24 maggio 2005

Lettera aperta ai “nuovi” labicani (e non solo)

Cari “nuovi” labicani,

lo so che il 90 per cento di voi non leggerà questa lettera. So anche che l’80 per cento di voi non sa nemmeno che esiste questo giornale e questo vale anche per una rilevante percentuale di “vecchi” labicani. Mi rendo anche conto che la maggior parte di voi non ha quasi nulla a che fare con Labico, inteso come centro cittadino. Gran parte delle vostre esigenze riuscite a soddisfarle altrove e non sentite il minimo bisogno di passare dal paese. Molti di voi probabilmente sono pendolari con destinazione Roma e troveranno più comodo e più pratico (e spesso anche più conveniente) fare la spesa o altri acquisti durante il tragitto casa-lavoro (o viceversa). Anche la vostra vita sociale e culturale – che auspico attiva e intensa – sarà legata ai punti di riferimento “prelabicani” e immagino che non avvertiate l’esigenza di cercare un’interazione con la città dove avete scelto di vivere. Credo che tutto questo sia piuttosto naturale e credo anche che dipenda da questioni molto lontane da voi e da me. Con un orribile semplificazione attribuirei questa profonda mutazione sociale al “mercato” – già, il mercato, questo terrificante moloch che controlla la vita di tutti noi – e al fatto che, fatti due conti, molti hanno pensato che convenisse trasferirsi in un posto un po’ più lontano da Roma, ma con immobili a prezzi abbordabili e con la possibilità di compensare il piccolo disagio logistico (“ma ci sono ottimi collegamenti” qualcuno vi avrà rassicurato) con il vantaggio di stare in una zona non congestionata dal traffico e dallo smog. Alcuni di voi avranno poi visto che le cose non erano esattamente così rosee come sembrava all’inizio, ma si sono comunque adattati alla nuova situazione.
Stavolta, per una volta, non voglio muovere critiche di alcun genere a nessuno, visto che tali e tante sono le responsabilità e le successive stratificazioni di piccoli e grandi colpe. Vorrei solo fare alcune riflessioni su come l’innovazione urbanistica della “città estesa” abbia profondamente modificato le abitudini di tutti noi nell’arco di non più di un paio di generazioni. Riusciamo – adesso – ad avere un raggio di azione delle nostre attività quotidiane che supera abbondantemente i 50 chilometri (distanza che per i nostri nonni era la somma degli spostamenti di una settimana). E se in una prima fase questo aumentato raggio di azione era compensato dalla maggiore mobilità che l’innovazione ci permetteva (auto, treni, metropolitane, infrastrutture), in una seconda fase – caratterizzata da una cattiva gestione e da una inadeguata analisi delle conseguenze della nuova distribuzione degli insediamenti sul territorio – si è assistito ad un lento ma inesorabile peggioramento della qualità degli spostamenti, con le ben note conseguenze in termini di tempo perso e di stress accumulato. Ma al di là di queste frettolose e superficiali considerazioni sulle cause quello che mi preme è cercare di capire se e come l’attuale situazione possa essere governata, ossia se si possa in qualche modo superare lo stato di rassegnazione ad una condizione evidentemente migliorabile. In poche parole mi domando se sia possibile recuperare una dimensione di socialità anche in un ambito territoriale così gravemente compromesso sul piano urbanistico. E soprattutto mi chiedo – e vi chiedo – se c’è in qualcuno di voi – no, non in tutti – la voglia e la curiosità di sentirsi parte comunque di questa piccola comunità, partecipando alla vita sociale del paese, promuovendo iniziative culturali, spingendo per il riconoscimento dei propri diritti, chiedendo conto alle istituzioni della mancanza dei servizi (là dove mancano) o della inadeguatezza delle infrastrutture (là dove sono inadeguate).
Non è facile, lo so. Siamo tutti legati alle nostre piccole abitudini e restii ai cambiamenti. Credo solo che l’aumento del tasso di partecipazione – in senso lato, non solo come “democrazia attiva” – farebbe bene non solo a tutti noi, ché la partecipazione è socialità, è scambio culturale, è vitalità, è arricchimento, ma anche a Labico, che potrebbe così ritrovare la sua identità e cercare di allontanare lo spettro della lenta degradazione verso un’anonima borgata senza vita né anima.


Tullio Berlenghi

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