oltre il 40 per cento. Si passa infatti da 9,7 milioni di euro a 5,7 milioni di euro nella fase di accertamento. In compenso, nonostante pochi giorni separino la data di approvazione degli equilibri dall’ultimo giorno dell’esercizio finanziario, la stima finale è un po’ più ottimistica: 6,5 milioni di euro. In pratica la maggioranza è convinta di reperire 800mila euro tra natale e capodanno (e non è una metafora).
La conseguenza (speculare) di questa drastica riduzione di risorse disponibili si riverbera sugli investimenti. Le famose opere pubbliche, il cui elenco viene tramandato di consiliatura in consiliatura, rimangono così a svolgere una funzione ornamentale dei programmi elettorali della maggioranza. I settori che pagano il prezzo più alto all’assoluta mancanza di capacità programmatoria dei nostri amministratori sono quelli delle infrastrutture e della gestione del territorio e dell’ambiente per i quali risultano impegnati rispettivamente il 2,7 e l’8,8 per cento dell’assestamento. Un altro fallimento.
Basterebbe questo per classificare negativamente il bilancio e chi se ne assumerà la responsabilità politica di fronte ai cittadini. Galli, invece, ci tiene a dimostrare che al peggio non c’è mai fine e inserisce, finalmente, i primi dati ufficiali sulla questione dei depuratori. Aveva fatto finta di niente nei due precedenti documenti contabili, ma stavolta non è proprio riuscito ad ignorare la questione. E così, ci ritroviamo la bellezza di 3,7 milioni di euro di “gestione straordinaria”, per la quale si dovrà aprire una procedura di riconoscimento di debiti fuori bilancio. Un buco enorme in un quadro finanziario come quello di Labico. L’ordine di grandezza è lo stesso dell’intero ammontare delle spese correnti.
Il vero problema è che a nessuno degli amministratori viene in mente che il danno economico è stato causato da probabili responsabilità (politiche, amministrative e penali) nella programmazione, realizzazione, affidamento e gestione degli impianti di depurazione. E che, in diritto, chi è causa di un danno ne deve sostenere gli eventuali costi. Per i nostri amministratori, invece, è normale che un danno causato da terzi venga ripagato dagli stessi cittadini che non solo non hanno alcuna responsabilità, ma che stanno vivendo anche il disagio conseguente a quel danno.
La “soluzione” individuata da Alfredo Galli e dalla sua maggioranza è molto semplice. Si vende un pezzo di patrimonio pubblico (probabilmente dei locali a Palazzo Giuliani, ma non si preoccupa certo di spiegarlo) per circa 200mila euro, si spostano due tranche del debito (per un totale di 624mila euro) nelle annualità successive (2013 e 2014) e, in appena cinque nebulosissime righe ci informano che – probabilmente – intendono regalare opere e infrastrutture del servizio idrico ad ACEA per un valore di 2,6 milioni di euro. E ACEA, che non è esattamente l'Opera Pia Misericordiosa delle Carmelitane scalze, a chi andrà a bussare cassa per recuperare il sostanzioso investimento? Alla porta di Alfredo Galli e Giorgio Scaccia o alla porta di tutti i cittadini labicani con un bell’aumento di tutte le tariffe idriche? E perché sul documento contabile si parola di un “trasferimento in itinere” di beni pubblici senza che nessuno ne sia a conoscenza?
Ma le anomalie non finiscono qui. Dalla lettura della relazione sugli equilibri di bilancio sembra che il riconoscimento dei debiti fuori bilancio avvenga in modo automatico per il loro inserimento nel quadro contabile. In realtà – ed è la stessa relazione ad evidenziarlo – il riconoscimento deve avvenire con deliberazione apposita, contestuale a quella di verifica degli equilibri. Perché non è stata predisposta la delibera “ad hoc”, come indicato dalla stessa relazione? Forse perché mancano i requisiti che la legge stabilisce per il riconoscimento dei debiti? Del resto la normativa in merito parla chiaro e indica un sentiero piuttosto stretto per riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio. Già in passato i nostri amministratori avevano fatto una forzatura inserendo come debiti fuori bilancio spese causate dalla loro incapacità e che non avevano portato – come stabilisce la legge – “utilità ed arricchimento per l’ente”. Anche in questo caso ci sembra che vi sia ben poca utilità e gli unici ad arricchirsi sono gli autotrasportatori.
Insomma, ancora una volta ci arriverà il conto per i pasticci combinati da Galli e compagnia nell’allegra gestione della pubblica amministrazione. Ancora una volta ci sono molte criticità che potrebbero portare la magistratura contabile ad accertare gravi responsabilità per danno erariale. E chi, giovedì 27 dicembre, voterà per la scandalosa delibera che Galli e Scaccia proporranno in consiglio, si assumerà una grossa responsabilità, politica e amministrativa. A cominciare dal punto quattro della premessa della delibera, secondo il quale “nel corso dell'esercizio si sono verificate delle esigenze straordinarie di spesa non conoscibili o non definibili con precisione in sede di costruzione del bilancio di previsione e dei suoi allegati”. Ebbene, quando è stato fatto il bilancio di previsione sapevano anche i sassi che avremmo dovuto sostenere costi per almeno 2-3 milioni di euro (lo diceva la stessa relazione al bilancio, bastava leggerla). Negare anche l’evidenza non solo è un insulto al buon senso, ma è anche un vero e proprio falso. Tra l’altro in un atto pubblico. I consiglieri di maggioranza che voteranno a favore di quella delibera condivideranno anche quel punto. E non faranno certo una bella figura. Noi, più che metterli sull’avviso, non possiamo fare. Ah, dimenticavano: Buon Natale.


Maurizio Spezzano e Tullio Berlenghi

19 dicembre 2012

Giunte a geometria variabile


E’ chiaro il motivo per il quale il nostro sindaco, Alfredo Galli, è così ostile alla trasparenza e usa tutte le armi, al limite del lecito, per rendere la vita difficile a chi cerca di capire come funziona la macchina amministrativa. Magari – ad esempio – inventandosi le scuse più miserabili per proibire la registrazione delle sedute del consiglio comunale. Un po’ più complicato impedire la pubblicazione degli atti di giunta e di consiglio, anche se – bisogna riconoscere – fa di tutto perché avvenga il più tardi possibile e con atti che contengano il minimo indispensabile. Però, anche con queste limitazioni, è sempre molto istruttivo dare un’occhiata al nostro albo pretorio on line.
In questi giorni sono state pubblicate due delibere, la n. 84 e la n. 85 del 2012. L’ultima delibera pubblicata risaliva a novembre ed era la n. 82. E la n. 83? Non se ne sa nulla. In teoria potrebbe esistere e produrre effetti giuridici, senza che nessuno lo sappia. Qualche maligno potrebbe pensare che in questo modo si potrebbero nascondere imbrogli grandi e piccoli. Noi, ovviamente, non lo pensiamo, però saremmo più tranquilli se vedessimo la normale e corretta pubblicazione delle delibere man mano che vengono approvate e non “congelate” in attesa di non si sa bene cosa.



La numero 82 aveva una giunta composta da quattro persone. Galli, Scaccia, Ricci e l’onniassente Mirko Ulsi, il primo degli eletti della maggioranza, ma con imbarazzante tasso di partecipazione alle riunioni di giunta. Circola una fantasiosa voce secondo la quale l’obiettivo del giovane assessore sarebbe stato quello di ottenere – grazie alla carica istituzionale – il trasferimento in zona, ottenuto il quale si sarebbe dimesso da assessore per lasciare spazio ad altri. Un simile scenario sarebbe talmente desolante ed umiliante (anche per chi ne dovesse divenire complice) da renderlo del tutto incredibile. Resta il fatto che la giunta, da novembre a dicembre, si è improvvisamente contratta, come dimostra la delibera n. 84. Da quattro è passata a tre. Senza che nessuno si degnasse di comunicare questo cambiamento. Ulsi non è più “assente”, semplicemente non è più in giunta. E nessuno lo ha sostituito. C’è un assessorato vacante? Galli ha preso l’interim dell’urbanistica? Ossia ha ufficializzato il governo della materia di cui si occupa da sempre, anche se ha sempre preferito affidarlo formalmente ad altri? Il plenum della giunta è stato ridotto da quattro a tre senza dir nulla a nessuno? C’è uno straccio di atto di dimissioni? Di revoca dell’incarico? Di un qualunque accidente che faccia capire cosa succede nelle stanze del Palazzo? No. Nulla di nulla. In compenso bastano tre persone a ratificare lo sperpero di 12500 euro pubblici, senza capire chi ha intascato quanto. L’unica, amara, considerazione è che le iniziative organizzate dalle associazioni, a costi decisamente più bassi, sono state di gran lunga più vitali e partecipate del famigerato incantesimo della notte di mezza estate, con tanto – come recita la delibera – di “ricco buffet”. Non oso chiedere chi si è seduto intorno al tavolo apparecchiato con il “ricco buffet”.

