30 novembre 2012

Un giorno in pretura


La frequentazione dei tribunali è molto istruttiva. L’ho scoperto solo di recente, da quando seguo la politica locale, ma sto recuperando un po’ del tempo perduto. Per questo devo ringraziare Alfredo Galli e il suo personalissimo modo di amministrare. Noto a tutti, ma che quasi nessuno ha mai avuto il coraggio di contrastare seriamente. Io l’ho fatto e questo mi ha portato a conoscere piuttosto bene la strada che separa Labico da Velletri, sede del tribunale – penale e civile – competente per il nostro territorio.

Qualche giorno fa sono stato, in qualità di parte civile, all’udienza del processo contro Alfredo Galli. Il reato contestato dal pubblico ministero, che ne aveva chiesto il rinvio a giudizio, è “abuso d’ufficio”. Una bazzecola. Un semplicissimo “reato contro la pubblica amministrazione”. Si parla di indebita distrazione di fondi pubblici. Robetta. Tra l’altro lui non è semplicemente indagato. E’ imputato. Per una cosa così, neppure il suo partito di riferimento – il PDL, notoriamente un partito molto “elastico” sulle vicende penali dei propri rappresentanti – potrebbe candidarlo, a sentire le ultime dichiarazioni del segretario Alfano. Invece lui non solo non ha fatto una piega, ma si è anche ricandidato come sindaco.
L’altro giorno, però, era particolarmente nervoso. Dall’esame dei testimoni e degli imputati sono emerse diverse incongruenze sulla vicenda.
Provo a ricostruire in modo sintetico i fatti. Nella scorsa consiliatura l’opposizione scopre, complice una piccola ingenuità nella redazione di una delibera, che da un paio d’anni l’amministrazione comunale “regalava” l’erogazione di cinque pasti ad una struttura privata. Senza uno straccio di atto amministrativo, senza alcunché ne dimostrasse l’interesse pubblico. Abbiamo sollevato la questione e la risposta è stata volgare e arrogante. Il succo era “comandiamo noi, punto”. Di fronte ad un simile atteggiamento abbiamo chiesto tutti gli atti e li abbiamo trasmessi alla magistratura, affidando a loro la valutazione sulla legittimità delle procedure. Il pubblico ministero ha subito individuato delle palesi irregolarità e ha avviato una serie di indagini, al termine delle quali il sindaco è stato rinviato a giudizio. Solo ieri, dopo circa due anni, c’è stata la prima udienza “interessante”. Sono stati ascoltati Scaccia, la responsabile della struttura e Galli. Il sindaco ha smentito alcune affermazioni di Scaccia, che ha sostanzialmente preso le distanze dalla procedura di assegnazione del patrocinio, decisamente molto disinvolta. La beneficiaria del patrocinio ha spiegato che, per ottenere l’erogazione dei pasti, è stato sufficiente un incontro nell’ufficio del sindaco. Galli ha chiamato il responsabile dell’ufficio e gli ha detto di fare avere cinque pasti al giorno alla struttura. Non c’è stato bisogno di altro. Un po’ insolito, vero? Sono comunque migliaia di euro di costi aggiuntivi per l’amministrazione comunale e Alfredo Galli - che all’epoca avrà avuto “appena” 25 anni di esperienza come amministratore tra consigliere, assessore, vicesindaco e sindaco – non si è posto il problema di rispettare le procedure di legge, non sì è chiesto se l’appalto prevedesse una simile possibilità, non ha pensato che, essendoci un impegno di spesa, era necessario quantomeno un visto di regolarità da parte dell’ufficio competente. Del resto, se non fosse stato per un’ingenuità, non se ne sarebbe saputo nulla. E ci si chiede: in quante altre occasioni il sindaco avrà disposto in modo così spigliato delle risorse pubbliche?
La strategia processuale viaggia su due binari: si sta cercando, da un lato, di sminuire la gravità della vicenda, e, dall’altro, di dimostrare la regolarità della procedura. E’ infatti comparso un documento, privo di numero di protocollo, che dovrebbe rappresentare l’atto amministrativo con cui il sindaco avrebbe dato le disposizioni necessarie. Per il resto buio assoluto. Ci si basa solo su presunzioni indimostrabili. “Tutti sapevano”, “Tutti erano stati informati”. Ma tutti chi? Non c’è un solo documento che attesti la trasparenza di quanto avvenuto, anzi. I maldestri tentativi di rabberciare la situazione hanno dato vita ad un sacco di contraddizioni. Ad un’udienza hanno addirittura fatto pervenire una pagina del bilancio, dalla quale si sarebbe dovuto desumere che l’iniziativa aveva finalità sociali (l’ho fatto a fin di bene, è la tesi). Peccato che la pagina non dimostri alcunché e, soprattutto, il capitolo citato non è quello da cui sono stati presi effettivamente i soldi.
Per quale motivo un sindaco dovrebbe destinare risorse pubbliche ad un’attività privata senza avere la certezza di un vantaggio per la collettività? Che l’attività privata sia di interesse pubblico non è in discussione, ma è anche vero che la finalità – legittima, per carità – è comunque quella del guadagno. Anche il panettiere e la farmacia sono di interesse pubblico. Se non ci fossero sarebbe un problema. Però nessuno immagina che un sindaco possa decidere – ad esempio – di cedere loro un locale del comune schioccando semplicemente le dita. E Galli sa bene che non poteva farlo. E lo sapeva anche quando ha ostentato il proprio potere di fronte alla giovane imprenditrice chiamando il funzionario e indicandogli quello che doveva fare. Durante la difesa in aula Galli ha citato la legge Bassanini sulla responsabilità dei funzionari. In pratica, è la tesi del sindaco, io non ho deciso praticamente nulla. Ha fatto tutto il dirigente. Se c’è un errore, l’ha fatto lui. Immaginiamo la situazione. Un potente sindaco intima ad un funzionario di dare seguito ad una sua richiesta. Mancano i presupposti giuridico-amministrativi. Lo sanno entrambi. Ma il sindaco ha appena fatto lo “splendido” (come si dice a Roma) e il funzionario sa che il suo “status” all’interno dell’amministrazione dipende da quel sindaco. Tra l’altro ci sono le elezioni amministrative alle porte e questo tipo di azioni genera gratitudine e la gratitudine si trasforma facilmente in consenso. Il funzionario avrebbe dovuto dire: “Certo sindaco, appena approvate la delibera di giunta, faccio la determina”. Ma, probabilmente, lo sguardo del sindaco non lascia spazio ad esitazioni. Quella cosa va fatta e subito. Senza troppi appesantimenti burocratici. In fondo ogni mese il comune paga migliaia di euro per i pasti. In parte vengono recuperati con la vendita dei buoni pasto, ma la copertura dei costi è sempre piuttosto bassa. Quanto vuoi che incidano su un capitolo di spesa per il quale la previsione è sempre piuttosto incerta? Tanto vale chiamare la ditta (non risulta, infatti, neppure anche un ordine scritto) e chiedere di portare cinque pasti da un’altra parte. Non è previsto dall’appalto (e anche qui si viola la legge) ma anche la ditta avrà avuto le sue buone ragioni per non stare a fare troppe storie. L’irregolarità nasce tutta qui. Da questa approssimazione mista a debolezza, connivenza o interessi. Certo, poi, anche se parte un’indagine della magistratura, gli anni passano, i ricordi diventano sbiaditi e le cose sembrano meno gravi. Poche migliaia di euro. In fondo è una struttura che serve. Magari davvero si è abbassato il costo della retta per le famiglie. Inoltre ci vanno di mezzo quelli che c’entrano poco o niente: il privato (che non è tenuto a conoscere le procedure) o il funzionario (che è comunque l’anello debole).
Non so come andrà a finire. Gli atti processuali dimostrano – senza tema di smentita – che c’è qualcosa di piuttosto singolare nella procedura. Intanto, non solo manca agli atti un documento che attesti la richiesta di patrocinio. La risposta, in compenso, c’è. E’ un atto firmato dal sindaco, datato settembre 2006, ma non protocollato. In sostanza – se il documento è autentico, ma l’assenza del protocollo e l’evidente fretta con cui è stato scritto giustificano eventuali dubbi – il sindaco concede il patrocinio prima ancora di autorizzare l’attività, che avverrà solo due mesi dopo, a novembre del 2006. Facciamo il confronto con la recente richiesta di sostegno economico del gruppo donatori di sangue. La finalità è evidentemente più che meritoria e senza alcun fine di lucro. La somma è decisamente modesta, appena 200 euro. Eppure è stata necessaria una richiesta scritta e regolarmente protocollata a cui ha fatto seguito una delibera di giunta, provvista del visto di regolarità contabile. Tutto questo per soli 200 euro. Mentre, per migliaia di euro l’anno ad un’impresa privata sono bastati un colloquio nell’ufficio del sindaco e un paio di telefonate. Tutto molto strano. Così come è strano che, subito dopo la scoperta, si siano precipitati ad annullare l’erogazione dei pasti, quasi a riconoscere l’errore. Ed è strano anche che, durante l’iter processuale, l’amministrazione abbia deciso – con delibera di giunta - di fornire la tutela legale (pagata quindi con i soldi pubblici) al proprio dirigente. L’avvocato è lo stesso che, all’inizio, difendeva anche il sindaco. Massima fiducia nella deontologia professionale degli avvocati, ma è un altro segnale che non tranquillizza. Chi non può certo stare tranquillo è il dirigente, a cui, a quanto pare, Galli sta cercando di scaricare ogni responsabilità. Tra l’altro la delibera stabilisce che, in caso di condanna, le spese legali non le sosterrebbe più l’amministrazione, ma il dipendente. Oltre al danno, la beffa.

26 novembre 2012

La solitudine dei numeri


Alla fine contano i numeri.  Questa frase l’avrò sentita decine di volte da quando seguo la politica locale. E’ la perfetta sintesi del comune sentire dei “pragmatici” della politica. Quelli che ti dicono “vanno bene le idee, vanno bene le competenze, ma senza i voti…” e la frase rimane solennemente sospesa. Il tono e la postura sono quelli di chi la sa lunga. Ostentano cattedratica saggezza. L’aposiopesi serve a sottolineare la gravità dell’assunto. Senza rendersi conto che l’interlocutore, spesso, si sente un po’ come Totò di fronte alle perle di saggezza di De Filippo (“e ho detto tutto”, “Ma che dici con questo ho detto tutto, che non dici mai niente?”).
Qualche volta, però, i numeri sono dispettosi e condannano proprio chi li trasforma in oggetto di culto. Pensiamo, ad esempio, alle recenti primarie. A Labico, per le primarie, si è spesa, con grande impegno, una lista civica, attraverso i suoi più autorevoli esponenti (consigliere comunale, segretari di sezione, candidati più votati) e persino il vicesindaco – di altra lista, quindi – ha dato il proprio contributo. Dalle dichiarazioni dei giorni precedenti il voto ci si sarebbe aspettati una grandissima partecipazione e un sostanziale plebiscito per il segretario del PD, Pierluigi Bersani, sostenuto in modo unanime dalla nomenclatura locale del partito (e non solo). Invece le cose sono andate diversamente. Rispetto ai pochi, pochissimi, votanti, c’è stata una buona affermazione di Vendola (SEL) e un ottimo risultato di Renzi, che non risulta essere stato appoggiato da nessuno a livello locale.
Se dovessero contare “questi” numeri, l’alleanza alla base della lista dovrebbe subire un sostanziale cambiamento degli equilibri interni. Chissà, magari questa volta i numeri non conteranno. Questa è una delle ragioni per cui talvolta la politica appare così poco comprensibile. Per molti politici i numeri sono imprescindibili quando fanno comodo, ma se, alla conta, si trovano in difficoltà, le valutazioni diventano altre. Alle brutte possono sempre autoproclamarsi “vincitori morali”.

24 novembre 2012

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne


In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne l'associazione "Socialmente donna" di Labico ha organizzato tre giorni di iniziative. Questo è il mio contributo. Racconto la storia dell'ultima donna condannata a morte nel Regno Unito: Ruth Ellis.

Ruth

Ruth Ellis e Albert Pierrepoint si incontrano il 13 luglio del 1955. Non è esattamente un appuntamento galante, il loro. Ruth è una splendida donna. Ha 28 anni. E’ bionda e attraente. Ruth ha ucciso un uomo. E’ un assassina. Albert di uomini (e di donne) ne ha uccisi molti di più… Però, tecnicamente – almeno sul piano del diritto –, non è un assassino. Albert è un boia, lui uccide, sì, ma per lavoro. E il suo lavoro, in quella tiepida mattina di luglio, si chiama Ruth Ellis.
Siamo nel Regno Unito, uscito vincitore dal conflitto mondiale e animato da un grande fermento sociale, culturale ed economico. Winston Churchill si è appena dimesso da primo ministro. La regina è Elisabetta II, sì, proprio lei. E’ salita al trono da soli due anni ed è molto giovane. E’ una coetanea di Ruth. Ma l’orologio della vita di Ruth si fermerà quella mattina. Alla regina le cose andranno decisamente meglio.
Albert è un professionista scrupoloso. Figlio d’arte. Il padre, Henry, gli ha insegnato molto presto il mestiere e lui ormai sa fare molto bene il suo lavoro. Lo strumento usato per le esecuzioni nel civilissimo Regno Unito è la forca. I malviventi vengono impiccati. E se la pena capitale è barbarie, l’impiccagione lo è un po’ di più. Il rischio è che l’esecuzione si trasformi in un’angosciante agonia. Albert lo sa bene e ha studiato, come fa sempre, con cura la situazione. Ha preso le misure di Ruth e ha preparato gli strumenti: il metro da sarto, una corda di due metri e mezzo e un peso di 47 kg da legare ai piedi di Ruth. Il peso serve a ridurre al minimo la sofferenza, ma non deve essere eccessivo per non rischiare che la scena di morte diventi ancora più cruenta. I preparativi producono l’effetto desiderato. Ruth ci mette appena 12 secondi a morire. Certo, per la povera Ruth quei 12 secondi saranno stati interminabili, ma meglio di così Albert proprio non poteva fare. Poi, per un’ora, il corpo senza vita di Ruth rimane appeso al patibolo. L’esecuzione pubblica e l’orrore supplementare dell’esposizione del corpo trovano la loro giustificazione in una cultura giuridica che attribuisce alla pena un’efficacia sotto il profilo della prevenzione (la vista di quel corpo senza vita penzolante come monito al rispetto delle leggi).
Fermiamoci un istante e torniamo indietro. Chi è Ruth?

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Ruth Hornby è una donna affascinante, bionda e appariscente. Nata nel 1926 (come Elisabetta…) in una cittadina gallese sul mare, dalle parti di Liverpool. Il padre suonava il violoncello e la madre era una rifugiata belga. E’ la terza di sei figli. Origini modeste, dunque, ma Ruth non si può certo definire figlia del degrado e della disperazione.
Certo, è cresciuta in fretta, ma è difficile misurare le cose con il metro dei nostri tempi. Ruth, ad esempio, ha iniziato a lavorare come cameriera a 14 anni. Nulla di strano, all’epoca. Così come non è insolito che una ragazza rimanga incinta a 17 anni, come capita a Ruth a seguito di un fugace incontro con un soldato canadese, già sposato e che per circa un anno le manda qualche soldo per il mantenimento del figlio, ma che fa perdere in fretta la proprie tracce.
Insomma a 18 anni Ruth è già una ragazza madre e in qualche modo cerca di arrangiarsi. Non ci mette molto a capire che la sua bellezza può permetterle compensi di gran lunga più allettanti rispetto alla paga da cameriera. All’inizio le basta mostrare il proprio corpo, sulle prime come modella di nudo, poi come entreneuse nei night club. Il passo successivo non è difficile da immaginare. Probabilmente non è esattamente una scelta “libera”.  Inquadriamo il contesto. Siamo in un locale dove gli avventori sono quasi esclusivamente uomini e il “prodotto” offerto non è tanto il whisky scadente o la mediocre orchestrina. Chi entra nel Court Club in Duke Street è interessato ad altro. E, in quell’altro, c’è anche lei, Ruth, bellissima ventenne. Talmente bella che lo stesso direttore del Court Club non se la lascia sfuggire e le fa capire un paio di cose: che se vuole continuare a lavorare lì se lo deve meritare e che, con un po’ di buona volontà, i suoi guadagni possono salire.
Ed è così che Ruth, grazie alla sua buona volontà e a quella di uno dei clienti del night club, si ritrova di nuovo incinta. E una gravidanza non è esattamente gradita in un simile ambiente di “lavoro”, dove non sono certo previsti l’astensione per maternità e i congedi per l’allattamento. Ancora una volta la sua scelta è “condizionata” e abortisce (tra l’altro commettendo un reato). Deve tornare a “lavorare” prima possibile.
Nel 1950, a 24 anni, si sposa con un uomo decisamente grande di lei, George Ellis. 41 anni, dentista, divorziato con due figli, George non sembra esattamente un marito modello. Chi lo conosce lo descrive come un uomo dedito all’alcol, violento, geloso e possessivo. Inutile dire che il matrimonio non durerà molto. George rifiuterà persino di riconoscere la figlia, frutto della loro unione. L’unica cosa che le lascia è il cognome: Ellis.
Nel 1953 Ruth migliora la sua posizione. Adesso è lei a gestire un nightclub. E’ un periodo “buono”. Ha molti ammiratori, spesso celebri e generosi, tra cui Mike Hawthorn, un pilota di Formula Uno, appena entrato a far parte dell’illustre scuderia italiana, la Ferrari, con la quale vincerà anche un mondiale. Sarà lui a presentarle David Blakely.
David Blakely è un bel ragazzo, benestante e di buone maniere (almeno finché è sobrio). Correre in pista probabilmente per lui è semplicemente il passatempo del rampollo dell’alta società inglese. Nel complesso è quello che si può definire un “bravo ragazzo”, forse un po’ viziato. Il suo unico difetto è che ama bere.
Tra i due nasce subito una forte attrazione e dopo poche settimane dal loro primo incontro David diventa un ospite fisso dell’appartamento di cui Ruth dispone sopra al club.
Ruth rimane incinta per la quarta volta, ma decide di abortire. Teme di non essere in grado di ricambiare il sentimento dimostrato da David nei suoi confronti. Nel frattempo nasce una relazione con Desmond Cussen, un ex pilota della RAF. Sarà lui ad ospitarla quando il Club le darà il benservito.
Ruth e il figlio vivono con Desmond come se fossero una vera famiglia. Desmond si occupa molto del bambino. Ruth, nel frattempo, continua a vedersi con David, in una relazione che diventa sempre più conflittuale, morbosa e violenta. A un certo punto David le propone di sposarla e lei, all’inizio, accetta. Al matrimonio, però, non arriveranno. Durante uno dei frequenti litigi David la colpisce violentemente al ventre con un pugno. Ruth di botte ne ha prese tante in vita sua. Non è stata molto fortunata con gli uomini e un po’, alla violenza, ci si è abituata. Stavolta è diverso. Forse perché quella notte Ruth si sveglia in un lago di sangue. Quel cazzotto le causa il suo terzo aborto. Con quel cazzotto, probabilmente, in Ruth si spezza anche qualcos’altro.
E’ chiaro che tra Ruth e David non ci sono prospettive, non c’è un futuro. David ormai sembra non volerne più sapere di lei. Ruth è una donna innamorata e ferita. Si sente umiliata e abbandonata. Il 10 aprile del 1955 è domenica. E’ la domenica di Pasqua. Ruth va a cercare David. Lo fa con una pistola in tasca. Una Smith & Wesson calibro 38, modello Victory. Un arnese di un chilo. A tamburo, di quelle che non si inceppano. Roba in dotazione ai militari e alla polizia. Chi ha dato la pistola a Ruth? Non è la sua, ma nessuno si preoccupa di come se la sia procurata. Lo aspetta vicino alla sua automobile e, quando lo vede arrivare, lo chiama per nome. Lui le passa davanti senza neppure degnarla di uno sguardo. Il bivio che separa i possibili destini non è sempre facile da riconoscere. E non sapremo mai se sia stata quell’ostentata indifferenza a far calare, anche se solo per pochi istanti, il buio nella mente di Ruth. A farle abbandonare ogni logica, ogni riflessione, ogni scrupolo (anche per il futuro dei suoi figli) e a farle premere il grilletto. Una prima volta, andata a vuoto, e poi, una seconda, una terza, una quarta. Fino all’ultima, quando ormai David è a terra. Avvicina la pistola al suo corpo e spara ancora.
Le indagini della polizia sono decisamente agevoli e rapide. Ruth non nega mai alcuna responsabilità, né cerca di assecondare le strategie difensive che il suo legale le propone, per esempio sconsigliandole un abbigliamento troppo “vistoso”. Affronta il processo a testa alta e forse qualcuno della giuria interpreta come arrogante il suo atteggiamento.
Quando il pubblico ministero le chiede perché abbia sparato a David, lei risponde candidamente: “E’ ovvio, per ucciderlo”. Non c’è bisogno di molto altro per chiudere velocemente il processo. Nessuno pensa di farsi (e di fare) troppe domande. Nessuno, ad esempio, chiede come mai Ruth avesse una pistola. L’arma le è stata data da Desmond, che l’ha persino accompagnata sul luogo del delitto. Un comportamento quantomeno irresponsabile. La donna era sicuramente agitata e nessuno, con un briciolo di buonsenso, avrebbe dovuto darle un’arma carica e accompagnarla dall’uomo verso il quale Ruth prova collera e rancore, ma che era convinta di amare. Lo scrive anche nell’ultima lettera che manda ai genitori di David: “Ho sempre amato vostro figlio, e morirò continuando ad amarlo”. Non cerca perdono, non chiede commiserazione.
Tutto questo non è stato minimamente considerato. Del resto, lo scenario è l’ideale per una condanna esemplare. Lui, la vittima, un “bravo ragazzo” colpevole solamente di essersi infatuato di “quel” tipo di donna. Lei, l’assassina, bella e algida seduttrice, che non ha sopportato l’idea che lui si sia stancato di lei. Il dramma perfetto. Infatti, la giuria ci mette appena 14 minuti a stabilire, non la colpevolezza di Ruth, che non è in discussione, ma che Ruth meriti di essere impiccata. Non c’è bisogno di aprire un dibattito sulla pena capitale, sulla sua efficacia in termini preventivi e sulla sua giustizia in termini retributivi (la punizione per quanto commesso). Bisogna solo farsi una semplice domanda. A parti invertite, se David, il bravo ragazzo accecato dalla gelosia, avesse ucciso Ruth, la donna dai facili costumi, sarebbero bastati 14 minuti per emanare una sentenza di morte?

13 novembre 2012

La colpa di andare in bicicletta


C’è una frase che mi riecheggia in testa continuamente. “Eh, però, questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Fa il paio con “Sì, sì, ma andava in giro con certe minigonne”. Affermazioni che, più o meno inconsciamente, portano a giustificare e deresponsabilizzare chi commette reati gravissimi. Una ragazza di 17 anni è morta nei giorni scorsi, uccisa da un SUV che è piombato su un gruppo di scout in bicicletta. Il SUV, a quanto sembra, andava velocissimo. Ci ha messo 300 metri a fermare la sua folle corsa, trascinando la ragazza per 200 metri. Probabilmente non era un extracomunitario, altrimenti l’avrebbero messo nel titolo e questo ci avrebbe sollevati tutti. Certo, il solito rumeno. Per fortuna era risultato positivo al testo alcolemico. Questo ci tranquillizza un po’. Beh, era ubriaco fradicio. L’ultimo appiglio per salvare il nostro modello mentale sarebbe stato, appunto, “questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Perché questo? Perché la nostra cultura della sicurezza stradale si basa su un assioma – tutto da dimostrare e sulla cui genesi preferisco non pronunciarmi – che considera il mezzo motorizzato il padrone indiscusso della rete viaria. Fatti salvi alcuni distinguo, e anche qualche rivalità, tra le varie tipologie (auto, moto, camion), la strada appartiene ai “potenti” - nella doppia accezione, in cavalli e in (presunto) peso sociale – e gli altri – in primis ciclisti e pedoni - sono ospiti appena tollerati, se non proprio indesiderati.
Da questa visione distorta nasce la convinzione, nell’automobilista medio, che il ciclista sulla strada sia un fastidioso ostacolo alla propria legittima esigenza di mobilità. L’automobile ha sempre la precedenza, anche se la sto usando per andare all’outlet e il ciclista sta andando al lavoro. Chi va in bici dovrebbe farsi da parte, non essere d’intralcio. Non ci si aspetta che lo faccia un camion o un’automobile che va più piano di noi. Un ciclista, sì. Lui dà fastidio. E se sono un gruppo, levati cielo, diventa un attentato alla Costituzione. Va tutto bene. L’automobilista che lascia l’auto in doppia fila. Il corteo nuziale lento e strombazzante lungo le vie della città. Il raduno di moto o auto d’epoca rombante e allegro che blocca il traffico. Tutto, tranne i ciclisti. Loro non hanno diritto di cittadinanza e, se proprio vogliono andare per strada, non devono dare fastidio. Lo stesso codice della strada che per gli automobilisti è a malapena un compendio di suggerimenti, consigli e linee di indirizzo, diventa una norma cogente ed inderogabile per i ciclisti, che devono attenersi scrupolosamente ad ogni singolo comma del codice, la cui interpretazione diventa particolarmente rigorosa. Ed è così che il ciclista dovrebbe stare sul margine destro della carreggiata, preferibilmente a destra della linea bianca, senza tenere conto della pericolosità di una simile condotta per un veicolo a due ruote, considerando il non impeccabile stato dell’asfalto delle nostre strade.
Questa “cultura” autocentrica è il terreno fertile per i comportamenti più sconsiderati e pericolosi. La sola presenza del ciclista sulla strada è già una sua “colpa” ed una mia deresponsabilizzazione per l’eventuale azzardo del mio sorpasso. Quanti automobilisti non si preoccupano se lasciano pochi centimetri tra loro e il ciclista quando lo superano? Loro non corrono alcun pericolo ben protetti all’interno del proprio confortevole SUV. Quei pochi centimetri per il ciclista possono determinare la perdita dell’equilibrio con conseguenze anche gravi. “Ma stava in mezzo alla strada”. E probabilmente non era “in mezzo” era “sulla” strada, magari anche in prossimità del margine destro (come prevede il codice). Però, nella nostra testa, un ciclista sulla strada è sempre in mezzo. E se poi fosse davvero in mezzo questo legittima il rischio di ucciderlo?
Ed è esattamente quello che ha fatto il guidatore del SUV a Casalmaiocco. Non un delinquente, non un extracomunitario. Sarà magari un libero professionista, che se ne andava a spasso in una giornata festiva. Anche se ubriaco, non può non aver visto il gruppo di ciclisti. Stava tranquillamente oltre i limiti di velocità (ma questo, come automobilisti, lo consideriamo sempre un comportamento legittimo, sono i limiti ad essere troppo bassi) e non aveva intenzione di rallentare. Erano i ciclisti in torto. E lui ha deliberatamente deciso di mettere a repentaglio la loro vita per non rinunciare al proprio diritto di andare alla velocità giudicata più consona alle sue esigenze. Non è una semplice colpa. E’ una responsabilità più grave. C’è il dolo, anche se solo eventuale. E’ evidente che non c’era la volontà di uccidere, ma non poteva mancare la piena consapevolezza del rischio di farlo. Vale il principio giuridico della sentenza di condanna – per omicidio volontario con dolo eventuale - dell’amministratore della ThyssenKrupp per il rogo in cui erano morti alcuni operai. Nessuno pensa che l’amministratore volesse la morte degli operai. Il senso della sentenza è che chi ha deciso di non installare i sistemi di sicurezza abbia accettato di mettere a repentaglio la sicurezza delle persone, subordinato consapevolmente un determinato bene (la vita umana) a un altro (probabilmente il risparmio per l’azienda). Nel caso del nostro SUV il bene subordinato è sempre la vita umana, quello prevalente è portare piuttosto in fretta la sua inutile testa... vuota da qualche parte.

9 novembre 2012

Diffamazione: difendere un principio o una categoria?



Mi dicono che sulla bacheca del presidente dell'ordine dei giornalisti è apparso un appello per raccogliere dati sulle querele e citazioni in giudizio per diffamazione.




Ho deciso di mandargli questa mail.






Gent.mo Enzo Iacopino,

Su internet gira un suo appello per raccogliere dati di querele/citazioni per diffamazione. Mi piacerebbe rispondere alla sua richiesta. Nei miei confronti è stata annunciata, a mezzo stampa, una querela (peraltro mai vista) e sono stato citato in giudizio per una richiesta di risarcimento danni. E’ successo per aver scritto un articolo su un foglio di informazione locale (tra l’altro denunciato per “stampa clandestina”) in merito al rilascio di un permesso di costruire, sulla cui legittimità avevo espresso alcune perplessità. La controparte è il potentissimo sindaco di un piccolo comune e ha pensato bene di chiedermi 50mila euro. Impensabile fare politica a livello locale con simili “minacce”. Temo, però, che il mio caso possa non interessarle. Non ho scritto su una testata giornalistica (del resto non è facile trovare giornali registrati che si occupano di alcune questioni locali) e non sono un giornalista. Quindi, la sacrosanta battaglia per la difesa di alcuni principi potrebbe, paradossalmente, diventare classista. Anzi - se dovesse passare il meccanismo che tutela i giornalisti professionisti escludendo per loro l’ipotesi di pene detentive, ma solo sanzioni pecuniarie - le “classi” diventerebbero tre. Al livello più basso i semplici cittadini, magari impegnati in difficili lotte su temi ambientali, sociali, culturali e per i diritti, che sarebbero privi di ogni forma di tutela. Poi ci sarebbero i giornalisti “sfigati”, quelli che scrivono per piccole testate oppure portano avanti faticosamente giornali locali di approfondimento e inchiesta. Senza sponsor e senza finanziatori. Loro non potrebbero certo permettersi contenziosi legali e risarcimenti milionari e sarebbero costretti ad una certa cautela. Infine ci sarebbero i giornalisti alla Sallusti (mi perdoni la semplificazione antonomastica). Con le spalle coperte da ricchi editori, non avrebbero problemi a portare avanti campagne realmente denigratorie. Qualcuno disposto a pagare il “disturbo” lo troverebbero sicuramente. Mi piacerebbe che la vostra battaglia – che condivido e appoggio a prescindere – fosse a tutto tondo per la difesa dell’articolo 21 della Costituzione. Se desidera, le mando i miei “dati” per la sua indagine. Altrimenti, grazie comunque per l’attenzione.


Tullio Berlenghi

8 novembre 2012

Evviva i beni comuni



La comunicazione – non solo politica – spesso funziona bene quando è caratterizzata dalla semplicità. I messaggi diretti arrivano più facilmente. Per fare messaggi semplici servono poche parole. E le parole che suscitano sensazioni positive sono un numero limitato. Di conseguenza non è infrequente vedere le stesse identiche parole negli slogan e addirittura nei nomi delle forze e dei movimenti politici, anche molto diversi tra loro. La parola “libertà”, ad esempio, è nel nome del partito che fino a pochi mesi fa era il principale attore politico (Popolo della libertà), sia nel nome di uno dei suoi più determinati antagonisti (Sinistra, ecologia e libertà). O le parole “alleanza” e “democrazia” (e derivati) che troviamo sia a destra che a sinistra. E anche gli slogan spesso sono davvero molto simili ed è veramente difficile pensare di poter decidere in base a questi pochi (e vaghi) elementi. Ovviamente bisogna seguire la sensibilità del momento ed è per questo che, da poco tempo, hanno fatto il loro ingresso nel vocabolario della politica due parole del tutto assenti fino a qualche anno fa: “bene comune” (o “beni comuni”). Un certo movimento culturale e di opinione è riuscito, lavorando con fatica ed in controtendenza rispetto alla crescente legittimazione delle politiche predatorie, ad affermare l’importanza della tutela e valorizzazione di tutto ciò che ha un incommensurabile valore per la collettività e che, pertanto, non può e non deve essere danneggiato, alienato, privatizzato o, semplicemente, dissipato. Con la battaglia per l’acqua pubblica c’è stato un momento di grande crescita di questa consapevolezza e la vittoria al referendum ha convinto molte forze politiche ad “inseguire” il trend. Non per convinzione, ma per opportunità. E il modo più immediato è quello del ritocco estetico. Così i “beni comuni” sono entrati prepotentemente nel lessico della politica. Da perfetti sconosciuti a protagonisti della scena. Chi non è riuscito a infilarli nella ragione sociale ha dedicato loro almeno uno slogan.  Uno slogan semplice, diretto, efficace. Quanto innocuo. Perché chiunque può dire: “Viva i beni comuni”. Persino Berlusconi, notoriamente ostile a tutto ciò che non è suo e di cui non si può appropriare. Infatti, dopo lo slogan, si annida sempre, perniciosa e preoccupante, la postilla, la specificazione, la precisazione. Spesso sottaciuta. E così gli autentici beni comuni: l’acqua pubblica, il territorio, l’ambiente, la salute, la cultura, passano, di fatto, in secondo piano rispetto alle reali (e inespresse) priorità.  Il “bene comune” diventa il classico specchietto per le allodole, il variopinto imballo per indurre il consumatore disattento a comprare un prodotto. Attratto più dai colori della confezione che dalla qualità del contenuto. Memo per le prossime elezioni: leggere con attenzione gli ingredienti prima di scegliere il prodotto. 

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura