5 novembre 2004

Tra Bush e Kerry gli americani scelgono Bush

Presidenziali USA 2004. Ha vinto Bush. Su questo non si discute. Si discute e si discuterà – e molto – su come interpretare il risultato del voto degli americano e su quali valutazioni “politiche” emergono dall’orientamento chiaro e deciso che gli abitanti del nuovo continente hanno dato con la propria scheda elettorale, ben al di là del numero di grandi elettori assegnati all’uno o all’altro contendente. Stavolta infatti non ci dovrebbero essere recriminazioni su una scorretta gestione del voto di stati chiave – come avvenne per la Florida 4 anni fa, dove si verificarono discutibili episodi che, secondo alcuni osservatori, alterarono il risultato finale delle operazioni di spoglio – né sull’anomalo meccanismo elettorale che – in linea teorica – potrebbe assegnare la presidenza degli Stati Uniti al candidato che ottiene meno voti del suo avversario diretto, né su una scarsa affluenza alle urne che è sempre un segnale negativo, soprattutto perché esprime disattenzione o indifferenza nei confronti di un evento da cui dipendono i destini non solo degli americani.
Niente di tutto ciò. Il dato da cui bisogna partire è che gli americani hanno scelto in modo convinto il proprio presidente, esprimendo contestualmente apprezzamento per l’opera svolta nei quattro anni passati.
Ora l’idea di dare un giudizio positivo all’azione di governo svolta da George dabliù Bush mi crea un disagio interiore che fatico ad esprimere. Per fortuna negli Stati Uniti non c’è il problema della mancanza di informazione e ci sono giornali e soprattutto emittenti televisive che mettono chiunque ne abbia voglia nella condizione di “informarsi” e di sapere quindi che George W. Bush, figlio d’arte, è l’espressione politica della potentissima lobby dei petrolieri e delle multinazionali. Che ha interessi personali enormi in molti settori economici chiave, tra cui – manco a dirlo – l’industria delle armi, ossia quella che trae maggiore profitto dallo stato di guerra permanente avviato da Bush & company.
I madornali errori commessi da Bush nella gestione della politica non sono passati inosservati: l’opinione pubblica d’oltreoceano, volendo, aveva tutti gli strumenti per valutarne la portata e le conseguenze. Gli americani, insomma, sanno molto bene che l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre del 2001 non poteva essere attribuito così superficialmente al regime talibano in Afghanistan – tutti gli attentatori erano sauditi, il che non significa certo che ci sia stata una responsabilità dell’Arabia Saudita, ma, a maggior ragione, non ci sono elementi per addossarne la colpa ad un qualche altro Stato a caso (magari dove passa qualche oleodotto strategico) – così come era chiaro che la presunta presenza di armi di distruzione di massa nel territorio iracheno, altro non era che una scusa per attaccare uno dei più grandi produttori di petrolio del mondo.
Né aveva senso parlare di “esportazione” della democrazia, perché in tal caso non si capisce per quale ragione gli USA non decidano di attaccare anche gli altri 150 paesi citati dal Rapporto di Amnesty International, che continuava a commettere gravi violazioni ai diritti umani. Forse perché l’obiettivo di “democratizzare” la Cina è fuori dalla portata anche di un’imponente forza militare come quella a stelle e strisce.
La vera ragione delle scelte di politica estera degli Stati Uniti non è quindi quella di portare la pace, la democrazia e la sicurezza in tutto il mondo. Là dove i conflitti e le tensioni non disturbano il manovratore e non intaccano le risorse energetiche, l’attenzione del grande fratello americano è molto vicina allo zero. L’interventismo USA è motivato da una sola e semplice ragione: mantenere i consumi dei paesi occidentali ad un livello che sarà sostenibile solo finché saremo in pochi a permetterceli. L’obiettivo è quindi esattamente quello di continuare a sfruttare le risorse degli altri a costi accessibili. Infatti, il picco della curva di Hubbert (il grafico che porta il nome del geofisico Marion King Hubbert e che indica l’andamento della produzione petrolifera) gli americani l’hanno registrato ormai trent’anni fa e adesso sono costretti a importare buona parte dei combustibili di origine fossile a loro necessari.
Le altre questioni che in qualche modo avrebbero dovuto far “pensare” gli americani sono state messe in secondo piano dalla grande attenzione rivolta alla falsa questione terrorismo/sicurezza. Muoiono molti più americani per il pessimo servizio sanitario che a seguito di azioni terroristiche. Con i 143 miliardi di dollari investiti fino ad ora per massacrare le popolazioni afgane e irachene chissà di quanto si sarebbe potuto migliorare la sanità, la previdenza, l’assistenza per gli americani (e magari, con un po’ di buona volontà, anche per popoli meno fortunati). Per non parlare delle questioni ambientali, del tutto assenti dall’agenda politica degli Stati Uniti, unico paese occidentale a non aver aderito al Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni dei gas che causano alterazioni climatiche.
E’ chiaro quindi che per gli americani questa è la politica da seguire. Una politica basata sugli egoismi e su una visione che mette al centro di ogni ragionamento l’interesse dell’america e dei suoi cittadini più ricchi. Cosa avrebbe potuto fare Kerry per ribaltare il risultato? Dubito che avrebbe potuto portare i democratici a posizioni ancora più moderate, nel disperato tentativo di raccogliere consensi “al centro” (pratica questa molto seguita anche in Italia) mentre proprio questa sostanziale equivalenza su molti temi ha raffreddato gli entusiasmi di molti simpatizzanti democratici.
Lo stesso regista e scrittore Michael Moore – che, beninteso, ha tifato per Kerry – ha messo in evidenza le contraddizioni della precedente presidenza democratica (Bill Clinton) che, tra le altre cose, ha ridotto il numero delle persone che avevano diritto all’assistenza pubblica, ha rifiutato di firmare il trattato per la messa al bando delle mine antiuomo, ha iniziato l’opera di boicottaggio del Protocollo di Kyoto, ha dato il via alla devastazione ambientale dell’Alaska per le trivellazioni petrolifere. Molti americani avranno pensato che se proprio si deve scegliere per un certo tipo di politica conservatrice, conviene dare il voto direttamente all’originale e non alla sua copia sbiadita. La vittoria di Bush è nella sostanza tutta qui: da un lato gran parte degli americani condivide la politica arrogante e supponente portata avanti in questi anni, dall’altro Kerry ha cercato di dare un’immagine mitigata degli stessi principi, suscitando modesti entusiasmi tra i democratici e diffidenza tra i moderati.
In una situazione “normale” il dibattito preelettorale avrebbe dovuto vertere su questioni programmatiche importanti come sanità, istruzione, politiche produttive, diritti dei lavoratori, diritti delle persone, tutela ambientale, ma tutto ciò non è avvenuto perché si è deciso di concentrare l’attenzione su aspetti che stimolano l’emotività (e la paura) più che il ragionamento.
A me – sul piano emotivo - resta l’incredulità nel sapere che 59 milioni di persone hanno deciso di confermare alla guida dello Stato più potente del mondo un uomo che ha deliberatamente deciso di condannare a morte per colpe non commesse centomila iracheni (fonte più che autorevole: The Lancet, rivista americana di medicina, che ha stilato un rapporto sui cosiddetti effetti collaterali dell’aggressione all’Iraq), la maggior parte dei quali civili, donne e bambini. In questa orrenda contabilità funebre tra i morti delle torre gemelle e la “vendetta” (sì, spesso negli States si utilizza con fierezza questo termine a proposito dell’attacco all’Iraq) è di 40 a 1. Noi, in Italia, ne sappiamo qualcosa di queste forme di rappresaglia e ancora ne serbiamo un doloroso ricordo (anche se all’epoca la proporzione era di 10 a 1, ma, si sa, l’inflazione galoppa dappertutto). Anche gli iracheni ricorderanno a lungo l’agghiacciante successione di lutti, privazioni, dolore a cui sono stati ingiustamente sottoposti. Così come i più poveri tra gli americani (ossia quelli che la guerra sono costretti a farla davvero e non da un campo di golf) stanno subendo lutti per questo conflitto (siamo ad oltre 1100 morti tra i militari USA). E per usare le parole di Bertolt Brecht “Alla fine dell'ultima guerra c'erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”. Neanche questa guerra evidentemente farà eccezione.


Tullio Berlenghi

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