7 aprile 2011

Il processo breve, in breve.

Ancora una volta commetterò l’ingenuità di applicare i meccanismi della logica a qualcosa che di logica ne ha una sola, l’impunità assoluta di una determinata persona fisica. Tutto il resto sono vestiti che si cuciono addosso al principio (quello dell’impunità) per renderlo digeribile, sia sotto l’aspetto normativo che su quello della comunicazione. Questo secondo aspetto è il più facile da gestire, considerata la potenza di fuoco di cui dispone l’interessato e una certa accondiscendenza da parte sia di moltissimi “addetti ai lavori”, sia di una porzione rilevante dell’opinione pubblica.  L’aspetto normativo in effetti riguarda prevalentemente il rispetto del dettato costituzionale, che non sempre significa che una legge abbia una sua “logica”. Il fatto che venga esaminata e discussa da un paio di migliaia di persone tra parlamentari, consulenti, esperti, funzionari a vario livello, dovrebbe essere un elemento di garanzia sulla “tenuta” della norma. Discutibile o meno, ma in qualche misura “ragionevole”. Non è così per il cosiddetto processo breve, il quale, avendo come unico obiettivo il salvataggio di una persona da un processo, costituisce un semplice espediente per ottenere il risultato. Si sarebbe potuta fare anche vietando di processare gli ultrasettantenni o quelli più bassi di un metro e settanta. Si è pensato invece al processo breve. Che non è esattamente, come si potrebbe ingenuamente pensare, la riduzione dei tempi dei procedimenti penali (magari accorciando alcuni termini e potenziando gli uffici dei tribunali), ma semplicemente l’introduzione di una “mannaia” sul processo. Che a quel punto, se non è giunto ad un punto “utile”, muore lì. E sarà interesse di tutti gli imputati (e sarà più agevole per quelli più facoltosi) dilatare il più possibile tutti i tempi per giungere alla mannaia, prima della sentenza. I tempi dei processi si allungheranno inevitabilmente e sarà sempre più difficile rispettare il principio della certezza della pena. Immaginiamo cosa succederebbe se applicassimo la stessa logica ad un altro ambito di interesse pubblico (il rispetto della legge da parte di tutti, può sembrare strano, ma è un interesse della collettività) come, ad esempio, gli appalti. In questo caso si potrebbe stabilire che se la ditta che si è aggiudicata l’appalto non ha terminato i lavori entro un determinato tempo, i lavori si intendono comunque ultimati, anche se magari sono state fatte solo le fondamenta.
In questa bizzarra battaglia per porre un cittadino al di sopra della legge – legibus solutus, come gli antichi sovrani – si sta assistendo alla sagra del paradosso. In pratica il Governo della tolleranza zero per la criminalità è disposto a fare un enorme regalo ai criminali di ogni sorta, pur di raggiungere l’obiettivo. Un altro paradosso è nella denominazione che viene data alla legge (processo breve) che sembra una definizione orwelliana - come il ministero della pace, che si occupava della guerra – mentre è evidente che i processi si allungheranno, per poi non giungere a nessun risultato. E’ stata definita un’amnistia mascherata. Con la differenza che l’amnistia ha almeno il vantaggio di alleggerire il lavoro della magistratura, questo lo appesantirà. E qui viene un altro paradosso. Il Governo che più di ogni altro si ispira alla logica aziendale, alla produttività, alla visione manageriale, si inventa un simile guazzabuglio. Non stroncherà solo il processo Berlusconi, che è quello che si vuole, ma finiranno al macero le carte di tantissimi altri procedimenti, con buona pace di chi vorrebbe vivere in un paese in cui il rispetto della legalità è un valore. Mentre per questa destra becera diventa un valore solo se a delinquere sono i più disperati, quelli che, forse, hanno poche possibilità di scelta. Chi ruba tanto rimane impunito e spesso è anche premiato, come per tutti i provvedimenti a favore di evasori, abusivi e altre categorie di furbi.
Sempre a proposito di paradossi c’è la questione della responsabilità civile dei magistrati. Questione spinosa su cui non vorrei addentrarmi, perché la sua delicatezza impone la massima cautela. Però, se davvero dovesse valere il principio del “chi sbaglia paga”, che di per sé ha una sua logica, perché non introdurlo, in primo luogo, per manager e amministratori pubblici? Il mio sindaco, ad esempio, ha gestito in modo superficiale una vicenda relativa ad un pagamento di un lavoro commissionato ad una ditta. La ditta, con la quale era stato stipulato un preciso accordo, dopo aver fatto il lavoro ha chiesto di essere pagata. Per la precisa responsabilità del sindaco (e del vicesindaco) si è arrivati ad un contenzioso legale, che è costato molto di più dell’importo dei lavori. Quel “di più” chi l’ha pagato? Il sindaco e il vicesindaco? No, i cittadini. Eppure il guaio l’avevano combinato gli amministratori. Ma gli amministratori sono dei politici e la politica (che fa le leggi) sta bene attenta a non creare problemi alla propria categoria. Solo chi quelle leggi le deve applicare e far rispettare viene messo in condizioni non solo di lavorare male, ma anche di rischiare di pagare per i propri errori. D’altronde, se si dovesse introdurre la responsabilità civile retroattiva per i danni fatti da alcuni politici, a cominciare dall’attuale presidente del Consiglio, non avrebbe prezzo. Per tutto il resto c’è il rag. Spinelli.

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