30 novembre 2012

Un giorno in pretura


La frequentazione dei tribunali è molto istruttiva. L’ho scoperto solo di recente, da quando seguo la politica locale, ma sto recuperando un po’ del tempo perduto. Per questo devo ringraziare Alfredo Galli e il suo personalissimo modo di amministrare. Noto a tutti, ma che quasi nessuno ha mai avuto il coraggio di contrastare seriamente. Io l’ho fatto e questo mi ha portato a conoscere piuttosto bene la strada che separa Labico da Velletri, sede del tribunale – penale e civile – competente per il nostro territorio.

Qualche giorno fa sono stato, in qualità di parte civile, all’udienza del processo contro Alfredo Galli. Il reato contestato dal pubblico ministero, che ne aveva chiesto il rinvio a giudizio, è “abuso d’ufficio”. Una bazzecola. Un semplicissimo “reato contro la pubblica amministrazione”. Si parla di indebita distrazione di fondi pubblici. Robetta. Tra l’altro lui non è semplicemente indagato. E’ imputato. Per una cosa così, neppure il suo partito di riferimento – il PDL, notoriamente un partito molto “elastico” sulle vicende penali dei propri rappresentanti – potrebbe candidarlo, a sentire le ultime dichiarazioni del segretario Alfano. Invece lui non solo non ha fatto una piega, ma si è anche ricandidato come sindaco.
L’altro giorno, però, era particolarmente nervoso. Dall’esame dei testimoni e degli imputati sono emerse diverse incongruenze sulla vicenda.
Provo a ricostruire in modo sintetico i fatti. Nella scorsa consiliatura l’opposizione scopre, complice una piccola ingenuità nella redazione di una delibera, che da un paio d’anni l’amministrazione comunale “regalava” l’erogazione di cinque pasti ad una struttura privata. Senza uno straccio di atto amministrativo, senza alcunché ne dimostrasse l’interesse pubblico. Abbiamo sollevato la questione e la risposta è stata volgare e arrogante. Il succo era “comandiamo noi, punto”. Di fronte ad un simile atteggiamento abbiamo chiesto tutti gli atti e li abbiamo trasmessi alla magistratura, affidando a loro la valutazione sulla legittimità delle procedure. Il pubblico ministero ha subito individuato delle palesi irregolarità e ha avviato una serie di indagini, al termine delle quali il sindaco è stato rinviato a giudizio. Solo ieri, dopo circa due anni, c’è stata la prima udienza “interessante”. Sono stati ascoltati Scaccia, la responsabile della struttura e Galli. Il sindaco ha smentito alcune affermazioni di Scaccia, che ha sostanzialmente preso le distanze dalla procedura di assegnazione del patrocinio, decisamente molto disinvolta. La beneficiaria del patrocinio ha spiegato che, per ottenere l’erogazione dei pasti, è stato sufficiente un incontro nell’ufficio del sindaco. Galli ha chiamato il responsabile dell’ufficio e gli ha detto di fare avere cinque pasti al giorno alla struttura. Non c’è stato bisogno di altro. Un po’ insolito, vero? Sono comunque migliaia di euro di costi aggiuntivi per l’amministrazione comunale e Alfredo Galli - che all’epoca avrà avuto “appena” 25 anni di esperienza come amministratore tra consigliere, assessore, vicesindaco e sindaco – non si è posto il problema di rispettare le procedure di legge, non sì è chiesto se l’appalto prevedesse una simile possibilità, non ha pensato che, essendoci un impegno di spesa, era necessario quantomeno un visto di regolarità da parte dell’ufficio competente. Del resto, se non fosse stato per un’ingenuità, non se ne sarebbe saputo nulla. E ci si chiede: in quante altre occasioni il sindaco avrà disposto in modo così spigliato delle risorse pubbliche?
La strategia processuale viaggia su due binari: si sta cercando, da un lato, di sminuire la gravità della vicenda, e, dall’altro, di dimostrare la regolarità della procedura. E’ infatti comparso un documento, privo di numero di protocollo, che dovrebbe rappresentare l’atto amministrativo con cui il sindaco avrebbe dato le disposizioni necessarie. Per il resto buio assoluto. Ci si basa solo su presunzioni indimostrabili. “Tutti sapevano”, “Tutti erano stati informati”. Ma tutti chi? Non c’è un solo documento che attesti la trasparenza di quanto avvenuto, anzi. I maldestri tentativi di rabberciare la situazione hanno dato vita ad un sacco di contraddizioni. Ad un’udienza hanno addirittura fatto pervenire una pagina del bilancio, dalla quale si sarebbe dovuto desumere che l’iniziativa aveva finalità sociali (l’ho fatto a fin di bene, è la tesi). Peccato che la pagina non dimostri alcunché e, soprattutto, il capitolo citato non è quello da cui sono stati presi effettivamente i soldi.
Per quale motivo un sindaco dovrebbe destinare risorse pubbliche ad un’attività privata senza avere la certezza di un vantaggio per la collettività? Che l’attività privata sia di interesse pubblico non è in discussione, ma è anche vero che la finalità – legittima, per carità – è comunque quella del guadagno. Anche il panettiere e la farmacia sono di interesse pubblico. Se non ci fossero sarebbe un problema. Però nessuno immagina che un sindaco possa decidere – ad esempio – di cedere loro un locale del comune schioccando semplicemente le dita. E Galli sa bene che non poteva farlo. E lo sapeva anche quando ha ostentato il proprio potere di fronte alla giovane imprenditrice chiamando il funzionario e indicandogli quello che doveva fare. Durante la difesa in aula Galli ha citato la legge Bassanini sulla responsabilità dei funzionari. In pratica, è la tesi del sindaco, io non ho deciso praticamente nulla. Ha fatto tutto il dirigente. Se c’è un errore, l’ha fatto lui. Immaginiamo la situazione. Un potente sindaco intima ad un funzionario di dare seguito ad una sua richiesta. Mancano i presupposti giuridico-amministrativi. Lo sanno entrambi. Ma il sindaco ha appena fatto lo “splendido” (come si dice a Roma) e il funzionario sa che il suo “status” all’interno dell’amministrazione dipende da quel sindaco. Tra l’altro ci sono le elezioni amministrative alle porte e questo tipo di azioni genera gratitudine e la gratitudine si trasforma facilmente in consenso. Il funzionario avrebbe dovuto dire: “Certo sindaco, appena approvate la delibera di giunta, faccio la determina”. Ma, probabilmente, lo sguardo del sindaco non lascia spazio ad esitazioni. Quella cosa va fatta e subito. Senza troppi appesantimenti burocratici. In fondo ogni mese il comune paga migliaia di euro per i pasti. In parte vengono recuperati con la vendita dei buoni pasto, ma la copertura dei costi è sempre piuttosto bassa. Quanto vuoi che incidano su un capitolo di spesa per il quale la previsione è sempre piuttosto incerta? Tanto vale chiamare la ditta (non risulta, infatti, neppure anche un ordine scritto) e chiedere di portare cinque pasti da un’altra parte. Non è previsto dall’appalto (e anche qui si viola la legge) ma anche la ditta avrà avuto le sue buone ragioni per non stare a fare troppe storie. L’irregolarità nasce tutta qui. Da questa approssimazione mista a debolezza, connivenza o interessi. Certo, poi, anche se parte un’indagine della magistratura, gli anni passano, i ricordi diventano sbiaditi e le cose sembrano meno gravi. Poche migliaia di euro. In fondo è una struttura che serve. Magari davvero si è abbassato il costo della retta per le famiglie. Inoltre ci vanno di mezzo quelli che c’entrano poco o niente: il privato (che non è tenuto a conoscere le procedure) o il funzionario (che è comunque l’anello debole).
Non so come andrà a finire. Gli atti processuali dimostrano – senza tema di smentita – che c’è qualcosa di piuttosto singolare nella procedura. Intanto, non solo manca agli atti un documento che attesti la richiesta di patrocinio. La risposta, in compenso, c’è. E’ un atto firmato dal sindaco, datato settembre 2006, ma non protocollato. In sostanza – se il documento è autentico, ma l’assenza del protocollo e l’evidente fretta con cui è stato scritto giustificano eventuali dubbi – il sindaco concede il patrocinio prima ancora di autorizzare l’attività, che avverrà solo due mesi dopo, a novembre del 2006. Facciamo il confronto con la recente richiesta di sostegno economico del gruppo donatori di sangue. La finalità è evidentemente più che meritoria e senza alcun fine di lucro. La somma è decisamente modesta, appena 200 euro. Eppure è stata necessaria una richiesta scritta e regolarmente protocollata a cui ha fatto seguito una delibera di giunta, provvista del visto di regolarità contabile. Tutto questo per soli 200 euro. Mentre, per migliaia di euro l’anno ad un’impresa privata sono bastati un colloquio nell’ufficio del sindaco e un paio di telefonate. Tutto molto strano. Così come è strano che, subito dopo la scoperta, si siano precipitati ad annullare l’erogazione dei pasti, quasi a riconoscere l’errore. Ed è strano anche che, durante l’iter processuale, l’amministrazione abbia deciso – con delibera di giunta - di fornire la tutela legale (pagata quindi con i soldi pubblici) al proprio dirigente. L’avvocato è lo stesso che, all’inizio, difendeva anche il sindaco. Massima fiducia nella deontologia professionale degli avvocati, ma è un altro segnale che non tranquillizza. Chi non può certo stare tranquillo è il dirigente, a cui, a quanto pare, Galli sta cercando di scaricare ogni responsabilità. Tra l’altro la delibera stabilisce che, in caso di condanna, le spese legali non le sosterrebbe più l’amministrazione, ma il dipendente. Oltre al danno, la beffa.

