30 agosto 2011

Una manovra spuntata


Non è facile fare una manovra economica. L’operazione diventa ben più complessa e delicata quanto è in corso una crisi dell’economia mondiale. Se, poi, il governo a cui compete la stesura della manovra ha negato l’esistenza della crisi fino all’ultimo, la questione si complica ancora un po’. Piove sul bagnato, infine, se si pensa che la maggioranza che sostiene il governo è ridotta ai minimi termini e si tiene in piedi grazie ad un manipolo di parlamentari passato direttamente dal catalogo Vestro agli scranni della coalizione di governo.
Con queste premesse era difficile immaginare che fossero posti in essere interventi strutturali ed efficaci per il riordino dei conti pubblici ed il rilancio dell’economia, tenendo conto che – spesso – le due cose sono difficilmente conciliabili. Ben noto è, infatti, l’effetto depressivo delle misure di stabilizzazione della finanza pubblica. Si tratta di tagli alle spese, che si traducono facilmente in riduzione dei servizi ai cittadini, oppure di aumenti dell’imposizione fiscale. In entrambi i casi il risultato è quello di ridurre la propensione al consumo, con inevitabili conseguenze di rallentamento dell’economia. Non faccio parte della categoria degli sviluppisti e non credo nella crescita infinita (soprattutto se si basa sul consumo di risorse non riproducibili), ma proprio chi applica i parametri dell’economia classica sa bene quanto sia stretto il sentiero da seguire per rimettere in carreggiata il Paese.
La manovra è piena di contraddizioni, a cominciare dallo strumento utilizzato, quello della decretazione di urgenza. Uno strumento che ha senso per l’immediatezza delle misure (mentre molte entreranno in vigore in tempi lunghi), ma che dovrebbe dare vita ad un impianto suscettibile di pochi (e modesti) aggiustamenti, per non perdere efficacia e credibilità. Invece il provvedimento è stato un continuo work in progress sin dalla sua pubblicazione in gazzetta ufficiale, con incessanti ipotesi di modifiche, che ne stanno facendo perdere ogni parvenza di uniformità e coerenza.
Il risultato sarà lo svuotamento di un prodotto già piuttosto debole e privo, sin dall’inizio, del coraggio di intervenire sulle vere questioni importanti (e ragionevolmente applicabili). A cominciare dall’evasione fiscale, su cui non si vuole minimamente intervenire, e dal taglio delle vere voci di spesa superflue, come quelle relative agli armamenti. Un vero buco nero delle nostre casse, ma che nessuno ha mai avuto la forza di ridimensionare, nemmeno i governi di centrosinistra.
Preoccupa invece che ci sia questo trasversale e demagogico “attacco alla casta”, condivisibile in linea di principio, ma la cui applicazione sembra andare – paradossalmente – nella direzione del rafforzamento della casta stessa. Quando Calderoli parta di taglio di 50mila poltrone dà letteralmente i numeri. Che la democrazia sia un costo è cosa ben nota, ma è un costo come la sanità o la scuola. Ed è vero che sono tutti settori su cui la forbice governativa si accanisce con grande impegno, ma sono costi che una comunità virtuosa fa benissimo a sostenere. Tra l’altro se – in linea del tutto teorica – ridurre il numero dei deputati o dei consiglieri regionali porta qualche (trascurabile) risparmio, non ne porta affatto la riduzione dei consiglieri comunali della stragrande maggioranza dei comuni. Perché i 17 euro a seduta che percepisce ogni consigliere non sono certo una voce che manda in tilt il bilancio della pubblica amministrazione. Preoccupa invece che in tutti livelli di governo si crei una supercasta di pochissimi eletti, il cui potere effettivo aumenterebbe in modo esponenziale. Se proprio si vuole incassare quel risparmio, basterebbe quantificarlo e ridurre gli emolumenti ai singoli eletti in proporzione. Meglio avere 630 deputati pagati “appena” diecimila euro che 400 pagati quanto adesso, ma il cui peso politico aumenterebbe tantissimo. E chi è abituato a governare attraverso “campagne acquisti” ne trarrebbe indubbi vantaggi.
Ci vorrà ancora molto tempo perché la manovra assuma la sua forma definitiva. E’ facile immaginare cosa succederà. Chi potrà permettersi di fare pressione sull’esecutivo otterrà l’eliminazione o, almeno, il ridimensionamento delle parti che lo penalizzano. Così si riduce l’ingiustificato ulteriore taglio agli enti locali (un altro dei bersagli preferiti dei federalisti per caso che governano il paese), si eliminano i contributi di solidarietà per i redditi alti “dichiarati” (ché quelli non dichiarati sono intangibili), si rimanda la soppressione delle province e via dicendo. Le misure sostitutive sono ancora più incerte ed aleatorie e la debolezza della coalizione e i continui veti incrociati precludono ogni possibile ricorso a provvedimenti davvero efficaci. Il conto finale andrà, ancora una volta, ai ceti sociali più deboli. Con una nuova stretta al sistema pensionistico, con aumento del prelievo fiscale, diretto e indiretto, con la riduzione dei servizi al cittadino. Quando poi si fermerà la ruota dell’economia, saranno tutti pronti a gridare il proprio stupore.

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