28 dicembre 2014

Fanfare e fanfaroni


Ogni tanto, come si suol dire, riciccia. Noi da tempo lo chiamiamo affettuosamente il “bugiardino”, un vezzeggiativo che serve un po’ a stemperare quel sentimento misto di sconcerto e indignazione che si crea man mano che si va avanti con la lettura di una così corposa mole di amenità concentrata in così poco spazio. Un vero record. L’opuscolo in questione, denominato "Labico news",  non è altro che un normale strumento di comunicazione politica (chiamarla informazione sarebbe improprio) della maggioranza che viene spacciato per un periodico (la cui periodicità non è dato conoscere, ma possiamo solo dire che nella migliore delle ipotesi trascorre un anno tra un’uscita e l’altra) per di più “gratuito”, quando è noto che il costo della pubblicazione medesima è sostenuto con i soldi pubblici, quindi con i soldi dei cittadini che pagano le tasse e lo stipendio al sindaco ed alla giunta.
Non ho né tempo né voglia di fare l’analisi del testo, secondo il quale l’amministrazione attuale – praticamente la stessa dallo scorso millennio – avrebbe fatto un lavoro meraviglioso e non si capisce come mai qualche ingeneroso detrattore non apprezzi gli straordinari risultati conseguiti, ma mi limiterò ad alcune considerazioni:
1.       Non si capisce come mai dal sito del comune di Labico siano scomparsi i numeri precedenti della pubblicazione dell’amministrazione. Forse perché il confronto con le promesse di qualche anno fa rende meno credibili quelle attuali? In effetti questa pubblicazione sembra ricalcare il sistema comunicativo del celebre romanzo 1984, nel quale c’erano gli addetti alla cancellazione della memoria collettiva per evitare che i cittadini potessero notare le contraddizioni e gli errori dei governanti. Peccato che non basti rimuovere pagine dal sito del comune e siamo in grado di recuperare qualche cimelio (molto istruttivo) del passato.
2.       Conti del comune. Tra il sindaco e il vicesindaco fanno a gara per confondere le idee. Si mescolano fatti veri (la riduzione dei trasferimenti da parte dei governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi è un dato effettivo) con ricostruzioni molto fantasiose di ben poco edificanti vicende (come la questione dei depuratori, per la quale la responsabilità amministrativa e politica di Galli & C. è lampante ed è sufficiente leggere le carte per rendersene conto) con vere e proprie sciocchezze, come l’ineluttabilità dell’aumento delle tasse. Non è vero che “tutti i comuni d’Italia di dimensioni simili a Labico” abbiano aumentato le tasse. Alcuni comuni hanno aumentato le tasse. Altri hanno eliminato alcune spese. Altri hanno ridotto alcuni servizi. Il comune di Labico è uno dei pochi, se non l’unico, ad essere riuscito a: aumentare le tasse (quasi fino al massimo consentito dalla legge); aumentare in modo considerevole il costo dei servizi a domanda individuale; non eliminare gli sprechi; ridurre i servizi. Un capolavoro.
3.       L’urbanistica. E’ il principale fallimento di questa amministrazione. L’espansione edilizia di questo comune è frutto di una cattiva programmazione urbanistica accompagnato da una pessima attuazione degli strumenti di piano, dal generoso ricorso a meccanismi di deroga (di cui ha usufruito anche il sindaco per edificare in zona agricola) e da una certa accondiscendenza nei confronti degli abusi edilizi. Per non farsi mancare niente è stata progettata una nuova variante urbanistica di stampo squisitamente elettorale con la quale si è prevista l’edificabilità disordinata ed irrazionale di una porzione enorme del territorio. La prima ipotesi di quella variante era stata presentata nel 2004 come il frutto della condivisione del lavoro della maggioranza e della minoranza dell’epoca. Noi l’avevamo giudicata irricevibile e l’abbiamo contestata prima fuori dal consiglio comunale e poi – durante la fase dell’esame delle osservazioni – in consiglio comunale. Ora è ferma su un binario morto della Regione Lazio ed è stato già annunciato un nuovo incarico ad un professionista e l’adozione di misure per risolvere tutte le criticità rilevate. Tradotto dal politichese vuol dire che si aprirà un nuovo mercato delle vacche, con la devastazione del territorio usata come merce di scambio per il consenso elettorale. Nel frattempo proprio questa scellerata politica urbanistica – che ha favorito la speculazione edilizia - ha ridotto drasticamente il valore degli immobili situati nel comune di Labico (basta guardare la borsa immobiliare per rendersene conto), impoverendo i suoi abitanti che, con molti sacrifici, avevano investito i propri risparmi sulla casa.
4.       Opere pubbliche. Se andiamo a ripescare i vecchi bugiardini troviamo alcune opere che ancora adesso campeggiano in bella evidenza sul programma attuale. Prima tra tutte la ristrutturazione del palazzo Ex Eca, che ancora deve vedere la luce (la colpa, ovviamente, è delle lungaggini burocratiche). Poi c’è una serie di opere, delle quali non è chiaro il motivo di vanto, visto che si parla di infrastrutture minime per un paese civile: illuminazione pubblica, marciapiedi, impianti fognari, plessi scolastici adeguati al numero di residenti. Alcune di queste opere – dette appunto di urbanizzazione primaria – avrebbero dovuto farle “prima” della costruzione e della vendita delle case (in realtà i costruttori, amici e parenti degli amministratori, hanno potuto aggirare allegramente la normativa vendendo case prive dei requisiti minimi di decenza) e invece la loro tardiva realizzazione sembra quasi un’opera meritoria. Per quanto riguarda il marciapiede di via Casilina, il vero scandalo è che i lavori siano ancora in corso dopo ben sei anni. Anche sulle scuole ci sarebbe molto da dire. Sono anni che le strutture scolastiche sono insufficienti e non sono rispettati gli standard di legge sul rapporto tra superficie delle aule e numero di studenti. Per non parlare degli spazi dedicati al miglioramento dell’attività didattica, talvolta sacrificati per creare le classi necessarie.
5.       Ambiente. Per la prima volta nella storia di questo comune c’è un assessorato che si occupa di ambiente, tema finora considerato marginale dai nostri amministratori. Non sarà facile sanare i danni degli ultimi anni, ma staremo a vedere. Nel frattempo, a sei anni dall’inizio della raccolta differenziata, viene fornito un primo vago dato sui risultati (tra l’altro non è vero che sia stato raggiunto un “obiettivo europeo”, casomai siamo, nonostante i progressi, ancora in violazione della normativa vigente che prevede il raggiungimento del 65 per cento entro il 2012, ossia due anni fa). Peccato che siano anni che chiediamo inutilmente di fornire un quadro completo dei dati sulla gestione dei rifiuti. Le amministrazioni comunali serie ed efficienti pubblicano periodicamente tutti i dati sul proprio sito internet. Il Comune di Labico, sulla cui serietà ed efficienza preferisco non esprimermi, non ha mai pubblicato un solo dato negli ultimi sei anni. Speriamo che con il nuovo assessore (cui, con l’occasione, formuliamo gli auguri di buon lavoro) qualcosa cambi.
6.       I grandi successi di Galli. Per un’incomprensibile distrazione nel bugiardino non sono riportati alcuni straordinari risultati ottenuti dall’amministrazione Galli. Ci sembra doveroso colmare questa lacuna con un breve – e purtroppo incompleto - riepilogo: 1) Città dell’arte. Nel 2005 veniva sbandierato lo straordinario ritrovamento di un’opera attribuita a nientepopodimeno che Gustave Eiffel. Subito pronta una bella speculazione edilizia per trasformare un’estesa area agricola in terreni edificabili. Poi non ne abbiamo saputo più nulla. 2) Biblioteca. Con andamento ciclico assistiamo a: corposi investimenti pubblici, annunci entusiasti, inaugurazione in pompa magna (preferibilmente poco prima delle elezioni) fino alla silenziosa sospensione del servizio. In questo momento Labico, paese di oltre seimila abitanti non ha una biblioteca. 3) Pista ciclabile. Un velo pietoso su 200mila euro buttati per una striscia d’asfalto senza capo né coda, mai ultimata. 4) Area di sviluppo industriale. Fanfare e grancasse per annunciare la realizzazione dell’area industriale e logistica che sarebbe dovuta sorgere presso Colle Spina e ritirata in gran fretta (buttando via, anche lì, qualche decina di migliaia di euro). 5) Centro giovanile. Qualcuno si ricorda l’enfasi con cui veniva annunciata la creazione del luogo di incontro per i nostri ragazzi? Ebbene, il luogo è scomparso. 6) Albergo diffuso a Labico. Anche in questo caso l’annuncio in grande stile in sala consiliare di una straordinaria opportunità economica per il Paese è svanito nel nulla. 7) Centro vaccinale. Il centro vaccinale è stato chiuso e a Labico, paese di oltre seimila abitanti (tra l’altro quello con l’età media più bassa nel Lazio), manca un centro vaccinale. A quanto pare il problema sembra non interessare gli amministratori.

7.       Sulla questione depuratori abbiamo già detto e scritto abbastanza, ma visto che la ferita brucia e il sindaco continua a ripetere come un mantra di non avere alcuna responsabilità, ma che si è trattato di una sorta di sfortunata ed imprevedibile fatalità. Chi poteva mai immaginare, in effetti, che triplicando (e, col nuovo piano regolatore, sestuplicando) la popolazione labicana sarebbe stato necessario l’adeguamento degli impianti di depurazione (già non proprio impeccabili)? Chi poteva anche lontanamente sospettare che la continua, inesorabile cementificazione del territorio e l’alterazione del normale deflusso delle acque avrebbe potuto azzerare la portata di un invaso al punto da modificarne la classificazione? Chi avrebbe mai pensato di attivare delle serie verifiche sulla gestione degli impianti di depurazione, per accertare che tutto venisse svolto in modo corretto e rispettoso della normativa vigente? Chi mai si sarebbe sognato di rispondere ai continui e numerosi quesiti dell’opposizione sulla situazione degli impianti fognari e di depurazione, la cui malfunzionalità era evidente anche per i non addetti ai lavori? Chi avrebbe mai potuto prevedere che qualche organo di polizia giudiziaria un po’ troppo zelante sarebbe andato a fare dei controlli e a verificare una situazione disastrosa, con numerose violazioni amministrative e penali, al punto da rendere necessario il sequestro degli impianti? La risposta è semplice: qualche amministratore onesto, giudizioso e competente. Certamente non i nostri amministratori, bravi con le chiacchiere e le fanfare, un po’ meno con i fatti. Buon 2015 a tutti i labicani.

5 dicembre 2014

Come nascono le terre di mezzo?


L’intreccio tra affari, politica e criminalità organizzata scoperchiato a Roma dallo straordinario lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine mette in luce la principale debolezza del nostro Paese rispetto ai nostri partner europei: l’insofferenza – culturale, prima di tutto – alle regole ed alla trasparenza. Intervenire su questo aspetto sarebbe la vera grande “riforma” che permetterebbe di riallinearci agli altri paesi occidentali. Non la riduzione delle tutele per i lavoratori, non la cancellazione delle norme di salvaguardia ambientale, non certo le semplificazioni procedurali su appalti e opere pubbliche (che, anzi, facilitano illegalità e ruberie). Peccato che sia un intervento molto difficile, soprattutto da parte di quella politica che alimenta, almeno in parte, i propri consensi proprio grazie a meccanismi di gestione non proprio inappuntabile delle risorse pubbliche. E, attenzione, questo non significa necessariamente contiguità con pezzi di criminalità organizzata. Significa però creare le condizioni per contaminare un sistema istituzionale. All’inizio con piccole irregolarità che diventano sempre più gravi e sistematiche e che possono trasformarsi in veri e propri illeciti, dando vita alla fine ad un meccanismo in cui la violazione diventa norma e dal quale è difficile tornare indietro. E’ importante allora intervenire al primo segnale, perché non è necessario che le irregolarità abbiano rilevanza penale per creare distorsioni, sprechi ed iniquità. E, tantomeno, bisogna aspettare che vengano fuori collusioni con la mafia e la criminalità organizzata per gridare allo scandalo. Bisogna intervenire prima. Bisogna intervenire subito.
Ed è questa la ragione per la quale 5 anni fa abbiamo esaminato con molta attenzione il caso di un appalto pubblico a Labico, rilevando numerose anomalie. La storia è in parte nota e ne farò una brevissima ricostruzione. A novembre del 2009 venimmo a sapere dell’esistenza di una procedura d’appalto per i lavori di ampliamento della scuola media. L’importo, per un piccolo comune, era significativo. Si parla di qualcosa come 700mila euro, che però vennero “frazionati” nel bando di gara, forse per stare sotto la soglia di 500mila euro (opportunamente elevata dal Governo Berlusconi poco tempo prima) e potersi avvalere di una procedura ristretta (quindi soggetta a meno controlli). Nonostante la procedura ristretta rilevammo una serie inquietante di anomalie, delle quali mettemmo a conoscenza il sindaco di Labico, chiedendo di sospendere la procedura di gara. Né il sindaco di allora, Andrea Giordani, né il sindaco di oggi (all’epoca responsabile degli appalti pubblici), Alfredo Galli, ritennero che ci fossero delle irregolarità e fecero tranquillamente concludere il bando. A quel punto non potemmo fare altro che raccogliere l’intera documentazione, predisporre una dettagliata relazione e portarla all’esame del nostro gruppo politico per un’azione comune. La nostra ferma intenzione era quella di trasmettere tutto immediatamente alla magistratura affinché verificasse eventuali illeciti. Alcuni consiglieri ci hanno chiesto di aspettare per valutare se aggiungere la propria firma e siamo stati costretti ad attendere oltre un mese per poter depositare il fascicolo alla Procura della Repubblica di Velletri. Un mese durante il quale, a quanto pare, tutta la nostra documentazione è finita nelle mani di uno degli attuali imputati, facilitando eventuali strategie difensive.
Probabilmente questa vicenda è stata una delle cause della rottura della coalizione e il segretario del Partito Democratico di Labico ne ha, in seguito, preso pubblicamente le distanze.
In realtà le cose stanno un po’ diversamente, abbiamo dovuto aspettare qualche anno, ma, alla fine, a maggio di quest’anno, siamo venuti a sapere, poiché chiamati in qualità di testimoni al processo, che la magistratura aveva confermato la presenza di illeciti, avviato un’indagine e rinviato a giudizio alcune persone. Di tutto ciò era informato il sindaco di Labico, il quale, oltre ad essersi guardato bene dal rendere nota la vicenda, non si è neppure preoccupato di tutelare gli interessi economici della comunità che è chiamato ad amministrare, costituendosi parte civile. Sì, perché un reato contro la pubblica amministrazione vuol dire, verosimilmente, danno economico per la pubblica amministrazione. E nel nostro caso i conti sono presto fatti, basta leggere le carte processuali: l’appalto di 500mila euro l’ha vinto una ditta che ha fatto un ribasso di pochi punti percentuali, mentre sarebbe stato possibile un ribasso tra il 20 e il 25 per cento (come affermato dal responsabile di una ditta il cui nome era stato utilizzato per presentare una falsa domanda, al fine di raggiungere il numero minimo di offerte), con un risparmio di circa 100mila euro. Basta moltiplicare questo valore per tutti gli appalti per capire l’entità dello spreco di risorse pubbliche che può essere causato da una “maldestra” amministrazione.
Al processo abbiamo deciso di avvalerci della cosiddetta “azione popolare” che consente anche ai semplici cittadini di intervenire in sede penale in sostituzione della pubblica amministrazione inerte e costituirsi parte civile. In pratica ci siamo fatti carico noi (e a nostre spese) di quello che Galli & company non hanno voluto fare. Abbiamo chiesto anche ai nostri ex compagni di viaggio di unirsi in questa battaglia, ma – in coerenza forse con il cambio di rotta di due anni prima – hanno preferito non rispondere.
L’aspetto che accomuna questa vicenda a quella – indubbiamente ben più grave – che ha sconquassato la politica della Capitale - in un intreccio che vede coinvolti esponenti di spicco di Forza Italia, Alleanza Nazionale e Partito Democratico – è che uno dei reati più contestati ai 100 tra indagati e arrestati dell’operazione “Terra di mezzo” è quello di “turbativa d’asta”, ossia lo stesso reato contestato agli imputati del processo labicano. La turbativa d’asta consente, in linea teorica, a soggetti estranei all’amministrazione di costruire un accordo per pilotare dall’esterno l’esito di un bando pubblico. E’ facile intuire che è molto difficile un’operazione di questo tipo senza nessun tipo di informazione che provenga dall’interno dell’amministrazione e, tantomeno, se – durante l’iter procedimentale – viene segnalata – come abbiamo fatto noi - la presenza di un’anomalia grave.
Come abbiamo avuto modo di dire in piazza, non crediamo che il nostro giudizio si debba basare esclusivamente su vicende che abbiano un rilievo penale e non ci interessa quale sarà l’esito del processo, perché la documentazione processuale dimostra in modo inequivocabile quello che noi abbiamo evidenziato sin dall’inizio: la regolarità dell’affidamento di quei lavori era fortemente incrinata da molteplici anomalie che non potevano certo attribuirsi al caso e questo ha comportato un esborso di soldi pubblici più elevato e minori garanzie di qualità di esecuzione dei lavori. La responsabilità – politica e amministrativa – per noi è già sufficiente per esprimere un giudizio negativo su chi ha permesso che ciò avvenisse. E un po’ di responsabilità – sempre politica – ce l’ha anche chi ha preferito tapparsi gli occhi di fronte all’evidenza. Ed è proprio chi si gira dall’altra parte, chi fa finta di niente, chi non vuole pestare i piedi a lasciare libero – più o meno consapevolmente – quello spazio dove si può insediare la “terra di mezzo”. Noi non ci siamo girati dall’altra parte.


Tullio Berlenghi e Maurizio Spezzano

6 novembre 2014

L'urlo di dolore

La nuova ondata di maltempo che si è abbattuta sull’Italia sembra quasi la risposta di un paese martoriato alla definitiva approvazione dello sblocca Italia, un mix di norme accomunate da un unico denominatore: la prevalenza degli interessi, degli affari e della speculazione sulla tutela del territorio, la difesa dell’ambiente, la sicurezza dei cittadini. Il paradosso è che uno degli argomenti a favore del decreto si basava proprio sul ricatto dell’esigenza di intervenire sulla messa in sicurezza del territorio. Peccato che di risorse per la prevenzione (ma anche per le emergenze) ce ne siano ben poche e non siano neppure stati stanziati i fondi promessi per Genova. Peccato soprattutto che il vero problema di chi governa è una mentalità chiusa e incapace di comprendere che l’unico intervento possibile non è quello di risolvere il problema dell’impermeabilizzazione e cementificazione con altro cemento per imbrigliare e incanalare canali, torrenti e fiumi. Servirebbe un approccio diverso, rispettoso della territorio, della natura e delle sue dinamiche. Certo altro cemento significa stanziamenti, appalti, speculazioni, interessi. Non è un caso che – indifferenti all'altra emergenza, quella delle tangenti e delle malversazioni, che ha colpito tutto il territorio nazionale, dal MOSE di Venezia alla ricostruzione dell’Aquila, passando dall’EXPO di Milano – nello sblocca Italia si allentino ulteriormente le maglie e i controlli sulle opere. Così, ancora una volta, con la scusa dell’emergenza sarà più facile violare le norme, affidare i lavori agli amici, fare la cresta sulla sicurezza e sulla qualità degli interventi. Salvo poi, alla prossima tragedia, essere tutti di nuovo in prima fila a battersi il petto. Ovviamente già pronti alla prossima spartizione.

12 agosto 2014

Cosa c'entrano i bambini?



Oggi  è  il 70° anniversario della terribile strage di S. Anna di Stazzema. 70 anni fa i soldati tedeschi, con l’aiuto dei fascisti italiani, uccisero brutalmente 560 persone, tra cui 130 bambini. L’anno era il 1944 e l’Italia era in guerra. Uccidere era la norma. Per decidere che quell’eccidio era un crimine (contro l’umanità) sono stati necessari 60 anni. Già perché noi umani abbiamo anche la pretesa di credere che possano esistere delle regole in quel gioco disumano che chiamiamo “guerra”. Senza pensare che a giudicare le eventuali violazioni saranno i vincitori del conflitto, i quali useranno, per forza di cose, pesi e misure ben diversi da quelli che avrebbero usato gli sconfitti a parti invertite. Del resto l’attentato di via Rasella non era forse – agli occhi degli occupanti – un vile attentato terroristico? E la rappresaglia (ossia l’eccidio delle fosse ardeatine) non era una esemplare giustizia punitiva? Se la Germania avesse vinto il conflitto chi avrebbe giudicato i due episodi? E con quale verdetto? C’è forse bisogno di ricordare un altro massacro, quello di Sand Creek, in memoria del quale Fabrizio De André scrisse una delle sue più belle canzoni, per capire quanto sia importante essere dalla parte del vincitore per stabilire se sia stato commesso un crimine?
Avventurarsi in complessi confronti non è semplice e probabilmente non è necessario. E’ importante però ricordarsi del passato per giudicare il presente. Quando si parla della Palestina, ad esempio, si dà per scontato che tutte le ingiustizie commesse da Israele siano ormai “archiviate” (attacchi, occupazioni, deportazioni, ecc.), quindi si giudicano i fatti a partire da adesso (magari dimenticando le numerose, quanto timide, risoluzioni ONU). Se Hamas lancia un razzo è “giusto” che Israele reagisca, anche bombardando le civili abitazioni, trucidando civili innocenti, massacrando bambini. E’ il cosiddetto diritto alla difesa. Che diventa l’alibi per il più forte per massacrare il debole e l’indifeso (stiamo parlando della popolazione civile).
Non si possono cercare giustificazioni per gli attacchi di Hamas e il quadro è talmente intricato che sarebbe difficile trovare un modo per ricomporre una situazione in cui si sono accumulate ingiustizie su ingiustizie, ma lo strapotere militare israeliano (che gode anche dell’appoggio incondizionato di molti paesi occidentali) non lascia dubbi su chi avrebbe (volendolo) la possibilità di intraprendere sul serio la via della pace. La disparità tra le forze in campo è enorme e la risposta agli attacchi è sempre di gran lunga superiore all'entità ed alla pericolosità degli attacchi stessi, con la consapevolezza che il bersaglio è la popolazione civile. Ed ogni volta, in nome della difesa e della giustizia, si perpetra qualche nuova ingiustizia e si alimenta nuova disperazione e nuovo odio, portando ancora linfa ai conflitti. Il paradosso è che, in passato, la soluzione a questo genere di conflitti si è avuta prevalentemente grazie allo sterminio (come per alcuni popoli sudamericani) o alla completa sottomissione (come i nativi nordamericani). Certo, all’epoca non c’era l’ONU, che, pur con i suoi troppi limiti, rappresenta comunque un luogo dove si cercano di conciliare le contrapposizioni e le tensioni del panorama internazionale.

Resta il fatto che per chi governa la soluzione più semplice, più pratica, più immediata è quella del ricorso alla violenza e all’orrore. Già la guerra in sé è un crimine ed una resa della ragione, ma una guerra che vede come obiettivo chi, come i bambini, è “innocente” per definizione, è qualcosa di davvero abominevole. Ed è abominevole e ipocrita ogni tentativo di giustificare scelte criminali. A Sant’Anna di Stazzema come alle Fosse Ardeatine, a Sand Creek come a Gaza.

26 luglio 2014

#avevaragionesilvio

Che il nostro Paese stia vivendo un momento difficile, sul piano economico e sociale, mi sembra un dato difficilmente contestabile. Che questa difficoltà si superi con delle non meglio precisate riforme è possibile, ma tutt’altro che certo, anche perché – spesso – le riforme con cui si vorrebbe rilanciare l’economia, hanno il non trascurabile effetto collaterale di ridurre diritti e tutele. Che poi le riforme “necessarie” per risollevare le sorti dell’Italia siano quelle costituzionali è davvero tutto da dimostrare. Al di là della sua reale efficacia, lo spirito riformista sembra essere, chissà perché, un’intramontabile arma di seduzione di massa, brandita ogni volta con entusiasmo e convinzione e molte forze politiche e coalizioni hanno promesso ricette salvifiche basate su nuovi e più funzionali assetti del nostro sistema costituzionale. L’ultimo, in ordine di tempo, è l’attuale presidente del consiglio, Matteo Renzi, che sta spingendo la sua proposta di riforma costituzionale con una veemenza davvero incomprensibile. Sia per il discutibile contenuto della proposta, sia per il metodo con cui si sta procedendo: si usa la forza dei numeri, con una propensione al dialogo vicina allo zero e giustificando l’esigenza con affermazioni del tutto prive di fondamento. In questi giorni ho spesso sentito frasi del tipo “E’ il paese che ce lo chiede”. “Gli italiani stanno aspettando le riforme” e via discorrendo. A fare queste affermazioni non è il Presidente del Consiglio nominato a seguito di una indiscussa vittoria alle elezioni, alle quali la sua coalizione aveva portato un programma di governo che conteneva esattamente “questa” proposta di riforma costituzionale. Premesso che anche così io avrei le mie perplessità - ché le regole non le può scrivere una parte (ancorché vincitrice alle elezioni), ma devono essere ampiamente condivise (soprattutto in considerazione del fatto che le regole devono essere un elemento di garanzia per tutti) - l’attuale presidente del Consiglio “non” ha vinto le elezioni (ad essere precisi era uscito anche sconfitto alle primarie). Non le ha vinte il suo partito e non le ha vinte la sua coalizione. In più la sua coalizione non è compattamente in maggioranza, ma una parte (segnatamente SEL) è all’opposizione e contesta questa proposta di riforma. Il suo partito ha condotto una battaglia elettorale contro una coalizione (PDL), una parte della quale è entrata in maggioranza (quindi con buona pace delle proposte programmatiche di entrambi) e tutti, dico tutti, risultano eletti in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale e con una ripartizione dei seggi alterata dal premio di maggioranza. Né l’ampia e indiscussa affermazione del PD alle elezioni europee può diventare il passepartout per fare qualunque cosa. Lo stesso Renzi aveva dichiarato – correttamente - che le europee non avevano una relazione diretta con la politica nazionale e che, in caso di insuccesso, avrebbe mantenuto la guida del governo.  Sicuramente il governo è stato rafforzato dall’ottimo risultato, ma questo non solo non lo rende onnipotente, ma non sana certo i numerosi vizi che ne hanno caratterizzato la genesi. In una situazione di questo tipo sarebbe comprensibile solo una riforma che metta d’accordo l’80 per cento del Parlamento. Non certo una riforma che si basa su un accordo segreto con un alleato quantomeno “imbarazzante” e che trova una ferma opposizione sia in una parte significativa dell’emiciclo, sia nel Paese (checché ne dicano Renzi e, purtroppo, i troppi media sensibili al potere).
Sempre a proposito del metodo, non dobbiamo dimenticare la precedente proposta di modifica costituzionale, che dieci anni fa un Berlusconi in gran spolvero (e corroborato da una solida maggioranza) impose con la forza al Parlamento, attirandosi le accuse e le critiche degli stessi che adesso usano le medesime armi per far passare le proprie scelte. Con la piccola differenza che Berlusconi le elezioni politiche le aveva vinte sul serio. Solo il referendum popolare permise la cancellazione di quella modifica costituzionale, così tanto criticata dall’allora centrosinistra. Quando Ciampi firmò la legge il coordinatore della segreteria DS, Vannino Chiti, dichiarò "Il fatto che il presidente della Repubblica abbia controfirmato la legge elettorale voluta dalla destra nulla toglie né alle critiche né ai rilievi che il centrosinistra ha sollevato né alle critiche severe di metodo" aggiungendo che "La destra, calpestando ogni regola di rapporto con l'opposizione si è confezionata una legge non pensando all'Italia ma ai suoi ristretti interessi".
Ma la critica era anche nel merito e se quella di Berlusconi era un attentato e quella di Renzi è la panacea di tutti i mali c’è qualcosa che non quadra. Perché, in tal caso, qualcuno deve avere cambiato idea, visto che adesso gli avversari dell’epoca sembrano andare d’amore e d’accordo. Proviamo a vedere alcuni punti della proposta, magari confrontandoli con quella di Berlusconi.
La prima differenza è all’articolo 55. Mentre Berlusconi riduceva il numero dei parlamentari in entrambi i rami del Parlamento - in ossequio alla bufala sui costi della politica, mentre la progressiva riduzione degli eletti è  soprattutto un taglio alla rappresentanza ed alla democrazia – lasciandoli entrambi elettivi, Renzi trasforma il Senato in un organo di rappresentanza di secondo livello, con l’evidente obiettivo di ridurre la rappresentanza diretta dei cittadini ed aumentare il potere degli eletti nelle autonomie locali (il suo ambito naturale di riferimento).  La logica è quella di avere pochi eletti con molte leve del potere e minori meccanismi di controllo. I doppi incarichi sono da sempre una delle più preoccupanti forme di inefficienza e creano sgradevoli cortocircuiti e conflitti di interesse. Chi svolge con scrupolo il proprio ruolo di eletto, anche se è un semplice consigliere comunale, non ha molto tempo per dedicarsi ad altro e una vera importante riforma sarebbe proprio quella di impedire i doppi incarichi. La riforma di Berlusconi prevedeva delle limitazioni, quella di Renzi, no.
Renzi lascia inalterato il numero dei deputati, mentre Berlusconi li avrebbe ridotti da 630 a 518. Come ho detto non mi entusiasma il principio, ma, sotto questo aspetto, quella riforma era più coerente. E addirittura riduceva l’età di eleggibilità a 21 anni. Un altro aspetto non disprezzabile della riforma berlusconiana era l’introduzione di una maggioranza qualificata per le modifiche regolamentari, proprio per evitare i colpi di mano di maggioranze prepotenti (ed è quello che dovrebbero pensare tutti quelli che si ritrovano ad avere in mano le leve del comando: una contrazione dei principi democratici potrebbe in futuro penalizzarli).
Per il resto, con modalità e meccanismi differenti, entrambe le riforme costituzionali puntano non tanto (o almeno non solo) alla governabilità – anche comprimendo i diritti dell’opposizione -, ma ad un quadro istituzionale verticistico in cui sempre meno persone decidono per tutti, il Parlamento viene ridotto ad un organo di ratifica delle decisioni assunte dal Governo e lo spazio per il dissenso (anche quello interno a partiti e coalizioni) e sempre più ristretto e soggetto a facili ricatti. Questo anche grazie ad una proposta di legge elettorale terribilmente simile a quella dichiarata incostituzionale che permette alle segreterie dei partiti di decidere i parlamentari.