26 novembre 2012

La solitudine dei numeri


Alla fine contano i numeri.  Questa frase l’avrò sentita decine di volte da quando seguo la politica locale. E’ la perfetta sintesi del comune sentire dei “pragmatici” della politica. Quelli che ti dicono “vanno bene le idee, vanno bene le competenze, ma senza i voti…” e la frase rimane solennemente sospesa. Il tono e la postura sono quelli di chi la sa lunga. Ostentano cattedratica saggezza. L’aposiopesi serve a sottolineare la gravità dell’assunto. Senza rendersi conto che l’interlocutore, spesso, si sente un po’ come Totò di fronte alle perle di saggezza di De Filippo (“e ho detto tutto”, “Ma che dici con questo ho detto tutto, che non dici mai niente?”).
Qualche volta, però, i numeri sono dispettosi e condannano proprio chi li trasforma in oggetto di culto. Pensiamo, ad esempio, alle recenti primarie. A Labico, per le primarie, si è spesa, con grande impegno, una lista civica, attraverso i suoi più autorevoli esponenti (consigliere comunale, segretari di sezione, candidati più votati) e persino il vicesindaco – di altra lista, quindi – ha dato il proprio contributo. Dalle dichiarazioni dei giorni precedenti il voto ci si sarebbe aspettati una grandissima partecipazione e un sostanziale plebiscito per il segretario del PD, Pierluigi Bersani, sostenuto in modo unanime dalla nomenclatura locale del partito (e non solo). Invece le cose sono andate diversamente. Rispetto ai pochi, pochissimi, votanti, c’è stata una buona affermazione di Vendola (SEL) e un ottimo risultato di Renzi, che non risulta essere stato appoggiato da nessuno a livello locale.
Se dovessero contare “questi” numeri, l’alleanza alla base della lista dovrebbe subire un sostanziale cambiamento degli equilibri interni. Chissà, magari questa volta i numeri non conteranno. Questa è una delle ragioni per cui talvolta la politica appare così poco comprensibile. Per molti politici i numeri sono imprescindibili quando fanno comodo, ma se, alla conta, si trovano in difficoltà, le valutazioni diventano altre. Alle brutte possono sempre autoproclamarsi “vincitori morali”.

24 novembre 2012

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne


In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne l'associazione "Socialmente donna" di Labico ha organizzato tre giorni di iniziative. Questo è il mio contributo. Racconto la storia dell'ultima donna condannata a morte nel Regno Unito: Ruth Ellis.

Ruth

Ruth Ellis e Albert Pierrepoint si incontrano il 13 luglio del 1955. Non è esattamente un appuntamento galante, il loro. Ruth è una splendida donna. Ha 28 anni. E’ bionda e attraente. Ruth ha ucciso un uomo. E’ un assassina. Albert di uomini (e di donne) ne ha uccisi molti di più… Però, tecnicamente – almeno sul piano del diritto –, non è un assassino. Albert è un boia, lui uccide, sì, ma per lavoro. E il suo lavoro, in quella tiepida mattina di luglio, si chiama Ruth Ellis.
Siamo nel Regno Unito, uscito vincitore dal conflitto mondiale e animato da un grande fermento sociale, culturale ed economico. Winston Churchill si è appena dimesso da primo ministro. La regina è Elisabetta II, sì, proprio lei. E’ salita al trono da soli due anni ed è molto giovane. E’ una coetanea di Ruth. Ma l’orologio della vita di Ruth si fermerà quella mattina. Alla regina le cose andranno decisamente meglio.
Albert è un professionista scrupoloso. Figlio d’arte. Il padre, Henry, gli ha insegnato molto presto il mestiere e lui ormai sa fare molto bene il suo lavoro. Lo strumento usato per le esecuzioni nel civilissimo Regno Unito è la forca. I malviventi vengono impiccati. E se la pena capitale è barbarie, l’impiccagione lo è un po’ di più. Il rischio è che l’esecuzione si trasformi in un’angosciante agonia. Albert lo sa bene e ha studiato, come fa sempre, con cura la situazione. Ha preso le misure di Ruth e ha preparato gli strumenti: il metro da sarto, una corda di due metri e mezzo e un peso di 47 kg da legare ai piedi di Ruth. Il peso serve a ridurre al minimo la sofferenza, ma non deve essere eccessivo per non rischiare che la scena di morte diventi ancora più cruenta. I preparativi producono l’effetto desiderato. Ruth ci mette appena 12 secondi a morire. Certo, per la povera Ruth quei 12 secondi saranno stati interminabili, ma meglio di così Albert proprio non poteva fare. Poi, per un’ora, il corpo senza vita di Ruth rimane appeso al patibolo. L’esecuzione pubblica e l’orrore supplementare dell’esposizione del corpo trovano la loro giustificazione in una cultura giuridica che attribuisce alla pena un’efficacia sotto il profilo della prevenzione (la vista di quel corpo senza vita penzolante come monito al rispetto delle leggi).
Fermiamoci un istante e torniamo indietro. Chi è Ruth?

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Ruth Hornby è una donna affascinante, bionda e appariscente. Nata nel 1926 (come Elisabetta…) in una cittadina gallese sul mare, dalle parti di Liverpool. Il padre suonava il violoncello e la madre era una rifugiata belga. E’ la terza di sei figli. Origini modeste, dunque, ma Ruth non si può certo definire figlia del degrado e della disperazione.
Certo, è cresciuta in fretta, ma è difficile misurare le cose con il metro dei nostri tempi. Ruth, ad esempio, ha iniziato a lavorare come cameriera a 14 anni. Nulla di strano, all’epoca. Così come non è insolito che una ragazza rimanga incinta a 17 anni, come capita a Ruth a seguito di un fugace incontro con un soldato canadese, già sposato e che per circa un anno le manda qualche soldo per il mantenimento del figlio, ma che fa perdere in fretta la proprie tracce.
Insomma a 18 anni Ruth è già una ragazza madre e in qualche modo cerca di arrangiarsi. Non ci mette molto a capire che la sua bellezza può permetterle compensi di gran lunga più allettanti rispetto alla paga da cameriera. All’inizio le basta mostrare il proprio corpo, sulle prime come modella di nudo, poi come entreneuse nei night club. Il passo successivo non è difficile da immaginare. Probabilmente non è esattamente una scelta “libera”.  Inquadriamo il contesto. Siamo in un locale dove gli avventori sono quasi esclusivamente uomini e il “prodotto” offerto non è tanto il whisky scadente o la mediocre orchestrina. Chi entra nel Court Club in Duke Street è interessato ad altro. E, in quell’altro, c’è anche lei, Ruth, bellissima ventenne. Talmente bella che lo stesso direttore del Court Club non se la lascia sfuggire e le fa capire un paio di cose: che se vuole continuare a lavorare lì se lo deve meritare e che, con un po’ di buona volontà, i suoi guadagni possono salire.
Ed è così che Ruth, grazie alla sua buona volontà e a quella di uno dei clienti del night club, si ritrova di nuovo incinta. E una gravidanza non è esattamente gradita in un simile ambiente di “lavoro”, dove non sono certo previsti l’astensione per maternità e i congedi per l’allattamento. Ancora una volta la sua scelta è “condizionata” e abortisce (tra l’altro commettendo un reato). Deve tornare a “lavorare” prima possibile.
Nel 1950, a 24 anni, si sposa con un uomo decisamente grande di lei, George Ellis. 41 anni, dentista, divorziato con due figli, George non sembra esattamente un marito modello. Chi lo conosce lo descrive come un uomo dedito all’alcol, violento, geloso e possessivo. Inutile dire che il matrimonio non durerà molto. George rifiuterà persino di riconoscere la figlia, frutto della loro unione. L’unica cosa che le lascia è il cognome: Ellis.
Nel 1953 Ruth migliora la sua posizione. Adesso è lei a gestire un nightclub. E’ un periodo “buono”. Ha molti ammiratori, spesso celebri e generosi, tra cui Mike Hawthorn, un pilota di Formula Uno, appena entrato a far parte dell’illustre scuderia italiana, la Ferrari, con la quale vincerà anche un mondiale. Sarà lui a presentarle David Blakely.
David Blakely è un bel ragazzo, benestante e di buone maniere (almeno finché è sobrio). Correre in pista probabilmente per lui è semplicemente il passatempo del rampollo dell’alta società inglese. Nel complesso è quello che si può definire un “bravo ragazzo”, forse un po’ viziato. Il suo unico difetto è che ama bere.
Tra i due nasce subito una forte attrazione e dopo poche settimane dal loro primo incontro David diventa un ospite fisso dell’appartamento di cui Ruth dispone sopra al club.
Ruth rimane incinta per la quarta volta, ma decide di abortire. Teme di non essere in grado di ricambiare il sentimento dimostrato da David nei suoi confronti. Nel frattempo nasce una relazione con Desmond Cussen, un ex pilota della RAF. Sarà lui ad ospitarla quando il Club le darà il benservito.
Ruth e il figlio vivono con Desmond come se fossero una vera famiglia. Desmond si occupa molto del bambino. Ruth, nel frattempo, continua a vedersi con David, in una relazione che diventa sempre più conflittuale, morbosa e violenta. A un certo punto David le propone di sposarla e lei, all’inizio, accetta. Al matrimonio, però, non arriveranno. Durante uno dei frequenti litigi David la colpisce violentemente al ventre con un pugno. Ruth di botte ne ha prese tante in vita sua. Non è stata molto fortunata con gli uomini e un po’, alla violenza, ci si è abituata. Stavolta è diverso. Forse perché quella notte Ruth si sveglia in un lago di sangue. Quel cazzotto le causa il suo terzo aborto. Con quel cazzotto, probabilmente, in Ruth si spezza anche qualcos’altro.
E’ chiaro che tra Ruth e David non ci sono prospettive, non c’è un futuro. David ormai sembra non volerne più sapere di lei. Ruth è una donna innamorata e ferita. Si sente umiliata e abbandonata. Il 10 aprile del 1955 è domenica. E’ la domenica di Pasqua. Ruth va a cercare David. Lo fa con una pistola in tasca. Una Smith & Wesson calibro 38, modello Victory. Un arnese di un chilo. A tamburo, di quelle che non si inceppano. Roba in dotazione ai militari e alla polizia. Chi ha dato la pistola a Ruth? Non è la sua, ma nessuno si preoccupa di come se la sia procurata. Lo aspetta vicino alla sua automobile e, quando lo vede arrivare, lo chiama per nome. Lui le passa davanti senza neppure degnarla di uno sguardo. Il bivio che separa i possibili destini non è sempre facile da riconoscere. E non sapremo mai se sia stata quell’ostentata indifferenza a far calare, anche se solo per pochi istanti, il buio nella mente di Ruth. A farle abbandonare ogni logica, ogni riflessione, ogni scrupolo (anche per il futuro dei suoi figli) e a farle premere il grilletto. Una prima volta, andata a vuoto, e poi, una seconda, una terza, una quarta. Fino all’ultima, quando ormai David è a terra. Avvicina la pistola al suo corpo e spara ancora.
Le indagini della polizia sono decisamente agevoli e rapide. Ruth non nega mai alcuna responsabilità, né cerca di assecondare le strategie difensive che il suo legale le propone, per esempio sconsigliandole un abbigliamento troppo “vistoso”. Affronta il processo a testa alta e forse qualcuno della giuria interpreta come arrogante il suo atteggiamento.
Quando il pubblico ministero le chiede perché abbia sparato a David, lei risponde candidamente: “E’ ovvio, per ucciderlo”. Non c’è bisogno di molto altro per chiudere velocemente il processo. Nessuno pensa di farsi (e di fare) troppe domande. Nessuno, ad esempio, chiede come mai Ruth avesse una pistola. L’arma le è stata data da Desmond, che l’ha persino accompagnata sul luogo del delitto. Un comportamento quantomeno irresponsabile. La donna era sicuramente agitata e nessuno, con un briciolo di buonsenso, avrebbe dovuto darle un’arma carica e accompagnarla dall’uomo verso il quale Ruth prova collera e rancore, ma che era convinta di amare. Lo scrive anche nell’ultima lettera che manda ai genitori di David: “Ho sempre amato vostro figlio, e morirò continuando ad amarlo”. Non cerca perdono, non chiede commiserazione.
Tutto questo non è stato minimamente considerato. Del resto, lo scenario è l’ideale per una condanna esemplare. Lui, la vittima, un “bravo ragazzo” colpevole solamente di essersi infatuato di “quel” tipo di donna. Lei, l’assassina, bella e algida seduttrice, che non ha sopportato l’idea che lui si sia stancato di lei. Il dramma perfetto. Infatti, la giuria ci mette appena 14 minuti a stabilire, non la colpevolezza di Ruth, che non è in discussione, ma che Ruth meriti di essere impiccata. Non c’è bisogno di aprire un dibattito sulla pena capitale, sulla sua efficacia in termini preventivi e sulla sua giustizia in termini retributivi (la punizione per quanto commesso). Bisogna solo farsi una semplice domanda. A parti invertite, se David, il bravo ragazzo accecato dalla gelosia, avesse ucciso Ruth, la donna dai facili costumi, sarebbero bastati 14 minuti per emanare una sentenza di morte?

13 novembre 2012

La colpa di andare in bicicletta


C’è una frase che mi riecheggia in testa continuamente. “Eh, però, questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Fa il paio con “Sì, sì, ma andava in giro con certe minigonne”. Affermazioni che, più o meno inconsciamente, portano a giustificare e deresponsabilizzare chi commette reati gravissimi. Una ragazza di 17 anni è morta nei giorni scorsi, uccisa da un SUV che è piombato su un gruppo di scout in bicicletta. Il SUV, a quanto sembra, andava velocissimo. Ci ha messo 300 metri a fermare la sua folle corsa, trascinando la ragazza per 200 metri. Probabilmente non era un extracomunitario, altrimenti l’avrebbero messo nel titolo e questo ci avrebbe sollevati tutti. Certo, il solito rumeno. Per fortuna era risultato positivo al testo alcolemico. Questo ci tranquillizza un po’. Beh, era ubriaco fradicio. L’ultimo appiglio per salvare il nostro modello mentale sarebbe stato, appunto, “questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Perché questo? Perché la nostra cultura della sicurezza stradale si basa su un assioma – tutto da dimostrare e sulla cui genesi preferisco non pronunciarmi – che considera il mezzo motorizzato il padrone indiscusso della rete viaria. Fatti salvi alcuni distinguo, e anche qualche rivalità, tra le varie tipologie (auto, moto, camion), la strada appartiene ai “potenti” - nella doppia accezione, in cavalli e in (presunto) peso sociale – e gli altri – in primis ciclisti e pedoni - sono ospiti appena tollerati, se non proprio indesiderati.
Da questa visione distorta nasce la convinzione, nell’automobilista medio, che il ciclista sulla strada sia un fastidioso ostacolo alla propria legittima esigenza di mobilità. L’automobile ha sempre la precedenza, anche se la sto usando per andare all’outlet e il ciclista sta andando al lavoro. Chi va in bici dovrebbe farsi da parte, non essere d’intralcio. Non ci si aspetta che lo faccia un camion o un’automobile che va più piano di noi. Un ciclista, sì. Lui dà fastidio. E se sono un gruppo, levati cielo, diventa un attentato alla Costituzione. Va tutto bene. L’automobilista che lascia l’auto in doppia fila. Il corteo nuziale lento e strombazzante lungo le vie della città. Il raduno di moto o auto d’epoca rombante e allegro che blocca il traffico. Tutto, tranne i ciclisti. Loro non hanno diritto di cittadinanza e, se proprio vogliono andare per strada, non devono dare fastidio. Lo stesso codice della strada che per gli automobilisti è a malapena un compendio di suggerimenti, consigli e linee di indirizzo, diventa una norma cogente ed inderogabile per i ciclisti, che devono attenersi scrupolosamente ad ogni singolo comma del codice, la cui interpretazione diventa particolarmente rigorosa. Ed è così che il ciclista dovrebbe stare sul margine destro della carreggiata, preferibilmente a destra della linea bianca, senza tenere conto della pericolosità di una simile condotta per un veicolo a due ruote, considerando il non impeccabile stato dell’asfalto delle nostre strade.
Questa “cultura” autocentrica è il terreno fertile per i comportamenti più sconsiderati e pericolosi. La sola presenza del ciclista sulla strada è già una sua “colpa” ed una mia deresponsabilizzazione per l’eventuale azzardo del mio sorpasso. Quanti automobilisti non si preoccupano se lasciano pochi centimetri tra loro e il ciclista quando lo superano? Loro non corrono alcun pericolo ben protetti all’interno del proprio confortevole SUV. Quei pochi centimetri per il ciclista possono determinare la perdita dell’equilibrio con conseguenze anche gravi. “Ma stava in mezzo alla strada”. E probabilmente non era “in mezzo” era “sulla” strada, magari anche in prossimità del margine destro (come prevede il codice). Però, nella nostra testa, un ciclista sulla strada è sempre in mezzo. E se poi fosse davvero in mezzo questo legittima il rischio di ucciderlo?
Ed è esattamente quello che ha fatto il guidatore del SUV a Casalmaiocco. Non un delinquente, non un extracomunitario. Sarà magari un libero professionista, che se ne andava a spasso in una giornata festiva. Anche se ubriaco, non può non aver visto il gruppo di ciclisti. Stava tranquillamente oltre i limiti di velocità (ma questo, come automobilisti, lo consideriamo sempre un comportamento legittimo, sono i limiti ad essere troppo bassi) e non aveva intenzione di rallentare. Erano i ciclisti in torto. E lui ha deliberatamente deciso di mettere a repentaglio la loro vita per non rinunciare al proprio diritto di andare alla velocità giudicata più consona alle sue esigenze. Non è una semplice colpa. E’ una responsabilità più grave. C’è il dolo, anche se solo eventuale. E’ evidente che non c’era la volontà di uccidere, ma non poteva mancare la piena consapevolezza del rischio di farlo. Vale il principio giuridico della sentenza di condanna – per omicidio volontario con dolo eventuale - dell’amministratore della ThyssenKrupp per il rogo in cui erano morti alcuni operai. Nessuno pensa che l’amministratore volesse la morte degli operai. Il senso della sentenza è che chi ha deciso di non installare i sistemi di sicurezza abbia accettato di mettere a repentaglio la sicurezza delle persone, subordinato consapevolmente un determinato bene (la vita umana) a un altro (probabilmente il risparmio per l’azienda). Nel caso del nostro SUV il bene subordinato è sempre la vita umana, quello prevalente è portare piuttosto in fretta la sua inutile testa... vuota da qualche parte.

9 novembre 2012

Diffamazione: difendere un principio o una categoria?



Mi dicono che sulla bacheca del presidente dell'ordine dei giornalisti è apparso un appello per raccogliere dati sulle querele e citazioni in giudizio per diffamazione.




Ho deciso di mandargli questa mail.






Gent.mo Enzo Iacopino,

Su internet gira un suo appello per raccogliere dati di querele/citazioni per diffamazione. Mi piacerebbe rispondere alla sua richiesta. Nei miei confronti è stata annunciata, a mezzo stampa, una querela (peraltro mai vista) e sono stato citato in giudizio per una richiesta di risarcimento danni. E’ successo per aver scritto un articolo su un foglio di informazione locale (tra l’altro denunciato per “stampa clandestina”) in merito al rilascio di un permesso di costruire, sulla cui legittimità avevo espresso alcune perplessità. La controparte è il potentissimo sindaco di un piccolo comune e ha pensato bene di chiedermi 50mila euro. Impensabile fare politica a livello locale con simili “minacce”. Temo, però, che il mio caso possa non interessarle. Non ho scritto su una testata giornalistica (del resto non è facile trovare giornali registrati che si occupano di alcune questioni locali) e non sono un giornalista. Quindi, la sacrosanta battaglia per la difesa di alcuni principi potrebbe, paradossalmente, diventare classista. Anzi - se dovesse passare il meccanismo che tutela i giornalisti professionisti escludendo per loro l’ipotesi di pene detentive, ma solo sanzioni pecuniarie - le “classi” diventerebbero tre. Al livello più basso i semplici cittadini, magari impegnati in difficili lotte su temi ambientali, sociali, culturali e per i diritti, che sarebbero privi di ogni forma di tutela. Poi ci sarebbero i giornalisti “sfigati”, quelli che scrivono per piccole testate oppure portano avanti faticosamente giornali locali di approfondimento e inchiesta. Senza sponsor e senza finanziatori. Loro non potrebbero certo permettersi contenziosi legali e risarcimenti milionari e sarebbero costretti ad una certa cautela. Infine ci sarebbero i giornalisti alla Sallusti (mi perdoni la semplificazione antonomastica). Con le spalle coperte da ricchi editori, non avrebbero problemi a portare avanti campagne realmente denigratorie. Qualcuno disposto a pagare il “disturbo” lo troverebbero sicuramente. Mi piacerebbe che la vostra battaglia – che condivido e appoggio a prescindere – fosse a tutto tondo per la difesa dell’articolo 21 della Costituzione. Se desidera, le mando i miei “dati” per la sua indagine. Altrimenti, grazie comunque per l’attenzione.


Tullio Berlenghi

8 novembre 2012

Evviva i beni comuni



La comunicazione – non solo politica – spesso funziona bene quando è caratterizzata dalla semplicità. I messaggi diretti arrivano più facilmente. Per fare messaggi semplici servono poche parole. E le parole che suscitano sensazioni positive sono un numero limitato. Di conseguenza non è infrequente vedere le stesse identiche parole negli slogan e addirittura nei nomi delle forze e dei movimenti politici, anche molto diversi tra loro. La parola “libertà”, ad esempio, è nel nome del partito che fino a pochi mesi fa era il principale attore politico (Popolo della libertà), sia nel nome di uno dei suoi più determinati antagonisti (Sinistra, ecologia e libertà). O le parole “alleanza” e “democrazia” (e derivati) che troviamo sia a destra che a sinistra. E anche gli slogan spesso sono davvero molto simili ed è veramente difficile pensare di poter decidere in base a questi pochi (e vaghi) elementi. Ovviamente bisogna seguire la sensibilità del momento ed è per questo che, da poco tempo, hanno fatto il loro ingresso nel vocabolario della politica due parole del tutto assenti fino a qualche anno fa: “bene comune” (o “beni comuni”). Un certo movimento culturale e di opinione è riuscito, lavorando con fatica ed in controtendenza rispetto alla crescente legittimazione delle politiche predatorie, ad affermare l’importanza della tutela e valorizzazione di tutto ciò che ha un incommensurabile valore per la collettività e che, pertanto, non può e non deve essere danneggiato, alienato, privatizzato o, semplicemente, dissipato. Con la battaglia per l’acqua pubblica c’è stato un momento di grande crescita di questa consapevolezza e la vittoria al referendum ha convinto molte forze politiche ad “inseguire” il trend. Non per convinzione, ma per opportunità. E il modo più immediato è quello del ritocco estetico. Così i “beni comuni” sono entrati prepotentemente nel lessico della politica. Da perfetti sconosciuti a protagonisti della scena. Chi non è riuscito a infilarli nella ragione sociale ha dedicato loro almeno uno slogan.  Uno slogan semplice, diretto, efficace. Quanto innocuo. Perché chiunque può dire: “Viva i beni comuni”. Persino Berlusconi, notoriamente ostile a tutto ciò che non è suo e di cui non si può appropriare. Infatti, dopo lo slogan, si annida sempre, perniciosa e preoccupante, la postilla, la specificazione, la precisazione. Spesso sottaciuta. E così gli autentici beni comuni: l’acqua pubblica, il territorio, l’ambiente, la salute, la cultura, passano, di fatto, in secondo piano rispetto alle reali (e inespresse) priorità.  Il “bene comune” diventa il classico specchietto per le allodole, il variopinto imballo per indurre il consumatore disattento a comprare un prodotto. Attratto più dai colori della confezione che dalla qualità del contenuto. Memo per le prossime elezioni: leggere con attenzione gli ingredienti prima di scegliere il prodotto. 

31 ottobre 2012

Due o tre cose su Di Pietro e Travaglio


Quando leggo i giornali cerco sempre di non perdermi gli articoli dei giornalisti che stimo e dei quali so che, con molta probabilità, condividerò l’opinione e l’analisi. Faccio un paio di nomi: Michele Serra e Marco Travaglio. Sono due straordinari giornalisti. Spesso mi capita, soprattutto con l’amaca di Serra, di leggere esattamente il mio pensiero, scritto – decisamente meglio – da qualcun altro. In questi casi mi sento combattuto tra il piacere di questa “sintonia” e il timore di perdere (o aver perso) la mia autonomia di pensiero. E’ Serra che la pensa come me o sono talmente influenzabile dal fare mie le sue opinioni? Quando capita, quindi, di non trovarmi d’accordo mi sento sollevato. Ah. Meno male. La mia indipendenza è salva. A salvare il mio ego oggi è stato l’editoriale di Travaglio sulla vicenda Di Pietro. L’analisi di Travaglio mi è sembrata un po’ debole, nonostante la sua proverbiale bravura nell’usare la penna, ed influenzata da una sorta di pregiudizio positivo nei confronti di Di Pietro.
La tesi di Travaglio sta prevalentemente nel circoscrivere gli episodi in cui è coinvolto Di Pietro al solo ambito giuridico, evitando, o quasi, di dare un giudizio etico o politico a comportamenti di per se discutibili proprio sotto questo aspetto. Spero che finisca presto questa situazione in cui il principale discrimine di valutazione “politica” è il codice penale, archiviando come marginale tutto ciò che non abbia rilevanza penale. Non può e non deve essere così. Un elettore dell’Italia dei Valori – come di molti altri partiti, a parte Forza Italia – si aspetta qualcosa di più, spero, del semplice rispetto delle leggi. Perché anche aggirare le leggi è lecito e, in caso di indagini, la magistratura sarà costretta ad archiviare.
Faccio un esempio molto pratico. Il finanziamento pubblico dei partiti, nel momento in cui viene erogato ed entra nella disponibilità delle forze politiche, diventa soggetto a norme di tipo privatistico e sarà il partito a decidere come spendere quei soldi. Se, per ipotesi, la Lega Nord decide di pagare macchina e autista al figlio del segretario del partito, non è che ci si possa fare molto. Se sta bene alla dirigenza, agli iscritti e agli elettori che con i soldi pubblici si scarrozzi il pupo del capo, nulla da eccepire. Almeno sul piano giuridico. Lo stesso discorso vale per alcune delle operazioni fatte da Di Pietro. Le quali, come ha evidenziato Travaglio, sono probabilmente tutte legittime, ma rimangono decisamente discutibili – almeno dal mio punto di vista - sul piano dell’opportunità. E il giustificazionismo di Travaglio proprio mi sfugge. Proprio lui che, per dare forza ai numeri mette sullo stesso piano indagati, imputati e condannati. A prescindere dal reato, come se si potesse considerare allo stesso modo un condannato in via definitiva per mafia e, ad esempio, il sottoscritto che è stato sottoposto ad indagine per “stampa clandestina”e per “diffamazione”.  In questo caso invece si tiene conto solo dell’esito di alcuni procedimenti penali che hanno visto imputato Antonio Di Pietro. E dai quali è uscito candido come la neve.  Perfetto. Sono contento per lui. Anche sulla questione della donazione Di Pietro ha scelto – legittimamente – di intascarsi i soldi (del resto non aveva un partito a cui darli). Lo stolto è stato Romano Prodi che, pur non avendo un partito, ha girato le risorse alla coalizione che poi l’avrebbe sostenuto (Prodi si è candidato nel 1996, un anno dopo la donazione). Così come non c’è nulla di illecito nel far gestire tutte le risorse del partito ad una triade composta da marito, moglie e l’amica di famiglia. Proprio nulla. Anzi, in questo modo si circonda di persone di assoluta fiducia. Del resto è vero che quando ha provato a riporre fiducia in altri è andato incontro a molte delusioni. Penso a De Gregorio, Scilipoti, Maruccio, Razzi. La differenza tra me e Travaglio sta tutta qui. Per lui l’unico peccato, veniale, di Di Pietro sono state queste scelte e, forse, la poca trasparenza. Per me un partito incapace di scegliere la propria classe politica e privo – in sostanza – di una vera democrazia interna, non è esattamente l'ideale. Sarò choosy, ma sono convinto che si possa fare di meglio.

30 ottobre 2012

E' arrivato l'uomo nero


L’uomo nero. Non credo sia mai capitato, nella pur breve storia repubblicana, un processo di demonizzazione così feroce nei confronti di un interlocutore politico “nuovo”. Almeno negli ultimi vent’anni ne ho visti nascere tanti. Quasi sempre sono stati accolti con una certa preoccupazione. Spesso sono stati derisi e ostacolati. Ma mai, proprio mai, ho visto una serrata così compatta e unanime, da destra a sinistra, come nei confronti di Grillo e del Movimento Cinque Stelle. Al quale non si sconta nulla di ciò che invece – e in modi e misure di gran lunga peggiori – è stato facilmente perdonato ad altri. E’ un enorme segnale di debolezza. Certo, Grillo fa molta demagogia. Ma chi non l’ha mai fatto prima di lui? E’ una delle armi “facili” di chi non ha – ancora, almeno – in mano le leve del potere. E’ indubbiamente più facile criticare quando non si hanno responsabilità. E lo hanno fatto tutti. A cominciare da Berlusconi, il quale, pur avendo tratto enormi benefici personali dalla degenerazione del sistema partitocratico degli anni ’80, si è accreditato come il castigatore dei partiti, la società civile che “scende in campo” contro i professionisti della politica. E quanti di coloro che adesso stigmatizzano il populismo di Grillo sono saltati lesti sul carro del sogno berlusconiano per elemosinare poltrone, incarichi e potere.
Quanti partiti sono nati come alternativi al sistema e portatori di un cambiamento? Più o meno tutti hanno avuto credito e attenzione, almeno in un lato dello schieramento, come possibili partner di alleanze elettorali. Perché Berlusconi sì? Perché la Lega sì? Perché l’Italia dei Valori sì? Forse perché in tutti loro si è visto un interlocutore possibile. Qualcuno con cui, alla fine, si parla lo stesso linguaggio e si trova una possibile intesa.
Grillo e il Movimento Cinque Stelle no. Loro preoccupano, spaventano, intimoriscono. Ho sentito proprio queste parole: “Grillo mi fa paura”. Perché? Non si sa. Magari si condivide in parte quello che dice, ma no, lui non va bene. Troppo “estremista”. Il linguaggio, ad esempio. Il linguaggio cialtrone, offensivo e razzista della lega è stato tollerato. Quello di Grillo, no. Dov’è la differenza? La differenza – per il momento – è che la Lega, una volta arrivata alle poltrone, è subito diventata più malleabile. Si teme forse che Grillo potrebbe non essere sufficientemente “ragionevole”? E’ questo il problema?
Trovo poco “politico” questo atteggiamento di chiusura preventiva. Un conto è una forza politica dichiaratamente antidemocratica - penso ai vari gruppi di simpatie neonaziste, con le quali, peraltro, da alcuni il dialogo è stato trovato senza troppi problemi - un conto è una forza politica che ha semplicemente delle proposte ed un consenso. Rifiutare il confronto e il dialogo palesa solo un’ingiustificabile immaturità politica, un’insensata paura della “diversità”.
Faccio una precisazione. Non faccio parte del Movimento Cinque Stelle. Ne ho seguito la storia fin dalla sua nascita, con rispetto e con simpatia. Ho apprezzato alcune scelte (soprattutto sui temi ambientali). Ne ho giudicate altre un po’ superficiali e finalizzate alla sola ricerca del facile consenso. Altre le ho considerate difficilmente compatibili con la mia formazione culturale e politica. Ho il timore che le decisioni si basino troppo sul pensiero del suo leader indiscusso e che questa democrazia assoluta in realtà nasconda un meccanismo verticistico, nel quale gli aderenti hanno ben poco potere di incidere sulle scelte “reali” del partito. Poi mi sembra manchi una visione di insieme e che qualche volta la linea politica segua più gli umori del suo leader che una attenta e ponderata valutazione delle problematiche da affrontare (un po’ come le note esternazioni di Berlusconi, capace di cambiare idea dal mattino alla sera e di ricambiarla al mattino successivo, con tutto il codazzo dei miracolati sempre pronto a sostenerlo in queste sue acrobazie della logica e del buonsenso). Questo non basta, a mio avviso, ad avere una preclusione pregiudiziale nei confronti del Movimento Cinque Stelle, la cui “ragione sociale” è meritoria e apprezzabile. In parte è la stessa di Italia dei Valori, che però ha miseramente fallito la sua mission e ha perso ogni residua credibilità. Non bisogna averne paura, ma confrontarsi. E anche loro, ancorché “zitelle acide” (la definizione è la loro) farebbero bene a cercare sempre il dialogo, che è il sale della politica. E loro sono “politica” (l’antipolitica non esiste) nell’accezione piena (e mi auguro positiva) del termine. Sono chiamati ad un ruolo importante e di grande responsabilità. Spero sinceramente che non deludano la fiducia e la speranza guadagnate e che facciano quello che i cittadini si aspettano dai propri eletti: mettersi al servizio del paese. Possibilmente senza salire su un piedistallo.  E magari senza insultare tutti quelli che hanno la sola colpa di avere iniziato ad occuparsi di politica prima di loro. Scopriranno, magari con un pizzico di stupore, che c’è qualche brava persona anche lì. Anche se eletti con un altro simbolo. Non serve, in questo momento, ostentare complessi di superiorità. Adesso serve la volontà e, soprattutto, la capacità di mettere in pratica quella buona politica che in tanti hanno predicato prima di loro e che mai – salvo rare eccezioni – sono stati capaci di attuare concretamente.  Ai “grillini” l’onere della prova. Adesso a Pavia e in Sicilia, tra poco nel Lazio, in Lombardia e nel Parlamento italiano. Spero sinceramente in un miglioramento. Per il momento, buona fortuna.

26 ottobre 2012

Salviamo palazzo Giuliani


La voce circolava da tempo. Qualche esponente della maggioranza l’aveva già ipotizzato: di fronte allo sconquasso dei conti, l’unica è vendere – almeno in parte – il proprio patrimonio. L’immagine non è confortante. La sensazione è quella di vedere un casato nobiliare in declino, che per sopravvivere è costretto a vendere l’antico palazzo di famiglia, quello sul cui frontone è scolpito lo scudo araldico. Uno dei luoghi simbolo della storia di Labico è Palazzo Giuliani e, probabilmente, sarà lui ad essere sacrificato. In diritto, quando si vuole attribuire ponderatezza e responsabilità a chi amministra un bene che non gli appartiene (ed è il caso degli amministratori pubblici) si usa la locuzione “diligenza del buon padre di famiglia”, ad intendere che il rispetto e la cura nei confronti della res publica devono essere i medesimi che avrebbe appunto il “buon padre” nei confronti delle proprietà di famiglia. E’ suo preciso interesse, come persona e come genitore, garantire che quei beni siano utilizzati correttamente e in modo da preservarne il più possibile valore e funzionalità. E la decisione di alienare uno dei beni di famiglia ha senso quando quel bene non serve e il ricavato può servire ad acquistare qualcosa di utile oppure quella vendita serve a risolvere problemi importanti, ma con la consapevolezza che per la famiglia sarà un danno e le future generazioni saranno private per sempre di quel bene. Ma se per un padre le “future generazioni” altro non sono che i figli e i nipoti, per un amministratore con pochi scrupoli le future generazioni sono un concetto astratto, che tra l’altro neanche vota, e quindi non si preoccupa certo di tutelarle. D’altronde, un amministratore coscienzioso non ci avrebbe portati nell’incredibile situazione in cui ci troviamo, con i conti pubblici allo sfascio e il sindaco che ha il coraggio di affermare che “in questo bilancio i cittadini non pagheranno in più per il problema del depuratore”, smentendo il fatto che proprio il documento di bilancio approvato annuncia – pur con estrema vaghezza – un costo che si aggira tra i due e i tre milioni di euro. E se non saranno – non tutti almeno – contabilizzati nel 2012 questo non significa che i cittadini non saranno chiamati a pagare. Che poi Galli si lamenti dei continui tagli degli ultimi Governi – peraltro da lui sostenuti – non cambia di una virgola il problema ed è meglio ricordarlo. La magistratura ha riscontrato il malfunzionamento dei due impianti di depurazione e ne ha disposto il sequestro. Chi ha la responsabilità di un’infrastruttura fognaria e di depurazione che non funzionano? Perché Galli e compagnia cantante continuano a parlare dell’emergenza depuratori come se a Labico si fosse abbattuto un meteorite? Sono talmente tante le anomalie in tutta la vicenda – e noi le abbiamo evidenziate in modo molto circostanziato – da non potersene lavare le mani con tanta disinvoltura.
Ad aggravare la situazione c’è, ad adiuvandum, un’inveterata incapacità di amministrare la cosa pubblica e gli sprechi a Labico non si contano. Pensiamo al fallimento della raccolta differenziata, che non sembra aver prodotto alcun vantaggio in termini di quantità di rifiuti conferiti in discarica, ma il cui costo è aumentato (dal 2008 ad oggi) del 60 per cento. Pensiamo alle cosiddette opere pubbliche, che a Labico sono una continua emorragia di denaro pubblico, dalla finta ciclabile da 200mila euro (ma in bilancio ce ne sono altri 700mila) all’operazione Eiffel per la quale stiamo pagando le rate di un mutuo per avere acquistato della ferraglia di cui il comune non ha neppure il possesso. Pensiamo ai soldi buttati per il progetto ASI, che per fortuna siamo riusciti a fermare, e a quelli per i vari sportelli dai quali non si è mai avuto alcun beneficio per la collettività. Potrei andare avanti per pagine, ma non è il caso di sparare sulla croce rossa. La questione è un’altra, siamo in mano ad una classe politica che gestisce la cosa pubblica – nella sua complessità, dalle risorse economiche al territorio alle infrastrutture ai beni immobili – con una sciatteria sconfortante. Molto è lasciato al degrado e all’abbandono, proprio perché manca quella “diligenza del buon padre di famiglia” che chiunque abbia in affidamento un bene che non gli appartiene sarebbe in grado di usare. A chi amministra Labico manca del tutto questa sensibilità. E non hanno avuto alcuno scrupolo ad inserire, nel bilancio triennale, qualcosa come un milione e 348mila euro di entrate derivanti da alienazione di beni patrimoniali. Ovviamente senza uno straccio di indicazione su cosa vogliono vendere, su che stima sia stata fatta e da chi. Una mente un po’ maliziosa potrebbe pensare che a trarre vantaggio da questa operazione di salvataggio dei conti potrebbe essere qualcuno che opera nel campo degli immobili e delle costruzioni. Chi svende per necessità trova sempre qualche vorace imprenditore pronto all’affare. Chissà, magari ne conoscono anche qualcuno… D’altronde non è che possiamo far loro una colpa se, rispetto al buon padre di famiglia, sono privi di quella benedetta diligenza. Anzi, consci di questa lacuna, hanno anche trovato la soluzione: l’assaltano.

24 ottobre 2012

Non è cattiveria, è pigrizia.


Il Sindaco se la prende comoda. Il consiglio comunale lo convoca alle 9:30 di mercoledì. Cosa importa al sindaco se qualche cittadino che lavora – attività di cui probabilmente serba un lontano ricordo – vorrebbe ascoltare cosa succede in consiglio comunale. Cosa importa se una legge dello Stato stabilisce che i consigli comunali andrebbero convocati “in un arco temporale non coincidente con l'orario di lavoro dei partecipanti”? L’importante è proprio evitare il più possibile che i cittadini si rendano conto dei danni che lui e i suoi accoliti stanno causando al paese. Ed è evidentemente per questo che, dopo che per anni era stata consentita la registrazione video dei consigli comunali, ha deciso di vietarla. La ragione è una sola: si vergogna. Si vergogna lui e si vergogna la sua maggioranza e chi la pensa diversamente, se c’è, si vergogna di avere un pensiero autonomo. Non essendo abbastanza coraggioso da assumersi la responsabilità di commettere un abuso di potere preferisce scaricare la colpa su qualcuno che in qualche modo gli è “debitore” di un signor stipendio. Sto parlando del segretario comunale, il cui rapporto con l’amministrazione è fiduciario e, di conseguenza, la sua permanenza in un comune può in qualche modo essere influenzata dal fatto di essere abbastanza “conciliante”. E il nostro nuovo segretario sembra esserlo persino più del suo predecessore, che su questo non scherzava mica. Infatti, ha tirato fuori dal cilindro la sublime scempiaggine della tutela del diritto del lavoratore (che sarebbe lui) per impedire la registrazione video del consiglio comunale. Torno sull’argomento per dimostrare quanto sia capzioso e subdolo l’appiglio giuridico trovato per giustificare una cosa che ha un nome ben diverso: censura. E il segretario si assume la responsabilità, sul piano etico prima ancora che sul piano del diritto, di negare con un espediente (invero piuttosto debole) i veri diritti dei cittadini: che sono il diritto di essere informati, il diritto della trasparenza, il diritto di cronaca. Negare un diritto, appellandosi ad uno pseudodiritto è una furbata da Azzeccarbugli, che di strada ne fa poca e ridicolizza chi se ne fa scudo. L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, evocato (ma non citato, forse per pudore) per ben due volte nella lettera di diniego firmata da Galli recita testualmente: “È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori”. Anche un bambino capisce il senso di questa frase. Si parla di controllo a distanza da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Una pratica che, se consentita, mette in una condizione di inaccettabile soggezione il lavoratore controllato e ne lede inevitabilmente la dignità. Non è certo il caso del segretario comunale, la cui dignità è messa in discussione solo dal fatto di avallare simili forzature giuridiche. E, se proprio avesse problemi di diffusione della sua “immagine”, il nostro sensibile lavoratore potrebbe tranquillamente svolgere la sua mansione mettendosi al margine dell’aula consiliare, fuori dall’inquadratura. Da qui si capisce perfettamente che l’obiettivo del diniego è un altro, non certo la sua tutela. Ma il nostro segretario, così ligio ad una norma che non c’è, non è altrettanto severo nell’applicarne un’altra che lo riguarda direttamente. Parlo della legge 18 giugno 2009 n. 69, la quale, all’articolo 21 afferma che il comune “ha l’obbligo di pubblicare nel proprio sito internet le retribuzioni annuali, i curricula vitae, gli indirizzi di posta elettronica e i numeri telefonici ad uso professionale dei dirigenti e dei segretari comunali”. In questo caso il rispetto della legge va a farsi benedire e la sua lauta remunerazione rimane un mistero. Cos’è? In questo caso si applica la legge sulla privacy? Sul prospetto del bilancio si parla di 74mila euro l’anno. Non è poco, considerando che per molti mesi è venuto due giorni alla settimana, che solo recentemente è passato a tre e che oggi, ad esempio, ha presenziato appena 40 minuti di consiglio. Né stupisce che sia così sensibile ai desiderata del sindaco. Il quale, a sua volta, è un maestro nell’interpretazione delle leggi a suo uso e consumo. Solo questa mattina ha minacciato di cacciare le persone dal consiglio comunale che, a suo avviso, violassero leggi che nessuno ha mai scritto. Ma lui è fatto così. Troppo pigro per leggersi le norme, preferisce interpretarle, quando ci sono, o inventarle, se proprio non ci sono. Poi, anche lui, le leggi vere preferisce aggirarle. Anche in questo caso sarà del tutto incidentale che la sua amministrazione sia indagata per reati ambientali in merito alla vicenda dei depuratori e che lui stesso sia stato rinviato a giudizio per reati contro la pubblica amministrazione. Perché stupirsi, in fondo fa orgogliosamente parte dello stesso partito di Fiorito e di Scajola.

12 ottobre 2012

Galli: dalle virtù virtuali ai disastri reali


Fare il bilancio di previsione a ottobre è un po’ come dare le previsioni del tempo alle sei del pomeriggio. Guarda che oggi probabilmente piove. Ah, bene, grazie. Peccato che mi sia già bagnato. A Labico usa così. Il bilancio di previsione a ottobre, insieme al rendiconto dell’anno prima (ci sono voluti 10 mesi per far quadrare i conti), agli equilibri di bilancio e alle castagne. Queste ultime faticheranno non poco a levarle dal fuoco. Già immaginiamo che avranno anche fretta di approvare tutto in un paio d’ore, ché loro mica hanno tempo da perdere con la democrazia e non possono certo star lì a dare spiegazioni su come fanno a sperperare i (nostri) soldi senza che i cittadini ne traggano apprezzabili vantaggi. Fatto sta che il bilancio di previsione è finalmente arrivato. E allora azzardo un’ipotesi: il sindaco si guarderà bene dal convocare il consiglio sul bilancio in giorni o orari che consentano un’ampia partecipazione della cittadinanza. Si accettano scommesse.

Vediamo, però, cosa dice il documento contabile così faticosamente prodotto dai nostri illustri statisti, gli stessi che fino all’anno scorso spacciavano come virtuoso il bilancio del comune. Sbugiardati da noi in consiglio comunale, in questo bilancio sono costretti ad ammettere che “il nostro ente figura tra i comuni non virtuosi”. Finalmente ne sono accorti.
Evidentemente, nel guardare i conti, dobbiamo partire da un presupposto innegabile: tutto il bilancio, compresa la lunghezza dei tempi di approvazione, ruota intorno alla questione “depuratori” e sarà, inevitabilmente, il filo conduttore di queste considerazioni.
Un primo dato, tanto per avere un’idea, è quello del confronto tra l’entità complessiva del bilancio di previsione e quella che gli amministratori definiscono – ipocritamente – “emergenza depuratori”. Si parla di 9,7 milioni di euro a fronte di “ingenti spese che si aggirano tra i 2/3 milioni di euro” (testuale dalla relazione previsionale e programmatica). A parte la sconcertante approssimazione con cui ci presentano il conto dei guai di cui hanno una piena responsabilità politica e amministrativa, quello che sconvolge è l’ammontare complessivo dei costi che saremo chiamati a sostenere. Una cifra molto vicina ad un terzo dell’intero bilancio. Come si fa a non andare in dissesto con questi numeri? C’è una sola via, quella di truccarli, nasconderli, mascherarli, camuffarli. Già immaginiamo le reazioni di fronte a questi termini. Ma come vi permettete? Questa è diffamazione. Vi quereliamo!
In attesa delle reazioni, proviamo a guardare alcuni elementi del bilancio con cui argomentare meglio le nostre perplessità. Intanto è ben difficile capire dove si annidino (nelle pieghe del bilancio) i soldi dei depuratori. Non parliamo della – decisamente tardiva – spesa necessaria per l’adeguamento degli impianti di depurazione, che rientrano nella parte investimenti e che dovrebbe essere recuperata con i finanziamenti di regione e provincia. Parliamo dei soldi che stiamo spendendo per portare via i nostri liquami dai depuratori dichiarati fuorilegge dalla magistratura. A luglio Galli, in consiglio comunale, aveva parlato di un milione e mezzo di euro. Adesso siamo ad ottobre e la cifra – come ammesso dalla stessa amministrazione - è ben più elevata. Ma dov’è? A rigor di logica dovrebbe essere nella tabella delle spese per servizi istituzionali, alla voce “Fognatura e depurazione”. Una voce la cui componente in entrata – e quindi ciò che pagano i cittadini - è raddoppiata dal 2009 a oggi (da 123mila euro a 230mila euro). Una voce che, in uscita, è praticamente quadruplicata rispetto agli anni passati (si passa dai 133mila euro del 2009 ai 647mila del 2012), ma la differenza, in valore assoluto, è di “appena” 500mila euro. E gli altri (almeno) due milioni? Dove sono stati messi? Certo, prima ancora dell’approvazione del consuntivo, sono stati messi 150mila euro come avanzo di amministrazione, dei quali è già indicata la finalizzazione di copertura dei debiti fuori bilancio derivanti dal sequestro dei depuratori, ma all’appello mancano ancora un sacco di soldi. Sono in bilancio? E, se ci sono, di grazia, dove li avete ficcati?
A rendere ancora più incerto e fumoso il quadro ci sono una serie di voci “fittizie” di entrata, la cui funzione sembra quella di infiocchettare un po’ un ben magro bilancio, la cui lettura potrebbe causare facilmente l’insorgenza di crisi depressive. A ottobre 2012, infatti, si mettono a bilancio qualcosa come 2,5 milioni di euro di entrate in conto capitale da parte della Regione Lazio (tra cui le risorse destinate al completamento della celebre ciclabile). Una somma che, per ovvie ragioni, dubitiamo che arriverà a destinazione nei prossimi due mesi.
Il resto del bilancio è costellato da inevitabili aumenti della pressione fiscale e tributaria sui cittadini, formalmente destinati a migliorare la qualità dei servizi comunali, ma che in pratica serviranno a pagare ben altro. Il dato numerico è inquietante: il prelievo tributario procapite (ossia quanto paga di tasse ogni cittadino, bambini compresi) passa dai 284 euro del 2009 ai 480 del 2012. Nel giro di tre anni le imposte comunali sono aumentate del 70 per cento. La consapevolezza che con quei soldi si paghino i viaggi dei nostri liquami non sembra essere di alcun conforto.
Perché l’amministrazione non ha prodotto uno specifico quadro economico della cosiddetta “emergenza”, in modo da far capire esattamente come stanno le cose e come si intende procedere? La ragione sembra abbastanza semplice. Si cerca di trovare qualche artifizio contabile per far slittare alcune voci di spesa al 2013 e prendere un po’ di fiato. Qualcuno - ingenuamente, pensando ad un atto di riguardo nei nostri confronti - potrebbe apprezzare il gentile pensiero. Non bisogna farsi illusioni. Cercano solo di guadagnarsi un po’ di sopravvivenza politica e incassare qualche altro stipendio. Peccato che, infilando la testa sotto la sabbia o nascondendo i problemi, questi non solo non si risolvono, ma si aggravano. E l’anno prossimo il conto sarà ancora più salato.

11 ottobre 2012

Proposta indecente



Sotto il profilo penale, il reato di cui è accusato l’assessore alla casa della Regione Lombardia è indubbiamente molto grave: si parla di scambio elettorale politico-mafioso. E quando c’è di mezzo la criminalità organizzata è meglio tenere alta la guardia. L’idea che organizzazioni di stampo mafioso esercitino un controllo “diretto” sugli eletti è oggettivamente inquietante e va combattuta individuando strumenti normativi specifici ed efficaci. Ma il voto di scambio non è solo quello di tipo mafioso. C’è un altro tipo di voto di scambio, la cui pratica permea, inquina e altera in maniera allarmante molte tornate elettorali, a tutti i livelli. Anche questo è un reato, punito da una legge dello Stato. Chi di noi non ha mai sentito parlare di voti comprati a 50 euro o con l’equivalente in buoni benzina? Chi di noi non si è mai imbattuto in promesse di posti di lavoro - per chi non ce l’ha, il lavoro -, in ricatti occupazionali - per chi il lavoro ce l’ha, ma la cui continuità dipende dal politico o, che so, da un cognato o un parente -, in avvisi bonari sui rischi che la propria pratica in comune si areni (se è legittima) o in promesse di “oliarne” l’iter, quando è priva dei requisiti. In alcuni casi il reato c’è ed è evidente. In altri il confine tra lecito e illecito è molto più labile. Magari anche nel lessico. Meglio parlare di cortesie, piaceri, aiuti. Per i quali però il politico sarà puntualissimo nel batter cassa al momento del voto. Ormai è difficile trovare qualcuno che dica “se mi dai il voto faccio questo”. D’altronde ci sono modi impliciti per esprimere lo stesso concetto, tra l’altro deresponsabilizzando l’autore della promessa qualora non sia in grado di mantenerla. Stupisce però che ci sia ancora tanta gente disposta a rinunciare alla propria dignità per poche decine di euro, per una cena o per accelerare una pratica amministrativa. Per poi pagare un prezzo ben più alto in termini di cattiva amministrazione, se non addirittura di aumenti delle tasse dovuti ad una pessima gestione della cosa pubblica. Mi auguro che, da domani, ognuno di noi ci penserà bene prima di cedere alla proposta di scambiare il proprio voto e la propria dignità con un “piacere”. Desidero che, da domani, ognuno di noi avrà la consapevolezza che una proposta così è offensiva e indecente. Spero che, da domani, ognuno di noi non sia più disposto a farsi umiliare. Non auspico il ricorso alla magistratura (ché poi mi si accusa di giustizialismo). Ma, almeno, di fronte ad una proposta indecente, si può sempre chiamare la buoncostume.

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura