25 gennaio 2012

TIR e forconi



In Italia c’è un clima di insoddisfazione che nasce – in buona parte – dall’evidenza di una crisi economica, negata per molto, troppo, tempo, ma che ormai sta minando profondamente la fiducia e le aspettative di tanti cittadini. E il malcontento che si sta diffondendo sempre di più sta diventando come il gas compresso all’interno di un contenitore al quale rischia di saltare il tappo.  E’ buffo che sia stata necessaria la “deposizione” di Berlusconi per restituire agli italiani reattività e spirito critico, ma resta il fatto che adesso i nervi sono piuttosto tesi e c’è sempre più gente pronta ad indignarsi e a protestare. Non sempre con la chiarezza e la consapevolezza di quali siano le cause e di chi abbia maggiore responsabilità in questa crisi. Penso, ad esempio, alle contestazioni degli autotrasportatori. Da più parti giudicate come qualcosa di assimilabile al movimento degli “indignados” o di altri gruppi di cittadini che hanno deciso di mettere in discussione l’attuale modello economico. La scelta degli autotrasportatori di mettere in crisi il paese - sia con il fermo, parzialmente legittimo, della propria attività (non è tecnicamente uno sciopero), sia attraverso forme di protesta che varcano il confine della legalità, come il blocco di strade e autostrade – è stata quindi salutato da molti con favore. Come se gli autotrasportatori fossero diventati paladini e portatori delle istanze dell’intera popolazione.
Ahimè, non è così. Gli autotrasportatori sono una categoria economica che, come tutte le altre, si batte esclusivamente a proprio beneficio. Gli autotrasportatori, che già godono di sconti sul prezzo del carburante, vogliono solamente migliorare la propria condizione, ridurre i costi e massimizzare i profitti. Ma se all’autotrasportatore accordo (con i soldi pubblici) una riduzione del costo del carburante cosa succede? Se, come Stato, decido di investire (i soldi pubblici) sulle infrastrutture stradali a scapito di quelle ferroviarie quali sono le conseguenze? La risposta è molto semplice. Da un lato il trasporto delle merci su gomma sarà più competitivo (non è un caso che il 90% delle merci viaggi su gomma) rispetto a quello su ferro, pur avendo il primo dei costi esterni, economici e sociali, (che nessuno, o quasi, si preoccupa di quantificare) di gran lunga più elevati. Dall’altro lato si continuano ad avere dei prodotti il cui costo reale (che dovrebbe essere comprensivo dei costi di trasporto) è diverso da quello che si paga al supermercato. La differenza la paghiamo con la fiscalità generale, ma non ce ne accorgiamo.
Dovremmo avere delle merci per le quali si paga correttamente anche il trasporto e, in tal caso, sarebbe sicuramente molto più costoso comprare un litro di acqua che viene imbottigliata ad 800 chilometri rispetto a quella che viene imbottigliata a 50. E quest’ultima sarebbe comunque abbastanza costosa da indurre molti ad optare per la più salubre (nella stragrande maggioranza dei casi) acqua di rubinetto.
Sostenere le proteste degli autotrasportatori rischia di diventare un inconsapevole sostegno ad un modello economico e di consumo non più sostenibile. Ed è fuorviante guardare i servizi sugli imprenditori del settore dell’autotrasporto costretti a licenziare perché i camion non viaggiano più. Se il settore subirà una contrazione perché i consumatori stanno finalmente scegliendo di comprare prodotti della filiera corta (preferibilmente a km 0) sarà una grande vittoria. Il problema occupazionale ovviamente ci dovrà preoccupare e bisognerà che le istituzioni se ne facciano carico, ma non potrà essere usato come alibi per mantenere un modello economico inadeguato. Altrimenti avremmo potuto continuare a produrre eternit, che dava molta occupazione, ma con dei costi umani decisamente inaccettabili.

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