Sappiamo che in politica si cambiano con una certa disinvoltura coalizioni ed alleanze e, con loro, si cambiano o, meglio, si ammorbidiscono idee e convinzioni. E il ventennio berlusconiano ci ha regalato un lento quanto inesorabile avvicinamento dei due schieramenti avversi e distanze che un tempo sembravano siderali adesso si sono praticamente annullate. Mi piacerebbe sentire solo qualcuno dei leader che dieci anni fa (un’era geologica in politica, mi rendo conto) tuonava contro la riforma costituzionale di Berlusconi (tra cui lo stesso Renzi, come evidenzia il Fatto di oggi) dire: "scusate, abbiamo sbagliato, in fondo le riforme di Berlusconi (e lo stesso Berlusconi) non erano poi così male", magari con un bell’hashtag: #avevaragionesilvio.

17 giugno 2014

Casilina: professione pericolo

Cammino distrattamente sul marciapiede che costeggia via Casilina. Alzo gli occhi e vedo sul marciapiede di fronte una giovane mamma con un passeggino. E’ ferma e probabilmente sta aspettando qualcuno.  E’ comprensibilmente tranquilla. E’ sul marciapiede di un tratto urbano e non dovrebbe avere ragione di preoccuparsi. Probabilmente non ha fatto caso alle decine di frammenti dell’automobile che nemmeno 24 ore prima si era andata a schiantare esattamente nel punto in cui è lei. Già, perché venerdì 13 giugno la via Casilina è stata teatro dell’ennesimo incidente stradale, in piena zona urbana e in prossimità delle strisce pedonali (peraltro invisibili, come dimostra chiaramente la foto) che quotidianamente decine di bambini attraversano per recarsi a scuola. Mi chiedo perché siamo così rassegnati a considerare una fatalità episodi come questo e mi chiedo quali siano le cause, sia della rassegnazione sia degli incidenti.
Le cause sono molteplici. In primo luogo c’è una subcultura dell’automobile, dalla quale non riusciamo a liberarci. L’automobile è diventata non solo il mezzo di trasporto irrinunciabile, anche in circostanze in cui le alternative sarebbero ragionevoli, ma è anche e soprattutto uno strumento di affermazione sociale del quale trascuriamo le potenzialità distruttive. L’automobile è un’arma che uccide ogni anno migliaia di persone, che noi utilizziamo con troppa superficialità, salvo poi attribuire al fato terribili disgrazie. In secondo luogo c’e l’incultura dei pubblici amministratori, incapaci di farsi carico davvero dei problemi di sicurezza legati alla mobilità. Autovelox che vengono installati col solo obiettivo di fare cassa e che quindi si disinteressano della riduzione dei pericoli sulle strade. Non è un caso che a Labico nessuno si sia preoccupato di realizzare sistemi passivi per la riduzione della velocità o per impedire i sorpassi all’interno dell’area urbana. Se si fosse fatto, il bilancio comunale avrebbe avuto un’importante entrata in meno. E così si sono perse importanti occasioni, possibili finanziamenti, progetti funzionali. L’ultimo intervento è stato realizzato una dozzina di anni fa, ampliando in modo insensato la sede stradale. Ricordo che qualcuno provò a fare presente al sindaco dell’epoca (lo stesso di adesso, peraltro) che l’intervento sarebbe costato molti soldi pubblici, ma che sarebbe aumentata l’insicurezza intrinseca della strada, perché l’allargamento della carreggiata aumenta la propensione degli automobilisti a velocità non compatibili con l’ingresso nell’area urbana. Gli si disse che forse, a parità di costo, sarebbe stato meglio, ad esempio, prevedere la realizzazione di una rotatoria. Il sindaco replicò ostentando grande autorevolezza – forte della sua totale incompetenza in qualsiasi materia, ma con’evidente eccellenza in quella della sicurezza stradale – e affermando che la rotatoria su una strada come la Casilina “non si poteva assolutamente fare”. Nel giro di pochi anni le rotatorie sono spuntate come funghi e adesso è il sindaco stesso a prometterle. Pochi anni dopo, sempre sulla Casilina, hanno rifatto i marciapiedi. Per insondabili ragioni in alcuni punti il marciapiede altro non è che la prosecuzione della sede stradale e gli automobilisti lo invadono con allegra disinvoltura, mettendo a repentaglio l’incolumità di chi vorrebbe percorrerlo con il mezzo più consono: i piedi. Evidentemente, anche in questo caso siamo vittime di una mentalità ottusa, secondo la quale quello che conta sono esclusivamente le automobili e non ci si preoccupa minimamente né del fatto che qualcuno potrebbe – per bisogno o per scelta – avere esigenze diverse di mobilità né, tantomeno, della necessità di spingere, in qualità di amministratori, verso forme di mobilità sostenibile. D’altronde è difficile sperare che un sindaco incapace di percorrere a piedi i 400 metri che separano casa sua dalla sede comunale, riesca semplicemente ad immaginare che esistano altre forme di locomozione oltre al suo SUV.
Visto che si parla di Casilina, provo a dare una risposta anche al segretario del PD locale, Benedetto Paris, che sembra ripercorrere con sempre maggiore convinzione la “cifra” politica dei suoi avversari locali (un po' meno a livello nazionale) e dimostra una certa allergia alle critiche, alle quali risponde con un attacco scomposto in cui mi addita come: ipocrita, illazionista, in malafede, disinformato ed egocentrico (ma potrebbe essermi sfuggito qualcosa).
Confermo la mia tesi, ossia che non bisognerebbe confondere un vero e proprio “dovere” amministrativo di un ente come la Regione, la quale è tenuta a garantire la corretta manutenzione e la messa in sicurezza di una strada come la Casilina con l’azione politica, sulla quale è legittimo orientare le scelte strategico-programmatiche. In un paese normale bisognerebbe scandalizzarsi per il fatto che su una strada così importante ci sono due tratti che vengono percorsi a senso unico alternato per il progressivo deterioramento della sede stradale dovuto all’incuria e la Regione dovrebbe correre rapidamente ai ripari e, al limite, scusarsi per i disagi e per i ritardi. Mentre, guarda caso proprio durante la campagna elettorale per le europee, ho registrato un entusiasmo decisamente eccessivo per una semplice “dichiarazione di buoni propositi” sulla sistemazione della strada.
Ben diverse sono le scelte strategiche che la Regione deve fare in tema di programmazione infrastrutturale, mobilità sostenibile, mobilità ferroviaria, governo del territorio, ecc. sulle quali non si chiedono certo raccomandazioni, ma si indicano delle priorità e delle linee di azione. Io, ad esempio, sono per la promozione della mobilità sostenibile e in quest’ottica ho sempre cercato di muovermi per il potenziamento del trasporto ferroviario (tra l’altro non mi risulta di aver convocato conferenze stampa o come si vogliano chiamare in quella circostanza), per una pianificazione territoriale più equilibrata e per contenere il consumo del suolo e per scelte infrastrutturali che non deturpino l’ambiente e il territorio (come, ad esempio, la devastante bretella Cisterna-Valmontone). Mi stupisce davvero che si metta sullo stesso piano questo ambito d’azione con banali doveri di gestione amministrativa.

Infine, inviterei Benedetto ad un approccio un po’ meno astioso. Ribadisco e rivendico il mio diritto ad esprimere il mio pensiero, anche quando suona come una critica (su questo ho dalla mia la Costituzione, almeno finché non verrà stravolta). Tra l’altro – così giusto per correggere un’inesattezza, certamente involontaria – non ho inviato a nessuno le mie riflessioni e le ho solamente pubblicate sul mio blog. Comunque nessun problema: l’illazionista rimango io.

22 maggio 2014

Buoi e asini cornuti a spasso sulla Casilina

Qualche settimana fa sui media locali era apparsa una notizia piuttosto sconcertante, ma che, avvezzi come siamo ai rodati meccanismi di una certa politica, non ha suscitato particolari perplessità. In pratica era stata organizzata addirittura una conferenza stampa per fornire le seguenti informazioni:
-         la via Casilina versa da anni in uno stato pietoso e necessità di consistenti interventi di manutenzione;
-         in Regione non se n’era accorto nessuno, ma grazie alle sollecitazioni di alcuni politici locali si sono resi conto della necessità di correre ai ripari;
-         hanno annunciato che quanto prima si provvederà e, all'uopo, sono state stanziate adeguate risorse pubbliche.
A quanto pare non era una simpatica burla, ma la tradizionale iniziativa di campagna elettorale, vista l’imminenza delle elezioni europee.  Evidentemente la locuzione “cambia verso” è solo uno slogan e non si applica al modello classico di ricerca del consenso basato su una sostanziale trasfigurazione del significato della politica e della pubblica amministrazione. Chi governa (o amministra), infatti, non dovrebbe svolgere le sue funzioni per dispensare piaceri o elargire concessioni. Forse (ma la formula dubitativa è d’obbligo) chi ha il compito di gestire una fondamentale arteria di comunicazione come la via Casilina (un’antichissima strada consolare romana, non una stradina di campagna) ha il “dovere” di mantenerne il manto stradale in condizioni adeguate, anche e soprattutto per ragioni di sicurezza. E pensare che sia necessaria la segnalazione perché si intervenga (mi correggo: perché si prometta di intervenire) è davvero sconfortante. Si può immaginare quanta fatica mi costi dare ragione ad Alfredo Galli che, in un successivo comunicato, ha spiegato che, da tempo, il comune segnalava l’esigenza di intervenire, ma, se le cose stanno come le racconta Galli, non basta che arrivi una segnalazione, ma è necessaria una vera e propria “raccomandazione”. Se la regione è guidata dal partito X, la segnalazione deve arrivare dal sindaco del partito X o dal segretario locale del partito X, altrimenti non viene presa in considerazione. Peccato che questa critica suoni un po’ come quella del famoso bue indirizzata all'amico asino. Come fa Galli a lamentarsi di questo modus operandi, visto che del diritto trasformato in favore ha fatto la sua ragione di vita politica? Del resto ricordiamo tutti perfettamente le opere “preelettorali”, comprese le asfaltature delle strade (ah, il contrappasso), prima di ogni elezione comunale, magari attraverso ordinanze sindacali urgenti, il cui unico requisito emergenziale era l’approssimarsi delle urne.
Forse, prima che la distruggano completamente (e qui, a quanto pare, i partiti di riferimento delle due fazioni sembrano essere “in grande sintonia”), bisognerebbe rileggersi alcuni passaggi della Costituzione, dove è scritto a chiare lettere che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore (art. 54) e che i pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell'amministrazione (art. 97). E a Labico la parola “imparzialità” così vicina alla parola “amministrazione” suona come una beffa.

4 maggio 2014

Le bacchettate del Viminale

Sono diversi anni che sosteniamo che i conti pubblici labicani non tornano. Ad ogni sessione di bilancio abbiamo provato ad esprimere le nostre perplessità sull’approssimazione con cui vengono gestite le risorse pubbliche, sulle zone d’ombra dei bilanci, sull’incapacità di programmare le spese e sull’aleatorietà delle entrate. A Labico si è puntato tutto su una crescita edilizia, che, secondo le affermazioni degli amministratori, sarebbe dovuta essere il volano dell’economia labicana, ma che è servita solo a ridurre – in qualità e quantità – il livello dei servizi. In qualche modo, anche con qualche tocco di finanza creativa, si è però sempre riusciti a far quadrare i bilanci e a rimanere a galla. Fino a quando non è arrivata la stangata del sequestro dei depuratori, anch’essa figlia della mancanza di capacità di programmazione, che ha mandato in tilt conti e amministrazione. Sarebbe bastato un briciolo di coscienza per ammettere la propria inettitudine e lasciare finalmente la guida di un paese ormai allo sbando. Un commissario, una nuova giunta, un’amministrazione straordinaria, il tesoriere della bocciofila, Pippo, Pluto, nessuno. Qualunque altro soggetto sarebbe stato meglio degli amministratori che ci hanno portato al disastro. Invece no. A ben due anni dalla conclamata e certificata bancarotta labicana, il sindaco Galli - detto Vinavil per l’attaccamento (nel senso fisico-chimico del termine) alla poltrona – e la sua fedele compagine continuano a cercare di mantenere il controllo del timone, utilizzando qualunque strumento a disposizione.
Ed è così che, grazie ad una recente modifica del Testo Unico degli Enti Locali, è stata avviata una procedura denominata “piano di riequilibrio finanziario pluriennale”, altrimenti detta “predissesto”. Abbiamo già avuto modo di commentare la norma e ci limitiamo a dire che una definizione più calzante potrebbe essere “autodissesto”, visto che grazie a questa legge chi è causa dei guai per i cittadini può continuare a gestire i conti pubblici, scaricando proprio sui cittadini il costo della propria incompetenza. Non è certo il massimo, ma è comunque necessario che si predisponga un piano finanziario, che deve rispettare alcuni requisiti per ottenere il nulla osta del ministero dell’interno e della Corte dei Conti.
Quando abbiamo letto il piano redatto dagli uffici comunali, al netto delle perplessità di carattere metodologico, abbiamo rilevato anche diverse criticità nel merito del documento. Lo abbiamo scritto in alcuni articoli e lo abbiamo affermato a chiare lettere nell’iniziativa pubblica che abbiamo organizzato in piazza per spiegare ai cittadini cosa stava succedendo, senza che nessuno degli amministratori si degnasse di dare un’adeguata informazione ai cittadini. Ovviamente la risposta di Galli & C. è stata la solita alzata di spalle, accompagnata da affermazioni del tipo “noi pensiamo a lavorare, voi solo a criticare”.
Peccato che, puntuale, sia arrivata la risposta del Ministero dell’interno riguardante la richiesta di istruttoria. Anche al Ministero, a quanto pare, non hanno troppo rispetto per chi lavora e, avendo tempo da perdere in sterili critiche, hanno stilato numerosi rilievi. Vediamoli insieme:
·         In primo luogo viene confermata la stangata ai danni dei cittadini, con l’aumento delle tasse e dei tributi e con la riduzione dei servizi. In più si spiega che non bisogna fare i furbi con le date: il piano decennale decorre da quando viene approvato il Piano di riequilibrio in consiglio comunale, dal 2014, dunque e non dal 2013. La penitenza per i cittadini labicani terminerà dunque nel 2023.
·        Gli uffici del ministero contestano la disinvolta “autoriduzione” del debito da 5 milioni di euro a circa 3 milioni. In sostanza non è che uno possa affidare allegramente i lavori per determinati importi (con tanto di fatture) e poi decurtarli unilateralmente. La rideterminazione dei prezzi (peraltro tardiva) deve essere consensuale, altrimenti non può essere messa a bilancio.
·    Altri pasticci sono stati rilevati su voci passive del passato e infilate a casaccio nel calderone. La filosofia dei nostri amministratori è molto semplice: visto che dobbiamo ratificare il disastro, tanto vale metterci dentro tutti gli impicci, grandi e piccoli, del passato. Come quando si va dal carrozziere a sistemare l’automobile dopo un incidente e si cerca di sanare anche qualche vecchio graffio alla carrozzeria. Con il dettaglio che la macchina labicana è stata guidata per vent’anni da qualcuno che pensava di essere all’autoscontro.
·        Mancano le quantificazioni di diverse voci di spesa, così come mancano le quantificazioni della svalutazione dei crediti. Diciamo che l’ottimismo ha regnato sovrano durante la redazione del piano di rientro.
·   Qualche perplessità il Viminale l’ha espressa anche per quanto riguarda il personale e vengono espressi dei dubbi sulle modalità di calcolo. Il tutto senza sapere che a Labico si aggirano le norme per l’assunzione del personale attraverso il ricorso a società esterne. Forse bisognerebbe informarli su come stanno realmente le cose.
·         Il Ministero dell’interno dichiara senza mezzi termini “irragionevole” la destinazione delle entrate correnti agli investimenti, spostando il pagamento dei debiti ad esercizi futuri.
·     Anche la dismissione dei beni immobili è senza né capo né coda. Non si sa cosa si venda e quale sia il possibile incasso.
·        Gli aumenti di entrate sembrano basati più sull’ottimismo che su una concreta pianificazione. Forse per non far capire ai cittadini che arriveranno altre stangate?
·        Manca una documentazione che attesti l’effettività dei risparmi di spesa dichiarati. Dove intendono tagliare? A quali servizi dovremo rinunciare?
Al termine di questo corposo elenco di rilievi il Ministero ha invitato la nostra amministrazione ad inviare chiarimenti e correttivi, corredati da un’adeguata documentazione, tra cui accertamenti e riscossioni del servizio idrico integrato degli ultimi tre anni, nonché  il bilancio 2014. Se si pensa che quello del 2013 è stato fatto a novembre, possiamo solo immaginare lo sgomento di Galli e soci all’idea di dover predisporre il bilancio di previsione dopo nemmeno cinque mesi dall’inizio dell’esercizio finanziario. Al Viminale attendono una risposta entro la prossima settimana. Saranno ansiosi, e noi con loro, di vedere cosa saranno capaci di inventarsi i nostri amministratori.


Tullio Berlenghi e Maurizio Spezzano

26 marzo 2014

Per il bene del paese...

Da quando, con l’afflato di democrazia degno di Goebbels e la predisposizione alla trasparenza tipica del Ku Klux Klan, Alfredo Galli ha vietato la registrazione dei consigli comunali e, col rispetto per i cittadini che lavorano tipico di chi non ha mai avuto questa sventura, ha deciso di convocarli in giorni e orari lavorativi, è davvero difficile formarsi un’opinione su quello che succede nei palazzi del potere labicano, visto che le fonti sono necessariamente di parte (maggioranza e opposizione) o di presunte testate giornalistiche che non fanno certo dell’imparzialità la propria ragione di vita. Eppure, tra le austere mura di Palazzo Giuliani, si prendono decisioni rilevanti per i cittadini e sarebbe molto importante sapere quali sono e in che modo condizionano la vita dei cittadini labicani. Si pensi, ad esempio, all’ultimo consiglio comunale, nel quale è stato approvato un unico atto deliberativo. La convocazione riporta in modo asettico il titolo dell’atto: “Approvazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale 2013-2022 ai sensi dell’articolo 243-bis e seguenti d.lgs. 267/2000”. Buracratese puro. Lontano anni luce dalla percezione del cittadino. Così, a prima vista, sembrerebbe quasi una sorta di atto dovuto, un provvedimento contabile di quelli previsti dalla normativa (“ai sensi dell’articolo…”), di modesta rilevanza all’atto pratico… E invece? Invece l’atto che il consiglio comunale ha approvato lunedì 17 marzo 2014 è un atto di straordinaria importanza per il futuro della nostra piccola città. Ho già avuto modo di illustrare genesi e funzionamento di questo strumento amministrativo ( 27 dicembre 2013 e 28 dicembre 2013) e di come il nostro sindaco abbia deciso di utilizzarlo. Vorrei però provare a mettermi nei panni di un comune cittadino, possibilmente non prevenuto, che decida di informarsi sull’attività amministrativa del proprio comune. Ovviamente cosa può fare il nostro malcapitato cittadino? L’unica fonte possibile di informazione (teoricamente neutra) è il sito istituzionale del Comune. Con google ci mette pochi secondi a trovare l’indirizzo e va subito in home page, dove vede scorrere le ultime notizie. Si sofferma sulla più recente, il cui titolo recita: “Approvato il piano di riequilibrio finanziario. Debito ridotto a 2 milioni e 900 mila euro”. Perbacco! Due notizie positive in una sola riga, pensa il nostro ingenuo cittadino. Ora, cliccando sul titolo, è in grado di ottenere qualche informazione in più. Ed è così che si trova di fronte a testo predisposto in pieno stile “stampa e propaganda” dei bei tempi andati. Lanciamoci così in una rapida esegesi del testo…

In un consiglio comunale durato diverse ore è stato approvato a maggioranza il piano di riequilibrio finanziario del Comune di Labico. Un passaggio cruciale dell’amministrazione Galli che dovrebbe portare ad una soluzione definitiva l’annoso problema del sequestro dei depuratori. Problema con il quale l’amministrazione si sta scontrando quotidianamente sin dal giorno dopo della vittoria elettorale.

L’azione amministrativa di Galli sembra un atto di eroismo – notare il “passaggio cruciale” e la “soluzione definitiva” - peccato per quel condizionale (dovrebbe) che, con un rigurgito di sincerità, fa capire che non ci credono neppure loro. Al secondo periodo l’inevitabile balla (è una dote naturale): il sequestro dei depuratori è avvenuto prima della “vittoria” elettorale, tant’è che le prime ordinanze le ha firmate Giordani. Meglio precisare che chi ha amministrato il paese è lo stesso identico gruppo di potere da circa vent’anni.

Il punto sulla situazione è stato fatto dal sindaco Alfredo Galli che ha letto una lunga relazione dettagliata nella quale ha spiegato passo per passo tutto quello che è successo. Ora la Corte dei conti avrà 90 giorni di tempo per dare l’ok definitivo e per scongiurare il commissariamento.

“Scongiurare il commissariamento” sembra far capire che sarebbe una iattura per il paese. Forse è vero il contrario: la vera iattura di questo paese è avere avuto degli amministratori che hanno portato Labico al disastro.

“Abbiamo deciso dopo il consiglio comunale del 27 dicembre 2013 di ricorrere alla strada del riequilibrio di bilancio. Da due anni stiamo gestendo una situazione veramente difficile per quanto riguarda il debito creato dal sequestro dei depuratori.

Anche qui sembra che il “sequestro dei depuratori” sia una sorta di calamità piombata sull’incolpevole amministrazione comunale, come un meteorite o un terremoto. Peccato che i depuratori siano stati sequestrati perché non rispettavano le norme vigenti. E la responsabilità politica e amministrativa è da attribuire a chi ha trascorso gli ultimi due decenni nelle stanze dei bottoni.

In questi tempi duri a livello socio economico chiedere ulteriori sforzi ai cittadini non è facile.

No, che non è facile. Però saranno gli unici a pagare. Non certo gli amministratori il cui stipendio è l’unica voce di bilancio che non viene ridotta dai tagli.

Prima di tutto abbiamo voluto risolvere l’empasse ambientale che si era creata e da subito abbiamo avuto 200 mila euro dalla Regione per i lavori di messa a norma dei due impianti comunali ed abbiamo attivato un mutuo di 600 mila euro con la BCC.

L’”empasse ambientale”? Stiamo scherzando? Non si può definire “empasse” (e magari voleva dire “impasse”) una chiara violazione della normativa ambientale, che comporta danno agli ecosistemi e rischio per la salute dei cittadini. Stiamo parlando di reati gravissimi (ambientali ed amministrativi) che non possono essere derubricati in modo così superficiale.

A settembre avevamo terminato i lavori di adeguamento ai limiti tabellari ma poi sono passati altri 8 mesi per la concessione delle autorizzazioni con un ulteriore aggravio per tutti i nostri cittadini.

Ecco. Guarda quanto sono stati bravi. Lasciamo perdere gli anni di ritardo con cui hanno affrontato il problema, ma quando hanno, finalmente, avviato la pratica hanno dovuto attendere l’esito dell’iter procedurale. Dannata burocrazia!

Questa che stiamo per intraprendere è la soluzione migliore e meno dannosa nonostante le critiche senza senso dell’opposizione. Da oltre 4 milioni di debiti con le ditte che hanno smaltito i liquami siamo arrivati a 2 milioni e novecento mila euro e vi è la possibilità di una ulteriore riduzione.

Che la soluzione sia la migliore è tutto da dimostrare. Il fatto che ci sia stata una riduzione dei costi fa temere che magari fossero gonfiati. Ma non è che possiamo rallegrarci per lo sconto di un milione di euro. Noi siamo preoccupati per il fatto di doverne pagare comunque quasi quattro.

Il dissesto non sarebbe stato una soluzione giusta per il bene del nostro paese perché avrebbe portato ulteriori tasse ed il blocco di ogni attività ed iniziativa amministrativa.

No, Alfredo Galli. Tu non hai titolo per parlare di “bene del paese”, visti i danni che hai causato al paese. La sensazione è che chi a rimetterci con il commissariamento sarebbero solo gli amministratori, che perderebbero i loro emolumenti e quel pizzico di potere a cui sono pervicacemente attaccati. Il “bene del paese” è altro.

Il comune ha deciso di auto commissariarsi riducendo al massimo tutte le spese in modo da abbattere il debito per il massimo possibile e spalmandolo su più anni, fermo restando che i debiti derivanti da responsabilità di terzi (vedi le aziende che gestivano i depuratori) verranno fatti pagare a chi di dovere.

Sì, ridurre tutte le spese, tranne gli stipendi di sindaco & soci. Ok, il debito viene spalmato. Peccato che a causarlo non siano stati i cittadini, ma siano loro a pagarlo. Per quanto riguarda le responsabilità, la lista Legalità e Trasparenza aveva chiesto due anni fa l’avvio di un’azione di rivalsa. Perché non è stato fatto subito? Il dubbio è che, per inconfessabili ragioni, l’amministrazione abbia preferito attendere.

C’è stato un abbattimento dei costi sulla gestione dei rifiuti che è passato da 1 milione e duecento mila euro ad un milione di euro l’anno con un risparmio di 200 mila euro, ma purtroppo ci sono stati oltre 240 mila euro di trasferimenti in meno dallo Stato.

Non c’è stato un abbattimento dei costi, ma una riduzione del servizio. Sono bravi tutti a risparmiare così.

Abbiamo fatto tutto il possibile per salvare il nostro paese e non ci fermeremo davanti a nulla.


La frase esatta è “abbiamo fatto tutto il possibile per affossare il paese e non ci fermeremo davanti a nulla”. Sì, è vero, non si fermano davanti a nulla. In questa circostanza, non so se è un merito.

P.S. - Proprio oggi è stata pubblicata la delibera di consiglio. Avremo modo di riparlarne.

21 febbraio 2014

Sliding doors

In occasione del flash mob di San Valentino, l'associazione "Socialmente donna" di Labico mi ha chiesto di raccontare le storie (vere) di due donne vittime di violenza. Questa è la seconda. Purtroppo anche in questo caso il racconto si basa sulla realtà.

Questa è una storia “sliding doors” - citando il film nel quale il destino della protagonista dipende dal fatto di riuscire o meno a prendere una metropolitana - il cui sviluppo è condizionato dalle porte scorrevoli del fato, un fato che, in questo caso, si chiama giustizia. Pensate: dal funzionamento della giustizia può dipendere la vita e il destino di una persona. La persona in questione si chiama Giovanna e ci racconta la sua storia.

Ho conosciuto Antonio nove anni fa. C’è voluto poco perché iniziassimo a vederci, a frequentarci, insomma perché iniziasse una “storia”. C’è voluto poco per decidere anche di andare a vivere insieme.  E c’è voluto poco, purtroppo perché Antonio cambiasse, a cominciare dai modi, divenuti improvvisamente sgarbati, volgari, offensivi. Così come è scomparsa la gentilezza, e sono apparsi l’uso irrinunciabile dell’imperativo – nel modo e nel tono – e l’indifferenza. Poi sono arrivate le parole. Dure come pietre, taglienti come lame. Non serve la violenza a provocare il dolore. Spesso bastano le parole.
E ci si inizia a sentire sole e inadeguate. Si comincia a percepire la propria casa come un ambiente ostile. Però anche questo segnale non è sufficiente. Pensi: è solo un momento; forse sono io ad irritarlo, dovrei essere più comprensiva. Alla fine però, come se non bastasse, arrivano anche le botte. Senza una ragione plausibile. Arrivano e basta. E, nonostante tutto, pensi ancora che le cose possano cambiare. Che magari tra un’ora, o domani, o la settimana prossima tornerà tutto “normale”, senza renderti conto che in realtà la normalità è proprio quella. E che l’unica possibilità è quella di voltare pagina, fuggire.
Del resto non potevo neppure contare sulla solidarietà femminile dell’altra donna che viveva con noi, la madre di Antonio. Per lei, evidentemente, non ero all’altezza del figlio e non faceva nulla per nascondere il suo disprezzo e rendere più mortificanti le umiliazioni che ero costretta a subire. In qualche modo è stata lei a darmi l’opportunità di fuggire, cacciandomi in malo modo da casa al termine dell’ennesimo, futile, episodio di prevaricazione.
Quando mi si è chiusa quella porta alle spalle ho capito che la mia vita non poteva essere lì dentro. Non era vita quella e, soprattutto, non era mia. Non è facile allontanarsi dal proprio figlio, ma la mia disperazione era tale da non permettermi altra scelta. E poi io credevo nella giustizia. Avevo raggiunto la consapevolezza dei miei diritti e non intendevo rinunciarvi. Avevo diritto alla mia vita, alla mia dignità, alla mia libertà e, soprattutto, a mio figlio.
Ero orgogliosa della mia decisione. An che se piena di paura e di incertezza sapevo di fare la cosa giusta. Sono andata in un centro antiviolenza dove mi hanno accolta e aiutata. E’ stato importantissimo e mi ha fatto tornare un po’ di fiducia e di speranza. Purtroppo non riuscivo a vedere mio figlio, nonostante ne avessi il pieno diritto. Eh sì, perché ho scoperto sulla mia pelle che avere un diritto e poterlo esercitare non è esattamente la stessa cosa.
L’uomo che mi ha ferita e umiliata per anni ha pensato bene di usare la più subdola delle rappresaglie per avere osato ribellarmi e fuggire: impedirmi di vedere il mio bambino. Ma io avevo fiducia nella giustizia, e con l’aiuto del centro antiviolenza, ho chiesto alle “autorità competenti” di garantire il diritto mio e di mio figlio. Purtroppo la giustizia non sta funzionando bene. Attendo invano da  mesi senza poter riabbracciare il mio bambino. C’è qualcosa che non funziona se la burocrazia statale favorisce gli aguzzini e punisce le vittime. Io e Marco siamo indubbiamente le vittime, ma siamo stati fagocitati in una procedura di difficile comprensione. Lo psicologo ha anche detto che era necessario “preparare il bambino all’incontro con la madre”.  Un incontro che comunque non è stato possibile perché il padre – l’autore delle violenze – si è opposto. A nulla sono serviti i tentativi di contattarlo direttamente, chiamandolo e mandandogli degli sms in cui cercavo di fargli capire che il suo comportamento penalizzava non solo me, ma anche nostro figlio.
In quei lunghi mesi ho fatto decine di telefonate, ore di anticamera negli uffici dei servizi sociali. Il clima che si è creato mi sta dando la sensazione di essere io il problema. In fondo per gli impiegati degli uffici sembro essere una scocciatura… Alla fine, però, su suggerimento delle persone a cui mi sono affidata, ho deciso di denunciare mio marito per sottrazione di minore. Ora spero che la magistratura si muova in tempi rapidi e mi renda giustizia…

Fermiamoci qui. Questa è la storia di Giovanna ad un certo punto. Se la giustizia funzionerà come si deve, Giovanna potrebbe uscire dall’incubo della violenza, riabbracciare il figlio e ricominciare una vita serena. Ma se la giustizia non dovesse funzionare? E se Giovanna dovesse perdere la fiducia e rinunciare all’affermazione dei propri diritti? Che storia ci racconterebbe Giovanna? La stessa, almeno fino ad un certo punto? O? Sentiamo questa Giovanna che ci racconta la sua storia.

Anche io ho conosciuto Antonio nove anni fa. In effetti c’è voluto poco perché iniziassimo a vederci, a frequentarci, insomma perché iniziasse una “storia”. Certo, c’è voluto poco per decidere anche di andare a vivere insieme. Sì, in effetti, anche il mio Antonio è diventato un po’ più intrattabile. Qualche volta forse non troppo gentile, ma con tutti quei pensieri, poverino. Sì, anche qualche parolaccia, ogni tanto. Ma chi non le dice al giorno d’oggi?.
Comunque mi sono sentita un po’ a disagio. Forse ho dato peso a cose non troppo importanti. D’altronde pensavo: “magari è solo un momento; forse sono io ad irritarlo, dovrei essere più comprensiva”. Nel frattempo, era nato Marco, il mio, il nostro bambino. Ecco, qualche volta mi ha picchiata, non so perché, forse era un periodo difficile per lui. Nonostante qualche episodio, ero certa che le cose sarebbero cambiate e che, presto o tardi, sarebbe tornato tutto normale.
Sì, ho avuto anche qualche problema con la madre di Antonio, ma anche quella è una cosa a cui ho dato troppa importanza. Le liti tra nuora e suocera sono all’ordine del giorno e non è che si lascia il marito per quello. Certo, probabilmente, per lei non sono all’altezza del figlio e non ha mai fatto nulla per nasconderlo. Ma come mi comporterò io quando Marco avrà una moglie? In ogni caso è stato proprio un litigio con mia suocera a farmi commettere l’errore di andarmene da casa.
Quando mi si è chiusa quella porta alle spalle ero quasi convinta che la mia vita non poteva essere lì dentro. Ero addolorata e sconvolta, al punto da abbandonare mio figlio. Fuori da lì ho conosciuto delle persone che dicevano che mi avrebbero aiutato e mi hanno detto che dovevo credere nella giustizia e che avevo diritto alla mia vita, alla mia dignità, alla mia libertà e, soprattutto, a mio figlio.
Belle parole, le loro. Ero persino orgogliosa della mia decisione. Anche se piena di paura e di incertezza ero convinta di fare la cosa giusta. Mi hanno accolto al centro antiviolenza dove mi hanno incoraggiato ad intraprendere le vie legali, sia nei confronti di Antonio, sia con l’obiettivo di poter riabbracciare mio figlio, che da quel momento non ho più visto.
Sono passati giorni, sono passate settimane, sono passati mesi. Ma io continuavo a non poter vedere mio figlio. Mi sono sentita sola.  Ho fatto decine di telefonate, ore di anticamera negli uffici dei servizi sociali. Il clima che si era creato mi dava la sensazione di essere io il problema. In fondo per gli impiegati degli uffici ero una scocciatura… Ancora una volta ho dato retta alle persone che mi stavano “aiutando” e ho denunciato Antonio per sottrazione di minore, con la sicurezza – dicevano – che in quel modo si sarebbe risolto tutto in fretta.
E invece sono trascorsi altri lunghi mesi senza poter vedere mio figlio e in me, piano piano, è iniziato il dubbio di aver sbagliato. Forse aveva ragione mio marito a dirmi di non andare via da casa. In fondo la cosa più importante per me è Marco. Tutto il resto non conta. Non può essere più importante.
Alla fine ho chiamato Antonio. Mi ha detto che posso vedere mio figlio. Devo solo smettere di incaponirmi con questa storia. Forse davvero ho un po’ esagerato. Ho tolto il mandato all’avvocato, una donna.

Sono a casa mia adesso. Con mio figlio. Questo è l’importante. Se sono felice? Adesso non mi picchia più. Certo, non dimentica di farmi notare quanti problemi abbiamo avuto per le mie ubbie… ma non mi picchia. Felice? Beh. Ho mio figlio, l’amore della mia vita. E lui? Lui un po’ è cambiato. Sì, mi fa sempre un po’ paura. Quando si ammutolisce di colpo e capisco di aver detto o fatto qualcosa di male… ma adesso si limita a urlare o a farmi rimanere male… Felice? Oddio felice… chi può dirsi felice? Mi accontento, ecco, sì, mi accontento. E poi, avevo un’alternativa?

16 febbraio 2014

Se questo è un uomo

In occasione del flash mob di San Valentino, l'associazione "Socialmente donna" di Labico mi ha chiesto di raccontare le storie (vere) di due donne vittime di violenza. Questa è la prima delle due. Gli unici elementi di fantasia sono i nomi dei protagonisti. Tutto il resto è drammaticamente vero.

Se questo è un uomo

I segnali. Bisogna saper cogliere i segnali. Spesso arrivano presto, prestissimo, ma non si riesce a dare loro la giusta importanza. In fondo, abbiamo sempre bisogno di dare fiducia alle persone e forse è giusto che sia così. Però i segnali non andrebbero ignorati del tutto.
Certo, all’inizio va sempre tutto bene. Conosci una persona, decidi che ti piace. Chissà poi perché proprio quella persona. Però ti piace e anche a lui tu piaci. Te ne accorgi da come ti cerca, da come ti guarda, dalle parole gentili nei tuoi confronti. Questa è una fase in cui i segnali non ci sono e, se ci sono, non è facile decifrarli. Ma è anche una fase – intensa, bella, appagante – destinata, prima o poi, a far posto alla “normalità”. Ad un rapporto -  come si dice? – stabile. Magari rafforzato dalla decisione di vivere insieme per condividere tutto. Quello è il momento in cui è difficile sembrare diversi da come si è in realtà. Si inizia a giocare a carte scoperte. I segnali, a questo punto, diventano sempre più evidenti. Il rispetto che si deve ad ogni essere umano e, a maggior ragione, a chi si dice di amare, viene meno. All’inizio in modo occasionale, poi sempre più frequentemente, finché l’equilibrio non si altera completamente, ma a quel punto è già tardi, la spirale della violenza è iniziata e uscirne non è facile. Stefania ne sa qualcosa.
Il primo episodio “grave”, tra Stefania e Michele, arriva a luglio del 2002. Hanno già un figlio, Giorgio, di appena sei mesi. Michele è disoccupato e il congedo per maternità di Stefania è ormai terminato. A casa servono i soldi e lei potrebbe riprendere a lavorare. Ne parla a Michele, la cui reazione è inattesa, immediata e violenta. Si mette ad urlare, afferra la moglie per i capelli, la sbatte contro il muro e inizia a picchiarla. Il bimbo, spaventato, piange. Secondo Michele è colpa di Stefania e delle sue urla. Già, Stefania, anziché subire in silenzio la violenza osa difendersi, gridare… Alla fine Michele si calma e chiede persino scusa, però, certo Stefania questa storia del lavoro se la poteva pure risparmiare. Stefania non denuncia Michele, anche per paura, e decide di lasciare il lavoro.
Ad aprile del 2004 Stefania è di nuovo incinta. Michele è disoccupato e Stefania è preoccupata. C’è bisogno di un reddito su cui contare. Suggerisce a Michele di cercare un lavoro. Già dallo sguardo di Michele Stefania intuisce di aver detto le parole sbagliate. Michele inizia ad urlare. Gli anni di convivenza hanno insegnato a Stefania ad avere paura del marito. Scappa e cerca rifugio in bagno, ma non serve. Michele spacca la porta, la trascina fuori per i capelli e minaccia di farla abortire con un calcio sulla pancia. Giorgio, che adesso ha circa due anni, si mette a piangere per lo spavento. Michele non tollera che il figlio pianga e aumenta la rabbia nei confronti di Stefania, responsabile, a suo avviso, del pianto del figlio. Da quel momento la brutalità di Michele non risparmierà neppure il piccolo Giorgio…
L’incubo di Stefania e dei suoi figli è destinato a durare molto tempo. Gli episodi di violenza, per futili motivi, se non gratuita, si susseguono. Un giorno Michele, in presenza di un amico di famiglia, non si fa scrupolo di dare un calcio al piccolo Giorgio – di soli tre anni – così rabbioso e potente da farlo volare in aria e sbattere sul tavolo, per poi aggredire Stefania, rea di essere corsa ad abbracciare il figlio piangente.
Devono passare altri due anni di soprusi e violenze perché Stefania trovi il coraggio di denunciare Michele. E’ l’autunno del 2007 e Michele esplode di rabbia alla vista della moglie e dei figli sdraiati sul letto a vedere la TV. Michele è fatto così. Non sopporta l’idea che i suoi figli stiano sul suo letto. Per esprimere il suo disappunto pensa bene di sferrare un pugno alla porta, rompendola. Poi rompe il televisore e, non pago, se ne va in giro per casa a distruggere tutto ciò che trova sotto mano. Stefania sporge querela, prende i bambini e va a stare a casa della madre. Dopo un mese, però, si lascia convincere e torna dal marito.
Bastano poche settimane, siamo a febbraio 2008, e Michele picchia nuovamente prima Giorgio – che aveva osato provare ad accendere la TV (un’ossessione per Michele, a quanto pare) – e poi Stefania, intervenuta a difendere il figlio e punita con un vero e proprio pestaggio.
Fermiamoci un attimo. Lasciamo stare i primi – timidi? deboli? impercettibili? – segnali. Partiamo dalla prima assurda violenza. Non la parolaccia, non il gesto sgarbato, neppure lo schiaffo. Che pure sono all’ordine del giorno. “Troia”, “Incapace”, “Deficiente”, erano le parole con cui Michele apostrofava la moglie. Partiamo dal primo vergognoso e inqualificabile raptus di violenza cieca e furiosa.  Nel 2002. Sono passati sei anni. Sei lunghi anni dei quali – un po’ per pudore, un po’ per ipocrisia - omettiamo anche l’orrore degli stupri che Stefania impara a subire come qualcosa di inevitabile. Di quanto tempo c’è bisogno ancora per mettere la parola “fine” a tutto questo? Non è un giudizio. E’ la voglia di capire perché, stando “dentro”, è così difficile reagire, mentre “da fuori” sembra tutto così ovvio. Come quando guardi i film e urli al protagonista “scappa”, perché tu hai capito che sta per succedere qualcosa. Stefania, al momento, non ha la consapevolezza o la forza o il coraggio. E continua a subire.
A novembre del 2009 Michele aggredisce Stefania in cucina. Non serve neppure un perché. Magari ha lasciato la caffettiera nel lavandino, oppure non ha ancora preparato la cena. E’ indifferente. Michele picchia la moglie di fronte ai bimbi. Il più piccolino, piangendo, si butta sulla madre per proteggerla. Anche questa volta Stefania cerca di allontanarsi da Michele, si rivolge anche ad un centro antiviolenza, ma ancora una volta si lascia convincere a tornare a casa. Teme che possano portarle via i figli e decide di dare a Michele un’altra possibilità.
La “pace” – ma chiamarla così è un eufemismo, visto che i maltrattamenti psicologici non cessano mai – dura un paio d’anni. Nell’inverno del 2011 le violenze ricominciano. I figli intanto sono diventati tre e basta il pianto della nuova arrivata per scatenare l’ira di Michele, che sbatte il povero Luigi contro il muro e lo picchia senza pietà, per poi scagliarsi contro Stefania che cerca vanamente di difendere il figlio.
Ancora scene di ordinaria follia a maggio del 2012, a settembre del 2012, a gennaio 2013, a marzo 2013, ad aprile 2013. Una violenza che non risparmia nessuno. Non certo Stefania, ma neppure Giorgio, di 11 anni, neppure Luigi, che di anni ne ha 9, e nemmeno la piccola Barbara, di appena 7 anni.

Solo nel 2013, dopo ben 11 di umiliazioni e soprusi, Stefania trova finalmente il coraggio di dire “basta”. Ha la fortuna di incontrare – oltre alle persone del centro antiviolenza – uomini delle istituzioni competenti e sensibili, che intervengono in modo efficace e tempestivo.  Stefania sta cercando di ricostruirsi una nuova vita. Sa che non sarà facile e sia lei che i bambini avranno bisogno di aiuto e sostegno, anche psicologico, per superare la paura e l’angoscia che li hanno accompagnati in questi lunghi anni. Il piccolo Giorgio ha voluto fare un brindisi alla mamma coraggiosa che è riuscita a liberarli da quel terribile incubo. Il piccolo Giorgio che, pochi mesi prima, aveva chiesto a Stefania: “perché papà fa così con me? Sembra che non sono suo figlio!”. No, Giorgio, non è così. Nessun uomo – che sia o meno il padre – ha il diritto di comportarsi così con un bambino. E nessun uomo – che sia o meno il marito – ha il diritto di ferire la dignità di una donna. Nessun uomo, per nessuna ragione, ha il diritto di abdicare alla propria umanità. 

Alle colonne d'Ercole

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La mia ultima avventura