24 novembre 2012

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne


In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne l'associazione "Socialmente donna" di Labico ha organizzato tre giorni di iniziative. Questo è il mio contributo. Racconto la storia dell'ultima donna condannata a morte nel Regno Unito: Ruth Ellis.

Ruth

Ruth Ellis e Albert Pierrepoint si incontrano il 13 luglio del 1955. Non è esattamente un appuntamento galante, il loro. Ruth è una splendida donna. Ha 28 anni. E’ bionda e attraente. Ruth ha ucciso un uomo. E’ un assassina. Albert di uomini (e di donne) ne ha uccisi molti di più… Però, tecnicamente – almeno sul piano del diritto –, non è un assassino. Albert è un boia, lui uccide, sì, ma per lavoro. E il suo lavoro, in quella tiepida mattina di luglio, si chiama Ruth Ellis.
Siamo nel Regno Unito, uscito vincitore dal conflitto mondiale e animato da un grande fermento sociale, culturale ed economico. Winston Churchill si è appena dimesso da primo ministro. La regina è Elisabetta II, sì, proprio lei. E’ salita al trono da soli due anni ed è molto giovane. E’ una coetanea di Ruth. Ma l’orologio della vita di Ruth si fermerà quella mattina. Alla regina le cose andranno decisamente meglio.
Albert è un professionista scrupoloso. Figlio d’arte. Il padre, Henry, gli ha insegnato molto presto il mestiere e lui ormai sa fare molto bene il suo lavoro. Lo strumento usato per le esecuzioni nel civilissimo Regno Unito è la forca. I malviventi vengono impiccati. E se la pena capitale è barbarie, l’impiccagione lo è un po’ di più. Il rischio è che l’esecuzione si trasformi in un’angosciante agonia. Albert lo sa bene e ha studiato, come fa sempre, con cura la situazione. Ha preso le misure di Ruth e ha preparato gli strumenti: il metro da sarto, una corda di due metri e mezzo e un peso di 47 kg da legare ai piedi di Ruth. Il peso serve a ridurre al minimo la sofferenza, ma non deve essere eccessivo per non rischiare che la scena di morte diventi ancora più cruenta. I preparativi producono l’effetto desiderato. Ruth ci mette appena 12 secondi a morire. Certo, per la povera Ruth quei 12 secondi saranno stati interminabili, ma meglio di così Albert proprio non poteva fare. Poi, per un’ora, il corpo senza vita di Ruth rimane appeso al patibolo. L’esecuzione pubblica e l’orrore supplementare dell’esposizione del corpo trovano la loro giustificazione in una cultura giuridica che attribuisce alla pena un’efficacia sotto il profilo della prevenzione (la vista di quel corpo senza vita penzolante come monito al rispetto delle leggi).
Fermiamoci un istante e torniamo indietro. Chi è Ruth?

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Ruth Hornby è una donna affascinante, bionda e appariscente. Nata nel 1926 (come Elisabetta…) in una cittadina gallese sul mare, dalle parti di Liverpool. Il padre suonava il violoncello e la madre era una rifugiata belga. E’ la terza di sei figli. Origini modeste, dunque, ma Ruth non si può certo definire figlia del degrado e della disperazione.
Certo, è cresciuta in fretta, ma è difficile misurare le cose con il metro dei nostri tempi. Ruth, ad esempio, ha iniziato a lavorare come cameriera a 14 anni. Nulla di strano, all’epoca. Così come non è insolito che una ragazza rimanga incinta a 17 anni, come capita a Ruth a seguito di un fugace incontro con un soldato canadese, già sposato e che per circa un anno le manda qualche soldo per il mantenimento del figlio, ma che fa perdere in fretta la proprie tracce.
Insomma a 18 anni Ruth è già una ragazza madre e in qualche modo cerca di arrangiarsi. Non ci mette molto a capire che la sua bellezza può permetterle compensi di gran lunga più allettanti rispetto alla paga da cameriera. All’inizio le basta mostrare il proprio corpo, sulle prime come modella di nudo, poi come entreneuse nei night club. Il passo successivo non è difficile da immaginare. Probabilmente non è esattamente una scelta “libera”.  Inquadriamo il contesto. Siamo in un locale dove gli avventori sono quasi esclusivamente uomini e il “prodotto” offerto non è tanto il whisky scadente o la mediocre orchestrina. Chi entra nel Court Club in Duke Street è interessato ad altro. E, in quell’altro, c’è anche lei, Ruth, bellissima ventenne. Talmente bella che lo stesso direttore del Court Club non se la lascia sfuggire e le fa capire un paio di cose: che se vuole continuare a lavorare lì se lo deve meritare e che, con un po’ di buona volontà, i suoi guadagni possono salire.
Ed è così che Ruth, grazie alla sua buona volontà e a quella di uno dei clienti del night club, si ritrova di nuovo incinta. E una gravidanza non è esattamente gradita in un simile ambiente di “lavoro”, dove non sono certo previsti l’astensione per maternità e i congedi per l’allattamento. Ancora una volta la sua scelta è “condizionata” e abortisce (tra l’altro commettendo un reato). Deve tornare a “lavorare” prima possibile.
Nel 1950, a 24 anni, si sposa con un uomo decisamente grande di lei, George Ellis. 41 anni, dentista, divorziato con due figli, George non sembra esattamente un marito modello. Chi lo conosce lo descrive come un uomo dedito all’alcol, violento, geloso e possessivo. Inutile dire che il matrimonio non durerà molto. George rifiuterà persino di riconoscere la figlia, frutto della loro unione. L’unica cosa che le lascia è il cognome: Ellis.
Nel 1953 Ruth migliora la sua posizione. Adesso è lei a gestire un nightclub. E’ un periodo “buono”. Ha molti ammiratori, spesso celebri e generosi, tra cui Mike Hawthorn, un pilota di Formula Uno, appena entrato a far parte dell’illustre scuderia italiana, la Ferrari, con la quale vincerà anche un mondiale. Sarà lui a presentarle David Blakely.
David Blakely è un bel ragazzo, benestante e di buone maniere (almeno finché è sobrio). Correre in pista probabilmente per lui è semplicemente il passatempo del rampollo dell’alta società inglese. Nel complesso è quello che si può definire un “bravo ragazzo”, forse un po’ viziato. Il suo unico difetto è che ama bere.
Tra i due nasce subito una forte attrazione e dopo poche settimane dal loro primo incontro David diventa un ospite fisso dell’appartamento di cui Ruth dispone sopra al club.
Ruth rimane incinta per la quarta volta, ma decide di abortire. Teme di non essere in grado di ricambiare il sentimento dimostrato da David nei suoi confronti. Nel frattempo nasce una relazione con Desmond Cussen, un ex pilota della RAF. Sarà lui ad ospitarla quando il Club le darà il benservito.
Ruth e il figlio vivono con Desmond come se fossero una vera famiglia. Desmond si occupa molto del bambino. Ruth, nel frattempo, continua a vedersi con David, in una relazione che diventa sempre più conflittuale, morbosa e violenta. A un certo punto David le propone di sposarla e lei, all’inizio, accetta. Al matrimonio, però, non arriveranno. Durante uno dei frequenti litigi David la colpisce violentemente al ventre con un pugno. Ruth di botte ne ha prese tante in vita sua. Non è stata molto fortunata con gli uomini e un po’, alla violenza, ci si è abituata. Stavolta è diverso. Forse perché quella notte Ruth si sveglia in un lago di sangue. Quel cazzotto le causa il suo terzo aborto. Con quel cazzotto, probabilmente, in Ruth si spezza anche qualcos’altro.
E’ chiaro che tra Ruth e David non ci sono prospettive, non c’è un futuro. David ormai sembra non volerne più sapere di lei. Ruth è una donna innamorata e ferita. Si sente umiliata e abbandonata. Il 10 aprile del 1955 è domenica. E’ la domenica di Pasqua. Ruth va a cercare David. Lo fa con una pistola in tasca. Una Smith & Wesson calibro 38, modello Victory. Un arnese di un chilo. A tamburo, di quelle che non si inceppano. Roba in dotazione ai militari e alla polizia. Chi ha dato la pistola a Ruth? Non è la sua, ma nessuno si preoccupa di come se la sia procurata. Lo aspetta vicino alla sua automobile e, quando lo vede arrivare, lo chiama per nome. Lui le passa davanti senza neppure degnarla di uno sguardo. Il bivio che separa i possibili destini non è sempre facile da riconoscere. E non sapremo mai se sia stata quell’ostentata indifferenza a far calare, anche se solo per pochi istanti, il buio nella mente di Ruth. A farle abbandonare ogni logica, ogni riflessione, ogni scrupolo (anche per il futuro dei suoi figli) e a farle premere il grilletto. Una prima volta, andata a vuoto, e poi, una seconda, una terza, una quarta. Fino all’ultima, quando ormai David è a terra. Avvicina la pistola al suo corpo e spara ancora.
Le indagini della polizia sono decisamente agevoli e rapide. Ruth non nega mai alcuna responsabilità, né cerca di assecondare le strategie difensive che il suo legale le propone, per esempio sconsigliandole un abbigliamento troppo “vistoso”. Affronta il processo a testa alta e forse qualcuno della giuria interpreta come arrogante il suo atteggiamento.
Quando il pubblico ministero le chiede perché abbia sparato a David, lei risponde candidamente: “E’ ovvio, per ucciderlo”. Non c’è bisogno di molto altro per chiudere velocemente il processo. Nessuno pensa di farsi (e di fare) troppe domande. Nessuno, ad esempio, chiede come mai Ruth avesse una pistola. L’arma le è stata data da Desmond, che l’ha persino accompagnata sul luogo del delitto. Un comportamento quantomeno irresponsabile. La donna era sicuramente agitata e nessuno, con un briciolo di buonsenso, avrebbe dovuto darle un’arma carica e accompagnarla dall’uomo verso il quale Ruth prova collera e rancore, ma che era convinta di amare. Lo scrive anche nell’ultima lettera che manda ai genitori di David: “Ho sempre amato vostro figlio, e morirò continuando ad amarlo”. Non cerca perdono, non chiede commiserazione.
Tutto questo non è stato minimamente considerato. Del resto, lo scenario è l’ideale per una condanna esemplare. Lui, la vittima, un “bravo ragazzo” colpevole solamente di essersi infatuato di “quel” tipo di donna. Lei, l’assassina, bella e algida seduttrice, che non ha sopportato l’idea che lui si sia stancato di lei. Il dramma perfetto. Infatti, la giuria ci mette appena 14 minuti a stabilire, non la colpevolezza di Ruth, che non è in discussione, ma che Ruth meriti di essere impiccata. Non c’è bisogno di aprire un dibattito sulla pena capitale, sulla sua efficacia in termini preventivi e sulla sua giustizia in termini retributivi (la punizione per quanto commesso). Bisogna solo farsi una semplice domanda. A parti invertite, se David, il bravo ragazzo accecato dalla gelosia, avesse ucciso Ruth, la donna dai facili costumi, sarebbero bastati 14 minuti per emanare una sentenza di morte?

2 commenti:

  1. Ammiro molto il coraggio di Ruth Ellis! E anche la sua onestà nel voler pagare il suo crimine con la vita, affrontando l'impiccagione! L'autopsia confermò la rottura del collo, con morte istantanea, qualche secondo ed è tutto finito!

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  2. Una condanna senza pietà nei confronti di una donna che fu si carnefice del suo amante ma anche vittima. In in ordinamento più umano de la sarebbe cavata con non molti anni di carcere. Ma la giustizia britannica fu più spietata dei criminali che combatteva e non esitò s troncarle la vita sebbene militaddeyo diverse attenuanti a favore di questa sfortunata ragazza.

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Alle colonne d'Ercole

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