20 gennaio 2004

E per la bicicletta briciole di strada

Questo articolo è stato pubblicato sull'inserto "Ecomondo" della rivista "Vita"


Quando si parla di pianificazione della mobilità urbana, di strategie per il trasporto, di interventi per la riduzione dell’inquinamento da traffico veicolare e per il miglioramento della qualità dell’aria (e della vita) viene individuata una serie di azioni possibili, in cui viene inserito (normalmente all’ultimo posto) anche il punto “piste ciclabili”, messo lì quasi a tacitare le coscienze di chi redige il programma di intervento, ma che ben poca fiducia ripone nella reale possibilità che la vecchia e scomoda bicicletta possa in qualche modo contribuire a risolvere i problemi della mobilità in ambito urbano. Le cose serie su cui intervenire sono altre e, di solito, si basano su un’impostazione che mette al centro di qualsiasi ragionamento sempre e indiscutibilmente l’automobile. Ecco quindi che si pensa alla realizzazione di nuovi parcheggi (talvolta in prossimità dei punti di attrazione sociale: zone commerciali, uffici, servizi, ecc.), agli interventi per la “fluidificazione” del traffico, a nuove infrastrutture di collegamento (assi viari, tangenziali, ecc.). In seconda battuta si pensa al potenziamento del trasporto pubblico (ma di rado in concomitanza con la creazione di percorsi riservati e protetti). Dopodiché si passa all’elencazione delle misure stravaganti, in ordine inverso rispetto alla fiducia che ispirano, come il car-pooling, il car-sharing, via via fino alle “piste ciclabili”.
Già il fatto che, anziché parlare di mobilità ciclistica, come correttamente fa la legge quadro che ne norma gli interventi di promozione e di diffusione (legge 19 ottobre 1998, n. 366), si parla di “piste ciclabili”, che costituiscono l’infrastruttura più onerosa e di difficile realizzazione (soprattutto in ambito urbano) la dice lunga sulla principale difficoltà che incontra la diffusione della mobilità in bicicletta. Questa difficoltà è culturale, prima ancora che infrastrutturale, e a ben poco servirebbe la realizzazione di una rete di piste ciclabili (sottraendo magari parcheggi e corsie alle automobili) se prima non si diffonde una cultura della bicicletta, magari cominciando da piccoli – e meno costosi – interventi per promuovere l’uso delle due ruote. La legge 366 del 1998 prevede un elenco di questi interventi e le piste ciclabili sono solamente una delle possibili realizzazioni.
Indubbiamente la loro presenza è una cartina di tornasole dello stato di salute della mobilità ciclistica di un determinato luogo. Ma Ferrara – che è la città ciclabile italiana per antonomasia – non vanta il 30 per cento degli spostamenti urbani in bicicletta perché ci sono le piste ciclabili. A Ferrara si va in bicicletta perché c’è una cultura della bicicletta e perché tutti sono consapevoli di quanto sia più pratico muoversi in bicicletta (sia riguardo ai tempi che ai costi) rispetto alla mobilità motorizzata. Se a questo si aggiunge una grande sensibilità dell’amministrazione comunale verso i ciclisti urbani e un maggiore rigore nell’applicazione del codice della strada ecco che si capisce quale sia la ricetta giusta.
Insomma sarebbe sufficiente che coloro i quali studiano gli interventi da attuare sulla mobilità urbana fossero consapevoli del fatto che il 40 per cento degli spostamenti in ambito urbano sono al di sotto dei 4 o 5 chilometri, distanza che può essere tranquillamente percorsa in bicicletta, per dare un serio impulso ad una politica dei trasporti in ambito urbano che abbia davvero come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita di tutti, automobilisti compresi.
L’altro punto dolente dell’attuazione della legge 366 del 1998 è il versante finanziario. La legge non ha mai avuto finanziamenti adeguati all’esigenza di compensare il gap (che abbiamo visto essere sia culturale che infrastrutturale) con le molte realtà europee, le quali, a dispetto di una situazione climatica meno clemente (si pensi a Danimarca, Olanda, Germania, Austria, Gran Bretagna), hanno una maggiore diffusione della mobilità ciclistica e investono somme ragguardevoli per il suo sviluppo (la sola Gran Bretagna ha dedicato una parte significativa del proprio piano decennale della mobilità allo sviluppo della mobilità ciclistica, prevedendo, nei primi cinque anni di azione del piano, la realizzazione di ben 4300 km di piste ciclabili: 850 km all’anno). E così il già poco confortante quadro finanziario della legge, sta vivendo, in questi ultimi tre anni, il momento più nero della sua storia. Le manovre economiche varate dal Governo Berlusconi degli ultimi tre anni hanno stanziato complessivamente 1,5 milioni di euro per finanziare la mobilità ciclistica nel quinquennio 2002-2006. Tradotto in piste ciclabili significa 12 chilometri. Meno di un chilometro di pista ciclabile a regione. Praticamente un metro e mezzo di pista ciclabile per ogni comune.

13 gennaio 2004

Finanziaria 2004. Un po' meno per tutti

In un paese “normale” e democratico l’operato di un Governo, quale che sia, verrebbe valutato ed eventualmente sottoposto a critica da parte dei cosiddetti “organi di stampa”, molti dei quali senza preconcetti esprimerebbero un giudizio sulla qualità dell’azione di governo. Così non è in Italia, dove lo spazio per la critica viene lentamente, ma inesorabilmente ridotto e dove non arriva la censura, arrivano l’opera di persuasione da parte di chi ha un briciolo di potere nel mondo mediatico e il senso dell’opportunità da parte di chi in quel mondo ci lavora (il vecchio e mai tramontato “tengo famiglia”). Ne esce un desolante panorama (involontario il riferimento ad una delle testate del Presidente del Consiglio) in cui – facendosi beffe della Costituzione, delle sentenze della Suprema Corte, dei reiterati inviti da parte del Capo dello Stato – una maggioranza sempre più arrogante e spocchiosa e un capo del Governo privo di ogni senso dello Stato hanno occupato militarmente l’intero etere, ben sapendo che attraverso di esso passa il 95 per cento dell’informazione ufficiale. L’informazione della carta stampata (anch’essa in parte controllata dalla maggioranza) costituisce ben magro pericolo per chi guida un Paese dove si legge in media meno di un libro all’anno e dove i quotidiani sono letti da una modesta percentuale della popolazione. Ne consegue così un’informazione che assomiglia molto a quella del Ministero della Verità del ben noto romanzo di Orwell, 1984. Anche se la notorietà gli è stata purtroppo data dallo scippo della locuzione “grande fratello”, che ha dato il titolo ad una delle peggiori trasmissioni televisive della storia. In pratica alcuni funzionari di quel ministero, tra cui Winston, il protagonista, erano addetti alla modifica dei dati dell’archivio storico in modo da poter diffondere tutte le falsità possibili, senza tema di smentita, perché veniva cancellata anche la “memoria”. E se, ad esempio, venivano ridotte le razioni alimentari, il Ministero della Verità faceva credere che le razioni erano aumentate, illudendo i cittadini di un miglioramento del loro benessere. Guai ovviamente ad esprimere perplessità o critiche: il sistema interveniva prontamente con azioni intimidatorie (o peggio). Quello che avviene in Italia in questo momento ha delle preoccupanti similitudini con la dittatura in cui viveva Winston e non è un caso che si parli poco e in modo scorretto della situazione economica del nostro Paese e la stragrande maggioranza dei TG hanno preferito propinarci lunghi servizi sul cenone di Capodanno piuttosto che soffermarsi sui contenuti della terza manovra economica predisposta dall’ineffabile Tremonti. E allora proviamo noi a fare qualche considerazione sul contenuto della manovra, sull’andamento dei conti pubblici e sulle prospettive della nostra economia.
Dopo le roboanti promesse del 2001 e il loro puntuale rinnovo in ogni circostanza utile ci troviamo di fronte alla legge finanziaria per il 2004, quella che permette di fare il giro di boa della legislatura, e che dovrebbe consentire un primo rendiconto sull’attuazione del programma di governo (e questo esecutivo è stato persino capace di istituire un ministro con questa funzione). Per fare questo dovremmo dare un’occhiata – visto che ancora non esiste il Ministero della Verità – al primo Documento di Programmazione Economico-Finanziaria predisposto dal Governo Berlusconi, come aggiornato “dopo” l’11 settembre (in modo che non vi sia spazio per alibi di alcun tipo). Ebbene il documento contabile firmato dal tandem Berlusconi-Tremonti, prevedeva, in virtù dei prodigiosi interventi a sostegno dell’economia e dell’industria che avevano in animo di realizzare, una crescita del PIL superiore al 3 per cento su base annua a partire dal 2002, mettendo in pratica la semplice ricetta berlusconiana: infondere ottimismo e fiducia e creare così i presupposti per un rilancio delle spese e, di conseguenza, dell’economia.
A questo punto appare doveroso precisare che i paladini del totem PIL come valore unico e indiscutibile del benessere di una nazione sono quelli che siedono ai banchi del governo e sarebbe – da parte loro – ipocrita sminuirne proprio ora l’importanza. Personalmente ho un approccio molto più disincantato al modello economico a cui fanno riferimento i paesi occidentali e nutro delle personali perplessità sui parametri utilizzati per impostare i bilanci nazionali, attribuendo incomprensibili valori positivi ad eventi come alluvioni o disastri ambientali, solo perché – applicando pedissequamente le teorie keynesiane – mettono in moto dei settori economici. In pratica non si tiene mai conto della perdita in termini di “patrimonio” o di benessere che alcuni eventi determinano, leggendo solo in modo miope il modesto contributo al prodotto interno lordo.
Guardiamo ora l’economia italiana del 2003: in ciascuno dei primi due trimestri la crescita economica è risultata negativa per lo 0,1 per cento, determinando così quella che tecnicamente viene definita “recessione”. Il debito pubblico ha toccato il suo massimo storico superando la quota di 1400 miliardi di euro. Il terzo dei parametri di Maastricht sotto controllo da parte degli osservatori internazionali è il rapporto deficit/PIL che nel 2002 è stato del 2.3 per cento a fronte dello 0.5 ipotizzato dalle stime governative. Insomma un disastro su tutta la linea, ma non c’è da stupirsi visto che l’attività parlamentare dei primi due anni si è concentrata sugli “affari del presidente”, dalla depenalizzazione del falso in bilancio alla legge salva-Previti, dall’abolizione della tassa di successione per i grandi capitali (spacciata come un provvedimento di cui tutti avrebbero beneficiato in qualche modo) alle norme sulle rogatorie internazionale, dall’immunità ad personam alla legge Gasparri e al decreto-legge per aggirare il veto del Capo dello Stato. In fondo bisogna dare atto al Governo che, con tutto quel gran daffare per salvaguardare alcuni interessi privati, si è un po’ perso di vista quello pubblico (di interesse). E così, finita l’estate del 2003, Tremonti e i suoi si sono seduti intorno ad un tavolo per cercare di far quadrare i conti tra la mille promesse fatte, lo stato dell’economia, gli interventi da adottare. Ne è venuta fuori quella che è stata definita una “finanziaria di galleggiamento” (omettendo per carità di patria i riferimenti alla sostanza su cui avrebbe dovuto galleggiare), con la quale di fatto sono state rimandate ancora una volta le promesse di ridurre le tasse e di realizzare faraoniche opere pubbliche (qualcuno ricorda la famosa legge obiettivo? Ebbene, l’elenco di 250 opere previsto è ancora ben lungi dal vedere la luce) e sono state poste in essere molte delle creative misure che hanno reso Tremonti così celebre.
Per un deprecabile mix di pudore e ipocrisia i tagli alle famiglie sono stati fatti in maniera indiretta, agendo sulla riduzione dei servizi (sociali, sanitari, culturali, ecc.) o dei trasferimenti agli enti locali (secondo una stima dell’ANCI i comuni hanno subito un taglio di oltre 800 milioni di euro), penalizzando la ricerca, la tutela ambientale, la difesa del suolo, i trasporti. Non è stata prevista la restituzione del fiscal-drag e non è mai stata realmente attuata la famosa bufala sull’aumento delle pensioni minime. Ancora una volta, incurante dei continui richiami da Bruxelles, il Governo ha varato una manovra costituita in gran parte da misure una tantum, che non risolvono i problemi dei conti pubblici, ma che in compenso fanno perdere credibilità al sistema Paese. Si pensi ai numerosi condoni fiscali che, pur di raggranellare qualche spicciolo per l’erario, premiano gli evasori e costituiscono un incentivo alla violazione delle leggi, ma si pensi anche alla terribile iattura del secondo condono edilizio degli ultimi dieci anni (entrambi firmati da Berlusconi), che legalizza la devastazione del territorio, penalizza le amministrazioni comunali (alle quali spetta il compito di sostenere gli oneri di urbanizzazione), beffa i cittadini onesti che si sono visti negare autorizzazioni e concessioni e indebolisce la già fragile certezza del diritto.
Sul piano del metodo abbiamo assistito ad un incredibile scippo delle prerogative parlamentari. Tre quarti della manovra sono stati varati con decreto-legge, approvato a colpi di fiducia sia al Senato che alla Camera. Il disegno di legge finanziaria, che pure conteneva disposizioni importanti, è stato “imposto” alla Camera con tre voti di fiducia, senza che i parlamentari potessero esprimere alcuna valutazione sul contenuto del provvedimento. Il tutto per evitare che una coalizione rissosa e litigiosa (fatte salve le circostanze in cui – compatta – ha approvato le norme di stretto interesse personale del premier) rischiasse di sfaldare definitivamente una manovra già di per sé incerta e traballante.
E così, nell’indifferenza più inquietante, il nostro Paese si avvia ad iniziare il quarto anno del secondo governo Berlusconi. Con un’inflazione “reale” che galoppa, con una crescita economica vicina allo zero, con il debito pubblico che cresce in maniera impressionante, con provvedimenti tampone che non fanno altro che rimandare – aggravandoli – i problemi strutturali. Studiando come unica soluzione – e in parte attuando – lo smantellamento dello stato sociale, riducendo i servizi a tutela della salute pubblica, della scuola (e non è un caso che siano aumentati i trasferimenti alla scuola privata) e tutti quelli di pubblica utilità. L’importante è non accorgersene. Fede è sempre lì a rassicurarci e a spiegarci che – se proprio c’è qualche problema – è eredità dei governi del centro-sinistra. Ma possiamo stare tranquilli. Loro sistemeranno tutto. Bisogna aver fiducia. E magari continuare a comprare, spendere, consumare. Sigla. Pubblicità.

Tullio Berlenghi

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura