5 dicembre 2016

Scusate, vorrei scendere...

C’è un affollatissimo carro dei vincitori dal quale vorrei scendere prima che l’aria diventi irrespirabile, come sul 64 all’ora di punta. Sono contento del risultato del referendum, ma non la considero una vittoria. Non una mia vittoria, almeno. Io ho interpretato il quesito come prevede l’articolo 138 della Costituzione e l’ho fatto col massimo zelo possibile: mi sono letto le proposte di modifica, ho cercato di comprenderne il senso e la portata, ho elaborato una mia valutazione – comprensiva di alcune riflessioni di carattere metodologico – e ho deciso di esprimere un voto contrario. La chiave di lettura di questo referendum si sarebbe potuta limitare a questo: il Parlamento propone una riforma costituzionale e il Popolo – che detiene la sovranità – la boccia, senza conseguenze sul piano politico e degli equilibri parlamentari e di Governo.  Non è andata così: la riforma – imposta con una certa protervia ad un Parlamento dubbioso e recalcitrante – è stata trasformata dal Presidente del Consiglio in un plebiscito sulla sua persona. Ad essa sono stati attribuiti  significati che andavano ben al di là della portata reale delle modifiche alla Carta costituzionale e si è fatta una propaganda eccessiva, arrogante e fuorviante a favore delle modifiche costituzionali. Il Governo ha messo in campo risorse enormi, ha occupato militarmente le TV di Stato come neppure Berlusconi aveva mai fatto, e ha spaccato in due il paese proprio sulla legge fondamentale dello Stato che, per definizione, dovrebbe essere frutto del più ampio accordo possibile, politico e sociale. Questa scelta scellerata ricade con enorme responsabilità su chi ha deciso questo azzardo. Un azzardo da giocatore senza scrupoli che prova ad alzare la posta e a far saltare il banco per accaparrarsi tutto. L’operazione non è riuscita, ma lascia comunque il Paese in una brutta situazione ed è troppo facile lavarsene le mani. Renzi fa bene a dimettersi, ma ci sono un Presidente della Repubblica e un partito che ha la maggioranza in Parlamento che hanno il dovere “politico” di indicare la strada per uscire da questo pantano. Ed è infantile pretendere che la soluzione la trovino gli altri, colpevoli di aver votato no. Gli altri non sono e non vogliono essere una coalizione. Non hanno progetti condivisi e non hanno fatto scelte comuni. Sono, per dirla con parole di Renzi, un’accozzaglia. Se il Presidente della Repubblica non trova le condizioni per proseguire la legislatura si dovrà tornare alle urne. C’è una brutta legge elettorale, anche questa imposta dal premier a colpi di fiducia e che lui stesso avrebbe voluto cambiare, “monca” visto che  nulla dice sull’elezione del Senato (sempre per l’arroganza che ne ha caratterizzato l’agire politico). Con un po’ di buonsenso e di disponibilità al dialogo se ne potrebbe fare una condivisa. Se non ci si riesce – e sarebbe un errore - si dovrà usare quello che c’è. I riformisti potranno costruire una coalizione il cui programma metta nero su bianco le proposte che si intendono portare avanti e puntare a quel 40% di elettori che aveva creduto alla bontà della riforma. Non è poco. Gli altri, se non vogliono restare a guardare, dovranno formulare proposte programmatiche alternative credibili. L’importante è voltare presto questa (brutta) pagina e ricominciare a fare politica (in questi casi si dice sempre “nell’interesse del paese”). Sarebbero da evitare piagnistei, accuse gratuite alla controparte e fosche previsioni da parte dei sostenitori del SI e inutili (e in alcuni casi ridicoli) trionfalismi da parte dei sostenitori del NO. La vera sconfitta di questa partita è stata l’arroganza e non serve sostituirla con l’arroganza di qualcun altro. Piuttosto bisognerebbe riprendere in considerazione un valore che in politica sta scomparendo: il rispetto degli altri, che non sono il demonio, ma qualcuno con cui è necessario dialogare e confrontarsi. La democrazia funziona così.

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