29 gennaio 2014

Solidarietà al martire Scajola

Prendo spunto da un bell’articolo di Alberto Vannucci su ilfattoquotidiano.it per fare qualche considerazione sulla vicenda della celeberrima casa di Scajola al Colosseo e sul rapporto tra diritto penale e politica. In questi giorni si sta assistendo ad un’incredibile “riabilitazione” dell’ex ministro Claudio Scajola, assolto dall’accusa di finanziamento illecito per l’acquisto di un appartamento con vista sul Colosseo. I giudici hanno stabilito che il fatto non costituisce reato. Questo è bastato per far partire un unanime laceramento di vesti sulla ingiusta gogna mediatica di cui è stato vittima il povero Scajola e sul fatto che la giustizia – scagionandolo dall’accusa di aver commesso un reato – avrebbe finalmente trionfato (ovviamente c’è sempre  pronto il piano B del complotto giudiziario in caso di condanna). Tertium non datur. Credo che ci siano due elementi su cui è opportuno riflettere.
Il primo è la difficoltà di individuare il nesso di correlazione tra un fatto (in questo caso la dazione di denaro da parte del costruttore Anemone, tramite un intermediario, per consentire a Scajola di acquistare un immobile) e la condotta delittuosa dell’imputato (ad esempio un qualche “favore” all’imprenditore utilizzando il proprio ruolo istituzionale). Questo aspetto è l’elemento cardine della difficoltà che incontra il nostro sistema politico-amministrativo (sempre che qualcuno lo voglia veramente) di eliminare clientelismi e voti di scambio. Chiunque provi ad informarsi su quello che succede nelle pubbliche amministrazioni è in grado di individuare agevolmente casi che presentano qualche analogia con la vicenda Scajola. Può capitare che un sindaco decida di dare un contributo a qualche soggetto privato, magari giustificandolo con finalità sociali, e che ne tragga un non dimostrabile vantaggio in termini di consenso elettorale (in ogni caso insufficiente a configurare l’esistenza di un vero e proprio reato) oppure che un concorso venga vinto in modo del tutto casuale proprio dalla persona che tutti si sarebbero aspettati. Proprio in questi giorni c’è, ad esempio, la notizia di una collaboratrice molto particolare del governatore Chiodi, vincitrice di un concorso per un importante ruolo pubblico nella regione Abruzzo (tra i fatti potrebbe non esserci alcuna correlazione, ma solo imbarazzanti coincidenze). In alcuni casi la presenza di un “voto di scambio” è nota ed evidente e talvolta c’è qualche illecito amministrativo, ma essendo difficilmente dimostrabile l’elemento del dolo (si tratta infatti sempre, a detta degli interessati, di distrazione o di imperizia) si è costretti ad escludere l’ipotesi di reato, ma non la censurabilità della condotta.
Il secondo elemento di riflessione – diretta conseguenza del primo – ci porta a dover dare un giudizio almeno politico, anzi etico di un determinato comportamento. Se io scopro che Scajola è andato a comprare un immobile del valore di un milione e settecentomila euro e l’ha pagato 800mila, mentre la parte restante è stata versata da un imprenditore che prende appalti dalla pubblica amministrazione non mi preoccupo di sapere se il fatto sia un reato o meno. E neppure se Scajola fosse informato o meno (ma non saprei cosa sia più preoccupante). Penserei semplicemente che Scajola dovrebbe smettere di fare il ministro della Repubblica (ma anche il parlamentare o il consigliere comunale). C’è un’incompatibilità etica tra il fatto avvenuto (la cui veridicità che non è in discussione), ossia un regalo di enorme valore ricevuto da un uomo delle istituzioni e la sua importante funzione pubblica. Non voglio che Scajola vada in galera. Penso solo che farebbe bene a smettere di occuparsi della cosa pubblica, perché temo di non potermi fidare della sua diligenza, lealtà e, soprattutto, imparzialità nel ricoprire il suo incarico. Punto. E questo dovrebbe valere a tutti i livelli della pubblica amministrazione.

Del resto c’è una recente norma del nostro ordinamento giuridico che si chiama “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici” (d.p.r. n. 62 del 2013), che, all’articolo 4, dall’esplicativo titolo “Regali, compensi ed altre utilità”, afferma che “Il dipendente non chiede, né sollecita, per sé o per altri, regali o altre utilità”, con pochissime eccezioni (modico valore del regalo e circostanze ben definite). Il codice di comportamento afferma anche molto chiaramente che è irrilevante che il fatto costituisca reato, perché il dipendente non deve chiedere né accettare regali o altre liberalità in ogni caso. E al dipendente non è neppure permesso di avviare rapporti di collaborazione con soggetti che abbiano o abbiano avuto un interesse economico significativo in attività o decisioni dell’ufficio di appartenenza del dipendente. Principi di assoluto buonsenso che dovrebbero valere a fortiori per chi ricopre incarichi elettivi. Perché ciò avvenga non serve una legge che sancisca l’illiceità di certi comportamenti, servirebbe una maggiore consapevolezza da parte di chi decide a chi affidare l’amministrazione della cosa pubblica. Basterebbe che ognuno di noi, andando alle urne, escludesse automaticamente di votare per la lista dove c’è Scajola o dove c’è Chiodi o dove c’è un qualunque altro politico che abbia, in qualche misura, esercitato in modo improprio il potere istituzionale. L’unico rischio è che, nel panorama attuale, non rimangano alternative. E questo sarebbe davvero frustrante per chi, almeno un po’, crede ancora in una politica fatta davvero nell’interesse dei cittadini.

27 gennaio 2014

Presto, mi dia una riforma elettorale

C’è bisogno di riforme… Sono almeno 20 anni che la soluzione ai cosiddetti “problemi del paese” viene individuata in questa parolina magica: “riforme”. Bisogna riformare lo Stato, la Costituzione, la legge elettorale. Le cause dei mali sembra che siano sempre da attribuire a un qualcosa di impalpabile, indefinito, impersonale, di cui nessuno ha una precisa responsabilità. Un comodo capro espiatorio che serve a distogliere l’attenzione dalle vere questioni: l’inadeguatezza del ceto politico e la “colpa” di chi quel ceto politico sceglie, ossia noi cittadini-elettori, talvolta distratti e superficiali quando decidiamo a chi affidare la gestione della cosa pubblica. Prendersela col sistema elettorale, con la forma di Governo, con l’organizzazione degli enti territoriali è il solito modo, tutto italiano, di scaricare coscienze e responsabilità. Il paradosso è che spesso le soluzioni che si propongono (e che spesso, infatti, non risolvono un bel nulla) fanno l’esatto contrario di ciò che viene sbandierato come scelta irrinunciabile. E così facendo ci ritroviamo ad affrontare continue riforme, che spesso servono solo a creare confusione, ma che poi – all’atto pratico – sono di ben poca utilità, se non addirittura dannose. Ad esempio, dopo decine di anni di onesta carriera, la legge elettorale del 1957 – basata su un meccanismo proporzionale “puro” e con l’indicazione della preferenza - è stata rottamata in nome di due principi considerati irrinunciabili: quella della governabilità e quello di poter scegliere il proprio candidato (come se prima non fosse possibile). Correva l’anno 1992 e la prima repubblica veniva sommersa dagli scandali di tangentopoli. La soluzione fu presto trovata: è tutta colpa della legge elettorale, cambiamola, andiamo a votare e il nuovo Parlamento sarà lindo e specchiato come non mai. Si passò in fretta e furia ad un sistema anomalo, con collegi uninominali a turno unico e il 25 per cento dei deputati eletti in liste proporzionali bloccate. I risultati sono ben noti. Non si ebbe certo la governabilità (la prima legislatura – 1994-1996 - durò appena due anni e quella successiva fu un continuo avvicendarsi di governi e maggioranze) e la scelta del proprio eletto era circoscritta ai pochi candidati decisi dalle segreterie delle coalizioni politiche, magari paracadutati in zone di cui ignoravano persino l’esatta collocazione geografica.
Dopo qualche anno si decise di tornare al proporzionale, riuscendo però a snaturarne completamente il senso. Con le liste bloccate le segreterie di partito si sono arrogate il diritto di scegliere direttamente i propri eletti, con il premio di maggioranza si è alterato completamente il principio di proporzionalità della rappresentanza e con le soglie si è, da un lato, imposto un obbligo di alleanze che si sono rivelate spesso di comodo e prive della necessaria condivisione programmatica, dall’altro è stata sottratta la rappresentanza politica a milioni di italiani (ad esempio la sinistra e l’ambientalismo spazzati via da un calcolo cinico dell’allora segretario del PD, Veltroni). Un sistema elettorale criticato da molti, ma che ha fatto molto comodo a chi manovrava i fili e non c’è da stupirsi se il Parlamento non aveva mai affrontato seriamente la sua revisione fino alla sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarava la sostanziale incostituzionalità.
Adesso – è la parola d’ordine - si cambia. Ma come si cambia? La sensazione è che tutte le volte che il legislatore è chiamato a modificare le “regole” riesca a peggiorare le cose, magari con il convinto appoggio di un’opinione pubblica abilmente suggestionata. Penso ad alcune innovazioni giustificate con l’esigenza di “ridurre i costi della politica”. E guai a sostenere che il principio – di per sé ampiamente condivisibile – rischia una strumentalizzazione pericolosa e profondamente antidemocratica. Penso alla riduzione del numero degli eletti, che, insieme alle norme per azzerare la rappresentanza dei piccoli, costituisce lo strumento perfetto per dare un potere enorme a chi ricopre un incarico pubblico. E’ noto che partecipazione e delega devono trovare un ragionevole punto di equilibrio per far sì che vi sia un’adeguata rappresentanza della stragrande maggioranza dei cittadini. La democrazia costa e pensare di ridurre gli sprechi tagliando sulla democrazia è un errore gravissimo. La presenza di un’opposizione vigile potrà essere un’arma efficacissima per evitare che chi amministra faccia scelte sbagliate e dispendiose. E sarò ben contento, come cittadino, di avere un sistema amministrativo e di governo che non consenta a nessuno – nemmeno se vicino a me ideologicamente e politicamente – di decidere pressoché in solitudine. E’ già successo con la truffa della riduzione del numero dei consiglieri comunali. Qualcuno pensa davvero che l’operazione – tutta mediatica – abbia prodotto dei risultati apprezzabili in termini di risparmio? O non c’è forse il rischio che, con consigli comunali ridotti a consigli di amministrazione, da qualche parte ci siano appalti, opere pubbliche e sprechi a vario titolo per i quali l’azione di controllo si sia gravemente indebolita?
Per non parlare della “soppressione” (o presunta tale) di organi o enti giudicati “inutili”. Pensiamo alle province, sulla cui effettiva utilità non mi soffermo, ma la cui trasformazione in organi elettivi di secondo grado non ne ha certo eliminato la struttura (che è il vero costo, ma che altrimenti andrebbe comunque trasferito ad altro organo) e la sua gestione viene “spartita” tra le forze politiche più influenti (ovviamente con doppio incarico e rafforzamento di quel potere territoriale occulto di cui si nutrono le forme peggiori del clientelismo). In modo analogo si propone di trasformare il Senato in un organo appannaggio delle regioni. Anche in questo caso doppi incarichi e personaggi politici che diventano sempre più influenti.

Ma per tornare alla legge elettorale, frutto dell’accordo tra Renzi e Berlusconi (e già questo la dovrebbe dire lunga sulla qualità del prodotto), sembra persino peggio del cosiddetto Porcellum che vorrebbe sostituire. Come al solito è figlia di un vecchio vizio della politica italiana, quello di cucire le leggi su misura per chi le scrive e non di una loro astratta funzionalità. E così le soglie si individuano sulla base dei sondaggi (e quindi Forza Italia vuole una soglia per far fuori il nuovo centrodestra, così come Italia dei Valori accolse di buon grado l’innalzamento della soglia per le europee per cannibalizzare i principali “competitor” a sinistra del PD) e i premi di maggioranza si basano sull’esigenza di colmare con una distorsione della rappresentatività la mancanza di consenso. Insomma, anziché trovare un modo per costruire un’alleanza basata su accordi programmatici (anche da far nascere in Parlamento, come prevede la nostra forma di governo), si preferisce “scippare” ad una legittima rappresentanza parlamentare (con soglie e premio di maggioranza) il numero di seggi necessario a raggiungere una maggioranza parlamentare. Si tratta dell’ennesima “legge truffa”, che aumenterà la disaffezione dei cittadini verso le istituzioni. Magari, alle prossime elezioni, assisteremo agli show di politici che si stracceranno pubblicamente le vesti per il preoccupante calo di affluenza alle urne. Una preoccupazione ovviamente simulata. Quello che preoccupa molti politici non è l’astensionismo, ma la gente che vota, soprattutto se usa il cervello quando entra nella cabina elettorale.

21 gennaio 2014

L'ineluttabilità dell'assioma cemento

Apprezzabile l’iniziativa di confronto sul tema della bretella Cisterna-Valmontone, organizzata dai giovani democratici di Valmontone venerdì 17 gennaio. E’ un dibattito che si sarebbe dovuto avviare seriamente qualche anno fa, ma che gli amministratori ad ogni livello territoriale – salvo poche eccezioni - hanno sempre preferito evitare. E neppure venerdì scorso si è registrata una partecipazione memorabile. In ogni caso il dibattito c’è stato e merita alcune considerazioni.
Il primo elemento di riflessione è che nessuno si è espresso incondizionatamente a favore dell’opera. Anche i più accaniti sostenitori dell’esigenza di realizzare un nuovo asse viario di collegamento tra Cisterna e Valmontone hanno voluto esprimere qualche però, qualche distinguo, qualche perplessità. Da quando è stata “pensata” l’arteria stradale (circa 40 anni fa) c’è stato un lieve, ma percettibile cambiamento dell’approccio. Non più una visione sviluppista tout court, come ai bei tempi del boom economico, in cui la crescita era l’unico valore di riferimento, bensì la consapevolezza del danno (ambientale, paesaggistico, economico, sanitario) che alcune scelte infrastrutturali comportano. E così gli interventi a favore – pur partendo da un principio tutt’altro che assiomatico -  sono stati tutti accompagnati - chi più, chi meno – da un qualche “ma” o da qualche “però”. Chi si chiedeva quale sarebbe stato l’impatto di un’opera analoga (dando per scontato il fatto che non si potesse intervenire creando una riduzione della domanda di mobilità, ma solo aumentando a prescindere una qualche offerta). Chi (il PD di Valmontone) sostenendo l’importanza dell’opera purché si spostassero a Labico le esternalità negative (traffico, opere connesse, ecc.). Chi (il PD di Labico) sostenendo l’importanza dell’opera purché non si realizzassero a Labico le esternalità negative (nello specifico il casello autostradale). Chi pretendeva la realizzazione dell’opera in nome di una meglio precisata libertà di spostamento e che però delegava agli organi competenti la ricerca di interventi di mitigazione ambientale.

Da questo punto di vista credo sia più coerente un genuino approccio cementista modello berlusconiano, piuttosto che una sempre più diffusa schizofrenia di una certa sinistra (o presunta tale) che organizza convegni ed iniziative sulla green economy, sulla filiera corta, sullo slow food e sulla valorizzazione dei prodotti locali (penso alle tante chiacchiere che si fanno sull’esigenza di tutela della nocciola labicana), ma che poi, quando si tratta di fare le scelte di politica infrastrutturali, dimostra di essere rimasta culturalmente ferma a quegli anni ’70, durante i quali era stata progettata la bretella. Gli stessi anni in cui il Massachusetts Institute of Tecnology aveva redatto “I limiti dello sviluppo”, il primo documento scientifico dell’ambientalismo moderno. Da allora, in questi 40 anni, molte cose sono accadute e in tutto il mondo ci sono stati straordinari cambiamenti culturali. L’Unione Europea - come ha magistralmente ricordato una ragazza intervenendo a difesa del suo (e nostro) territorio - ha dato, attraverso il libro bianco sui trasporti, delle indicazioni chiarissime su come i governi nazionali dovranno gestire la politica della mobilità. E la direzione è esattamente contraria a quella seguita da governi nazionali e amministratori locali. Pur sapendo che così facendo si rendono consapevoli della distruzione del nostro territorio e del nostro paesaggio (art. 9 della Costituzione), che annienteranno il coraggioso tentativo di giovani e appassionati imprenditori agricoli che stanno cercando – loro sì – di valorizzare i prodotti della nostra terra e di creare le premesse per un’economia locale sana e vitale, che aumenteranno inquinamento e danni alla salute per la popolazione residente, che sottrarranno preziose risorse che potrebbero molto più utilmente essere destinate ai pendolari, costretti ad un continuo calvario per raggiungere il proprio posto di lavoro. Ebbene nonostante questo, la loro posizione non è in discussione. Anzi, sono talmente convinti di essere nel giusto che, subito dopo la passerella del palco, scappano via, da perfetti politici navigati, senza degnarsi di ascoltare le parole degli altri. Mica hanno tempo da perdere.

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura