L’esercizio del diritto di
critica infastidisce molto il nostro sindaco e immagino che non apprezzerà troppo
questo mio articolo. Già in passato l’avere espresso perplessità sul suo
operato di amministratore mi è costato un causa al tribunale di Velletri. Non mi
limiterò dunque a dire quello che penso del nostro primo cittadino e del suo
modo di amministrare, ma farò alcune considerazioni basate sulle sue
affermazioni e sulle azioni conseguenti. Penso – ad esempio – alla solenne
promessa di riduzione dell’IMU in campagna elettorale. Promessa prontamente
disattesa. Penso ai continui impegni di rispettare norme e statuto comunale in
tema di convocazione delle commissioni, revisione dello statuto, risposta alle
interrogazioni consiliari e calendarizzazione delle mozioni. Tutta roba che non
dovrebbe essere (come lui pensa) frutto della sua gentile concessione, ma un
vero e proprio dovere istituzionale. Niente da fare. Lui continua ad essere
convinto di essere il padrone del paese e nulla glielo toglie dalla testa,
nemmeno il devastante calo di consensi registrato nell’ultima consiliatura. A
Labico meno di un terzo degli elettori ha votato per la sua lista (in pratica quando gira per strada sa che, su 10 persone che incontra, 7 non lo hanno votato, sarà per questo che è spesso di cattivo umore). E questo
prima che si rimettesse nuovamente sulla poltrona di primo cittadino. Da maggio
in poi non ne ha fatta una buona. E’ riuscito ad aumentare in modo punitivo
ogni tassa e tariffa di competenza comunale, a fronte di una pessima qualità ed
efficienza dei servizi. Nei giorni scorsi ai cittadini è arrivata la TARSU ed è
stata una nuova stangata, che ha sancito il totale fallimento della raccolta
porta a porta. Della quale si ostina a negare dati che dovrebbero essere
pubblici, ma che lui si guarda bene dal divulgare, forse per la vergogna. E’
già riuscito a perdere un pezzo della giunta comunale. Ancora una volta nel
silenzio più totale, senza darne alcuna comunicazione in consiglio, in totale
spregio delle normali regole di trasparenza, di democrazia e di rispetto per
l’organo sovrano dell’amministrazione comunale. Continua a negare il permesso
di fare le riprese video dei consigli comunali, abusando in modo ignobile del
proprio potere e ledendo vergognosamente i diritti dei cittadini che vorrebbero
essere informati sull’attività dell’amministrazione. Dopo l’esilarante giustificazione dello
“statuto dei lavoratori”, l’ultima motivazione è la mancanza di un regolamento,
che lui ovviamente non proporrà mai (ma che si impegna ad approvare). Del resto bisogna capirlo. Meno gente viene a
sapere cosa viene detto in consiglio comunale e meglio è per lui e per la sua
calante credibilità. L’ultimo consiglio comunale è servito ad approvare gli
equilibri di bilancio. Un documento contabile che avremmo dovuto approvare
entro la fine di novembre, ma che Galli – convinto che a rispettare le leggi
debbano essere solo gli altri – ha portato all’esame del consiglio solo il 27
dicembre, dopo il richiamo della prefettura. Anche in questo caso la
recalcitranza è comprensibile e l’idea
di approvarlo tra Natale e Capodanno con i cittadini distratti dalle feste natalizie
gli deve essere sembrata geniale. La relazione, infatti, è l’ennesima riprova
del disastro di un’amministrazione incapace e incompetente. E’ a causa loro che ci troviamo con un debito
di quasi quattro milioni di euro (in pratica l’intero bilancio comunale) e
Galli continua a comportarsi come se si trattasse di un banale imprevisto.
Invece era tutto prevedibile e, soprattutto, prevenibile. L’inadeguatezza del
depuratore è dipesa dall’incapacità programmatoria degli ultimi vent’anni
(chissà chi amministrava il paese) e dalla commissione di reati contro
l’ambiente e la salute, per i quali sono indagati anche amministratori
comunali. Ma a pagare, secondo Galli, dovranno essere i cittadini. E l’ha messo
nero su bianco sulla delibera che prevede la svendita di pezzi del nostro
patrimonio e approvata con deprimente prontezza e avvilente silenzio da tutti i
consiglieri comunali di maggioranza: Giorgio Scaccia, Nadia Ricci, Luciano
Galli, Mirko Ulsi e Adriano Paoletti. In compenso l’ineffabile Alfredo Galli ha
dato – se mai ce ne fosse bisogno – un’ulteriore prova della sua scarsissima
affidabilità, etica e politica. Quando Spezzano ha fatto notare la presenza
della lunga lista di debiti contratti con gli autotrasportatori per un totale
di 3,7 milioni di euro, Galli ha detto che non significava niente e che mica è
detto che questi soldi verranno dati a chi ha svolto il servizio. Era già
successo in precedenza. L’ardita tesi di Galli è la seguente: l’atto
amministrativo con cui l’ente locale si impegna ad onorare una determinata
spesa non significa che poi quei soldi verranno spesi sul serio. Quindi nessun
documento approvato dalla giunta o dal consiglio (gli unici a cui i comuni
cittadini possono accedere) ha alcun valore. Lui può, in qualunque momento,
decidere di bloccare l’erogazione delle risorse (in barba alla competenza e responsabilità
dei dirigenti). Un delirio di onnipotenza sconcertante e preoccupante, ma anche
una manifesta propensione a mentire. Se Galli stesso, infatti, dichiara non
attendibili gli atti da lui stesso sottoscritti, ammette implicitamente di
essere un bugiardo. Il problema è che, ormai, l’hanno capito tutti. E, a parte
chi pensa di trarne un beneficio personale, non credo saranno in molti a
rinnovargli la fiducia alle prossime elezioni. Ma l’attaccamento alla poltrona
è troppo forte per ammettere la disfatta politica e Galli cerca di vivere, anzi
di vivacchiare, o meglio sopravvivere, alla giornata. Approvando alla bell’e
meglio gli atti di cui proprio non può fare a meno e limitandosi al rispetto minimo sindacale delle regole
democratiche. Questa volta si è trattato degli equilibri di bilancio, che vista
la precarietà, andrebbero denominati equilibrismi.
29 dicembre 2012
26 dicembre 2012
Il "pacco" di Natale
La strenna natalizia dei nostri
amministratori non è, come si potrebbe pensare, la seconda rata dell’IMU, ossia
il ripristino di un imposta sugli immobili voluto dal governo Monti per sanare
i conti pubblici e che Galli aveva promesso – in campagna elettorale – di
ridurre al minimo (e invece ha alzato quasi al massimo). Non è neppure la TARSU
che ci avevano promesso sarebbe stata ridotta e che è invece schizzata alle
stelle, probabilmente anche a causa del fallimento della raccolta porta a porta
(i cui dati sono rigorosamente top secret). No, la strenna natalizia è ancora peggio degli altri due "regali" dei nostri amministratori ed è ben
nascosta dietro un documento contabile denominato “verifica degli equilibri di
bilancio”, previsto dalla normativa vigente e che serve a monitorare lo stato
dei conti dell’amministrazione. La norma prevede che questa verifica debba
essere fatta almeno una volta all’anno (ma di più con amministratori come i
nostri non è neppure immaginabile) entro il 30 settembre. Quest’anno c’è stata
una proroga e il termine è slittato al 30 novembre. Con due mesi in più a
disposizione ci si sarebbe aspettato che i tempi venissero rispettati. Invece –
neanche a dirlo – i nostri ineffabili amministratori non sono riusciti
nell’arduo compito e si sono fatti richiamare dal prefetto che ha indicato un
nuovo termine per l’approvazione. Ovviamente è saltato anche quello e il nostro
comune (che, in teoria, potrebbe essere destinatario di un provvedimento di
scioglimento) si appresta a votare degli equilibri di bilancio che –
considerati i tempi – assomigliano molto ad un rendiconto.

La conseguenza (speculare) di
questa drastica riduzione di risorse disponibili si riverbera sugli investimenti.
Le famose opere pubbliche, il cui elenco viene tramandato di consiliatura in
consiliatura, rimangono così a svolgere una funzione ornamentale dei programmi
elettorali della maggioranza. I settori che pagano il prezzo più alto
all’assoluta mancanza di capacità programmatoria dei nostri amministratori sono
quelli delle infrastrutture e della gestione del territorio e dell’ambiente per
i quali risultano impegnati rispettivamente il 2,7 e l’8,8 per cento
dell’assestamento. Un altro fallimento.
Basterebbe questo per
classificare negativamente il bilancio e chi se ne assumerà la responsabilità
politica di fronte ai cittadini. Galli, invece, ci tiene a dimostrare che al
peggio non c’è mai fine e inserisce, finalmente, i primi dati ufficiali sulla
questione dei depuratori. Aveva fatto finta di niente nei due precedenti
documenti contabili, ma stavolta non è proprio riuscito ad ignorare la
questione. E così, ci ritroviamo la bellezza di 3,7 milioni di euro di
“gestione straordinaria”, per la quale si dovrà aprire una procedura di
riconoscimento di debiti fuori bilancio. Un buco enorme in un quadro
finanziario come quello di Labico. L’ordine di grandezza è lo stesso
dell’intero ammontare delle spese correnti.
Il vero problema è che a nessuno
degli amministratori viene in mente che il danno economico è stato causato da
probabili responsabilità (politiche, amministrative e penali) nella
programmazione, realizzazione, affidamento e gestione degli impianti di
depurazione. E che, in diritto, chi è causa di un danno ne deve sostenere gli
eventuali costi. Per i nostri amministratori, invece, è normale che un danno
causato da terzi venga ripagato dagli stessi cittadini che non solo non hanno
alcuna responsabilità, ma che stanno vivendo anche il disagio conseguente a
quel danno.
La “soluzione” individuata da
Alfredo Galli e dalla sua maggioranza è molto semplice. Si vende un pezzo di
patrimonio pubblico (probabilmente dei locali a Palazzo Giuliani, ma non si
preoccupa certo di spiegarlo) per circa 200mila euro, si spostano due tranche
del debito (per un totale di 624mila euro) nelle annualità successive (2013 e
2014) e, in appena cinque nebulosissime righe ci informano che – probabilmente
– intendono regalare opere e infrastrutture del servizio idrico ad ACEA per un
valore di 2,6 milioni di euro. E ACEA, che non è esattamente l'Opera Pia
Misericordiosa delle Carmelitane scalze, a chi andrà a bussare cassa per
recuperare il sostanzioso investimento? Alla porta di Alfredo Galli e Giorgio
Scaccia o alla porta di tutti i cittadini labicani con un bell’aumento di tutte
le tariffe idriche? E perché sul documento contabile si parola di un
“trasferimento in itinere” di beni pubblici senza che nessuno ne sia a
conoscenza?
Ma le anomalie non finiscono qui.
Dalla lettura della relazione sugli equilibri di bilancio sembra che il
riconoscimento dei debiti fuori bilancio avvenga in modo automatico per il loro
inserimento nel quadro contabile. In realtà – ed è la stessa relazione ad
evidenziarlo – il riconoscimento deve avvenire con deliberazione apposita,
contestuale a quella di verifica degli equilibri. Perché non è stata
predisposta la delibera “ad hoc”, come indicato dalla stessa relazione? Forse
perché mancano i requisiti che la legge stabilisce per il riconoscimento dei
debiti? Del resto la normativa in merito parla chiaro e indica un sentiero
piuttosto stretto per riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio. Già
in passato i nostri amministratori avevano fatto una forzatura inserendo come
debiti fuori bilancio spese causate dalla loro incapacità e che non avevano
portato – come stabilisce la legge – “utilità ed arricchimento per l’ente”.
Anche in questo caso ci sembra che vi sia ben poca utilità e gli unici ad
arricchirsi sono gli autotrasportatori.
Insomma, ancora una volta ci
arriverà il conto per i pasticci combinati da Galli e compagnia nell’allegra
gestione della pubblica amministrazione. Ancora una volta ci sono molte
criticità che potrebbero portare la magistratura contabile ad accertare gravi
responsabilità per danno erariale. E chi, giovedì 27 dicembre, voterà per la
scandalosa delibera che Galli e Scaccia proporranno in consiglio, si assumerà
una grossa responsabilità, politica e amministrativa. A cominciare dal punto
quattro della premessa della delibera, secondo il quale “nel corso
dell'esercizio si sono verificate delle esigenze straordinarie di spesa non
conoscibili o non definibili con precisione in sede di costruzione del bilancio
di previsione e dei suoi allegati”. Ebbene, quando è stato fatto il bilancio di
previsione sapevano anche i sassi che avremmo dovuto sostenere costi per almeno
2-3 milioni di euro (lo diceva la stessa relazione al bilancio, bastava
leggerla). Negare anche l’evidenza non solo è un insulto al buon senso, ma è
anche un vero e proprio falso. Tra l’altro in un atto pubblico. I consiglieri
di maggioranza che voteranno a favore di quella delibera condivideranno anche
quel punto. E non faranno certo una bella figura. Noi, più che metterli sull’avviso,
non possiamo fare. Ah, dimenticavano: Buon Natale.
Maurizio Spezzano e Tullio Berlenghi
19 dicembre 2012
Giunte a geometria variabile
E’ chiaro il motivo per il quale
il nostro sindaco, Alfredo Galli, è così ostile alla trasparenza e usa tutte le
armi, al limite del lecito, per rendere la vita difficile a chi cerca di capire
come funziona la macchina amministrativa. Magari – ad esempio – inventandosi le
scuse più miserabili per proibire la registrazione delle sedute del consiglio
comunale. Un po’ più complicato impedire la pubblicazione degli atti di giunta
e di consiglio, anche se – bisogna riconoscere – fa di tutto perché avvenga il
più tardi possibile e con atti che contengano il minimo indispensabile. Però,
anche con queste limitazioni, è sempre molto istruttivo dare un’occhiata al
nostro albo pretorio on line.


30 novembre 2012
Un giorno in pretura
La frequentazione dei tribunali è molto istruttiva.
L’ho scoperto solo di recente, da quando seguo la politica locale, ma sto
recuperando un po’ del tempo perduto. Per questo devo ringraziare Alfredo Galli e il suo
personalissimo modo di amministrare. Noto a tutti, ma che quasi nessuno ha mai
avuto il coraggio di contrastare seriamente. Io l’ho fatto e questo mi ha
portato a conoscere piuttosto bene la strada che separa Labico da Velletri,
sede del tribunale – penale e civile – competente per il nostro territorio.
Qualche giorno fa sono stato, in qualità di parte
civile, all’udienza del processo contro Alfredo Galli. Il reato contestato dal
pubblico ministero, che ne aveva chiesto il rinvio a giudizio, è “abuso
d’ufficio”. Una bazzecola. Un semplicissimo “reato contro la pubblica
amministrazione”. Si parla di indebita distrazione di fondi pubblici. Robetta.
Tra l’altro lui non è semplicemente indagato. E’ imputato. Per una cosa così,
neppure il suo partito di riferimento – il PDL, notoriamente un partito molto
“elastico” sulle vicende penali dei propri rappresentanti – potrebbe
candidarlo, a sentire le ultime dichiarazioni del segretario Alfano. Invece lui
non solo non ha fatto una piega, ma si è anche ricandidato come sindaco.
L’altro giorno, però, era particolarmente nervoso.
Dall’esame dei testimoni e degli imputati sono emerse diverse incongruenze sulla
vicenda.
Provo a ricostruire in modo sintetico i fatti. Nella
scorsa consiliatura l’opposizione scopre, complice una piccola ingenuità nella
redazione di una delibera, che da un paio d’anni l’amministrazione comunale
“regalava” l’erogazione di cinque pasti ad una struttura privata. Senza uno
straccio di atto amministrativo, senza alcunché ne dimostrasse l’interesse
pubblico. Abbiamo sollevato la questione e la risposta è stata volgare e
arrogante. Il succo era “comandiamo noi, punto”. Di fronte ad un simile
atteggiamento abbiamo chiesto tutti gli atti e li abbiamo trasmessi alla
magistratura, affidando a loro la valutazione sulla legittimità delle
procedure. Il pubblico ministero ha subito individuato delle palesi
irregolarità e ha avviato una serie di indagini, al termine delle quali il
sindaco è stato rinviato a giudizio. Solo ieri, dopo circa due anni, c’è stata
la prima udienza “interessante”. Sono stati ascoltati Scaccia, la responsabile
della struttura e Galli. Il sindaco ha smentito alcune affermazioni di Scaccia,
che ha sostanzialmente preso le distanze dalla procedura di assegnazione del
patrocinio, decisamente molto disinvolta. La beneficiaria del patrocinio ha
spiegato che, per ottenere l’erogazione dei pasti, è stato sufficiente un
incontro nell’ufficio del sindaco. Galli ha chiamato il responsabile
dell’ufficio e gli ha detto di fare avere cinque pasti al giorno alla
struttura. Non c’è stato bisogno di altro. Un po’ insolito, vero? Sono comunque
migliaia di euro di costi aggiuntivi per l’amministrazione comunale e Alfredo
Galli - che all’epoca avrà avuto “appena” 25 anni di esperienza come
amministratore tra consigliere, assessore, vicesindaco e sindaco – non si è
posto il problema di rispettare le procedure di legge, non sì è chiesto se
l’appalto prevedesse una simile possibilità, non ha pensato che, essendoci un
impegno di spesa, era necessario quantomeno un visto di regolarità da parte
dell’ufficio competente. Del resto, se non fosse stato per un’ingenuità, non se
ne sarebbe saputo nulla. E ci si chiede: in quante altre occasioni il sindaco
avrà disposto in modo così spigliato delle risorse pubbliche?
La strategia processuale viaggia su due binari: si
sta cercando, da un lato, di sminuire la gravità della vicenda, e, dall’altro, di
dimostrare la regolarità della procedura. E’ infatti comparso un documento,
privo di numero di protocollo, che dovrebbe rappresentare l’atto amministrativo
con cui il sindaco avrebbe dato le disposizioni necessarie. Per il resto buio
assoluto. Ci si basa solo su presunzioni indimostrabili. “Tutti sapevano”,
“Tutti erano stati informati”. Ma tutti chi? Non c’è un solo documento che
attesti la trasparenza di quanto avvenuto, anzi. I maldestri tentativi di
rabberciare la situazione hanno dato vita ad un sacco di contraddizioni. Ad
un’udienza hanno addirittura fatto pervenire una pagina del bilancio, dalla
quale si sarebbe dovuto desumere che l’iniziativa aveva finalità sociali (l’ho
fatto a fin di bene, è la tesi). Peccato che la pagina non dimostri alcunché e,
soprattutto, il capitolo citato non è quello da cui sono stati presi
effettivamente i soldi.
Per quale motivo un sindaco dovrebbe destinare
risorse pubbliche ad un’attività privata senza avere la certezza di un
vantaggio per la collettività? Che l’attività privata sia di interesse pubblico
non è in discussione, ma è anche vero che la finalità – legittima, per carità –
è comunque quella del guadagno. Anche il panettiere e la farmacia sono di
interesse pubblico. Se non ci fossero sarebbe un problema. Però nessuno
immagina che un sindaco possa decidere – ad esempio – di cedere loro un locale
del comune schioccando semplicemente le dita. E Galli sa bene che non poteva
farlo. E lo sapeva anche quando ha ostentato il proprio potere di fronte alla
giovane imprenditrice chiamando il funzionario e indicandogli quello che doveva
fare. Durante la difesa in aula Galli ha citato la legge Bassanini
sulla responsabilità dei funzionari. In pratica, è la tesi del sindaco, io non
ho deciso praticamente nulla. Ha fatto tutto il dirigente. Se c’è un errore,
l’ha fatto lui. Immaginiamo la situazione. Un potente sindaco intima ad un
funzionario di dare seguito ad una sua richiesta. Mancano i presupposti
giuridico-amministrativi. Lo sanno entrambi. Ma il sindaco ha appena fatto lo
“splendido” (come si dice a Roma) e il funzionario sa che il suo “status”
all’interno dell’amministrazione dipende da quel sindaco. Tra l’altro ci sono le
elezioni amministrative alle porte e questo tipo di azioni genera gratitudine e
la gratitudine si trasforma facilmente in consenso. Il funzionario avrebbe
dovuto dire: “Certo sindaco, appena approvate la delibera di giunta, faccio la
determina”. Ma, probabilmente, lo sguardo del sindaco non lascia spazio ad
esitazioni. Quella cosa va fatta e subito. Senza troppi appesantimenti
burocratici. In fondo ogni mese il comune paga migliaia di euro per i pasti. In
parte vengono recuperati con la vendita dei buoni pasto, ma la copertura dei
costi è sempre piuttosto bassa. Quanto vuoi che incidano su un capitolo di
spesa per il quale la previsione è sempre piuttosto incerta? Tanto vale
chiamare la ditta (non risulta, infatti, neppure anche un ordine scritto) e chiedere
di portare cinque pasti da un’altra parte. Non è previsto dall’appalto (e anche
qui si viola la legge) ma anche la ditta avrà avuto le sue buone ragioni per
non stare a fare troppe storie. L’irregolarità nasce tutta qui. Da questa
approssimazione mista a debolezza, connivenza o interessi. Certo, poi, anche se
parte un’indagine della magistratura, gli anni passano, i ricordi diventano
sbiaditi e le cose sembrano meno gravi. Poche migliaia di euro. In fondo è una
struttura che serve. Magari davvero si è abbassato il costo della retta per le
famiglie. Inoltre ci vanno di mezzo quelli che c’entrano poco o niente: il
privato (che non è tenuto a conoscere le procedure) o il funzionario (che è
comunque l’anello debole).
Non so come andrà a finire. Gli atti processuali
dimostrano – senza tema di smentita – che c’è qualcosa di piuttosto singolare
nella procedura. Intanto, non solo manca agli atti un documento che attesti la
richiesta di patrocinio. La risposta, in compenso, c’è. E’ un atto firmato dal
sindaco, datato settembre 2006, ma non protocollato. In sostanza – se il
documento è autentico, ma l’assenza del protocollo e l’evidente fretta con cui
è stato scritto giustificano eventuali dubbi – il sindaco concede il patrocinio
prima ancora di autorizzare l’attività, che avverrà solo due mesi dopo, a
novembre del 2006. Facciamo il confronto con la recente richiesta di sostegno
economico del gruppo donatori di sangue. La finalità è evidentemente più che
meritoria e senza alcun fine di lucro. La somma è decisamente modesta, appena
200 euro. Eppure è stata necessaria una richiesta scritta e regolarmente
protocollata a cui ha fatto seguito una delibera di giunta, provvista del visto
di regolarità contabile. Tutto questo per soli 200 euro. Mentre, per migliaia
di euro l’anno ad un’impresa privata sono bastati un colloquio nell’ufficio del
sindaco e un paio di telefonate. Tutto molto strano. Così come è strano che,
subito dopo la scoperta, si siano precipitati ad annullare l’erogazione dei
pasti, quasi a riconoscere l’errore. Ed è strano anche che, durante l’iter
processuale, l’amministrazione abbia deciso – con delibera di giunta - di
fornire la tutela legale (pagata quindi con i soldi pubblici) al proprio
dirigente. L’avvocato è lo stesso che, all’inizio, difendeva anche il sindaco.
Massima fiducia nella deontologia professionale degli avvocati, ma è un altro
segnale che non tranquillizza. Chi non può certo stare tranquillo è il
dirigente, a cui, a quanto pare, Galli sta cercando di scaricare ogni
responsabilità. Tra l’altro la delibera stabilisce che, in caso di condanna, le
spese legali non le sosterrebbe più l’amministrazione, ma il dipendente. Oltre
al danno, la beffa.
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26 novembre 2012
La solitudine dei numeri

Qualche volta, però, i numeri sono
dispettosi e condannano proprio chi li trasforma in oggetto di culto. Pensiamo,
ad esempio, alle recenti primarie. A Labico, per le primarie, si è spesa,
con grande impegno, una lista civica, attraverso i suoi più autorevoli
esponenti (consigliere comunale, segretari di sezione, candidati più votati) e
persino il vicesindaco – di altra lista, quindi – ha dato il proprio
contributo. Dalle dichiarazioni dei giorni precedenti il voto ci si sarebbe
aspettati una grandissima partecipazione e un sostanziale plebiscito per il
segretario del PD,
Pierluigi Bersani, sostenuto in modo unanime dalla nomenclatura
locale del partito (e non solo). Invece le cose sono andate diversamente. Rispetto
ai pochi, pochissimi, votanti, c’è stata una buona affermazione di Vendola (SEL) e un
ottimo risultato di Renzi, che non risulta essere stato appoggiato da nessuno a
livello locale.
Se dovessero contare “questi”
numeri, l’alleanza alla base della lista dovrebbe subire un sostanziale
cambiamento degli equilibri interni. Chissà, magari questa volta i numeri non
conteranno. Questa è una delle ragioni per cui talvolta la politica appare così poco
comprensibile. Per molti politici i numeri sono imprescindibili quando fanno
comodo, ma se, alla conta, si trovano in difficoltà, le valutazioni diventano altre. Alle brutte possono sempre
autoproclamarsi “vincitori morali”.
24 novembre 2012
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne l'associazione "Socialmente donna" di Labico ha organizzato tre giorni di iniziative. Questo è il mio contributo. Racconto la storia dell'ultima donna condannata a morte nel Regno Unito: Ruth Ellis.
Ruth
Ruth
Ellis e Albert Pierrepoint si incontrano il 13 luglio del 1955. Non è
esattamente un appuntamento galante, il loro. Ruth è una splendida donna. Ha 28
anni. E’ bionda e attraente. Ruth ha ucciso un uomo. E’ un assassina. Albert di
uomini (e di donne) ne ha uccisi molti di più… Però, tecnicamente – almeno sul
piano del diritto –, non è un assassino. Albert è un boia, lui uccide, sì, ma
per lavoro. E il suo lavoro, in quella tiepida mattina di luglio, si chiama
Ruth Ellis.

Albert
è un professionista scrupoloso. Figlio d’arte. Il padre, Henry, gli ha
insegnato molto presto il mestiere e lui ormai sa fare molto bene il suo
lavoro. Lo strumento usato per le esecuzioni nel civilissimo Regno Unito è la forca. I malviventi
vengono impiccati. E se la pena capitale è barbarie, l’impiccagione lo è un po’
di più. Il rischio è che l’esecuzione si trasformi in un’angosciante agonia.
Albert lo sa bene e ha studiato, come fa sempre, con cura la situazione. Ha
preso le misure di Ruth e ha preparato gli strumenti: il metro da sarto, una
corda di due metri e mezzo e un peso di 47 kg da legare ai piedi di Ruth. Il peso serve
a ridurre al minimo la sofferenza, ma non deve essere eccessivo per non
rischiare che la scena di morte diventi ancora più cruenta. I preparativi
producono l’effetto desiderato. Ruth ci mette appena 12 secondi a morire.
Certo, per la povera Ruth
quei 12 secondi saranno stati interminabili, ma meglio di così Albert proprio
non poteva fare. Poi, per un’ora, il corpo senza vita di Ruth rimane appeso al
patibolo. L’esecuzione pubblica e l’orrore supplementare dell’esposizione del
corpo trovano la loro giustificazione in una cultura giuridica che attribuisce
alla pena un’efficacia sotto il profilo della prevenzione (la vista di quel
corpo senza vita penzolante come monito al rispetto delle leggi).
Fermiamoci
un istante e torniamo indietro. Chi è Ruth?
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Certo,
è cresciuta in fretta, ma è difficile misurare le cose con il metro dei nostri
tempi. Ruth, ad esempio, ha iniziato a lavorare come cameriera a 14 anni. Nulla
di strano, all’epoca. Così come non è insolito che una ragazza rimanga incinta
a 17 anni, come capita a Ruth a seguito di un fugace incontro con un soldato
canadese, già sposato e che per circa un anno le manda qualche soldo per il
mantenimento del figlio, ma che fa perdere in fretta la proprie tracce.
Insomma
a 18 anni Ruth è già una ragazza madre e in qualche modo cerca di arrangiarsi.
Non ci mette molto a capire che la sua bellezza può permetterle compensi di
gran lunga più allettanti rispetto alla paga da cameriera. All’inizio le basta
mostrare il proprio corpo, sulle prime come modella di nudo, poi come entreneuse nei night club. Il passo
successivo non è difficile da immaginare. Probabilmente non è esattamente una
scelta “libera”. Inquadriamo il
contesto. Siamo in un locale dove gli avventori sono quasi esclusivamente
uomini e il “prodotto” offerto non è tanto il whisky scadente o la mediocre
orchestrina. Chi entra nel Court Club in Duke Street è interessato ad altro. E,
in quell’altro, c’è anche lei, Ruth, bellissima ventenne. Talmente bella che lo
stesso direttore del Court Club non se la lascia sfuggire e le fa capire un
paio di cose: che se vuole continuare a lavorare lì se lo deve meritare e che,
con un po’ di buona volontà, i suoi guadagni possono salire.
Ed è
così che Ruth, grazie alla sua buona volontà e a quella di uno dei clienti del
night club, si ritrova di nuovo incinta. E una gravidanza non è esattamente
gradita in un simile ambiente di “lavoro”, dove non sono certo previsti
l’astensione per maternità e i congedi per l’allattamento. Ancora una volta la
sua scelta è “condizionata” e abortisce (tra l’altro commettendo un reato). Deve
tornare a “lavorare” prima possibile.
Nel 1950, a 24 anni, si sposa con
un uomo decisamente grande di lei, George Ellis. 41 anni, dentista, divorziato
con due figli, George non sembra esattamente un marito modello. Chi lo conosce
lo descrive come un uomo dedito all’alcol, violento, geloso e possessivo.
Inutile dire che il matrimonio non durerà molto. George rifiuterà persino di
riconoscere la figlia, frutto della loro unione. L’unica cosa che le lascia è
il cognome: Ellis.
Nel
1953 Ruth migliora la sua posizione. Adesso è lei a gestire un nightclub. E’ un
periodo “buono”. Ha molti ammiratori, spesso celebri e generosi, tra cui Mike
Hawthorn, un pilota di Formula Uno, appena entrato a far parte dell’illustre
scuderia italiana, la Ferrari, con la quale vincerà anche un mondiale. Sarà lui
a presentarle David Blakely.
David
Blakely è un bel ragazzo, benestante e di buone maniere (almeno finché è
sobrio). Correre in pista probabilmente per lui è semplicemente il passatempo
del rampollo dell’alta società inglese. Nel complesso è quello che si può
definire un “bravo ragazzo”, forse un po’ viziato. Il suo unico difetto è che
ama bere.
Tra
i due nasce subito una forte attrazione e dopo poche settimane dal loro primo
incontro David diventa un ospite fisso dell’appartamento di cui Ruth dispone sopra
al club.
Ruth
rimane incinta per la quarta volta, ma decide di abortire. Teme di non essere
in grado di ricambiare il sentimento dimostrato da David nei suoi confronti.
Nel frattempo nasce una relazione con Desmond Cussen, un ex pilota della RAF.
Sarà lui ad ospitarla quando il Club le darà il benservito.
Ruth
e il figlio vivono con Desmond come se fossero una vera famiglia. Desmond si
occupa molto del bambino. Ruth, nel frattempo, continua a vedersi con David, in
una relazione che diventa sempre più conflittuale, morbosa e violenta. A un
certo punto David le propone di sposarla e lei, all’inizio, accetta. Al
matrimonio, però, non arriveranno. Durante uno dei frequenti litigi David la
colpisce violentemente al ventre con un pugno. Ruth di botte ne ha prese tante
in vita sua. Non è stata molto fortunata con gli uomini e un po’, alla
violenza, ci si è abituata. Stavolta è diverso. Forse perché quella notte Ruth
si sveglia in un lago di sangue. Quel cazzotto le causa il suo terzo aborto. Con
quel cazzotto, probabilmente, in Ruth si spezza anche qualcos’altro.
E’
chiaro che tra Ruth e David non ci sono prospettive, non c’è un futuro. David
ormai sembra non volerne più sapere di lei. Ruth è una donna innamorata e
ferita. Si sente umiliata e abbandonata. Il 10 aprile del 1955 è domenica. E’
la domenica di Pasqua. Ruth va a cercare David. Lo fa con una pistola in tasca.
Una Smith & Wesson calibro 38, modello Victory. Un arnese di un chilo. A
tamburo, di quelle che non si inceppano. Roba in dotazione ai militari e alla
polizia. Chi ha dato la pistola a Ruth? Non è la sua, ma nessuno si preoccupa
di come se la sia procurata. Lo aspetta vicino alla sua automobile e, quando lo
vede arrivare, lo chiama per nome. Lui le passa davanti senza neppure degnarla
di uno sguardo. Il bivio che separa i possibili destini non è sempre facile da
riconoscere. E non sapremo mai se sia stata quell’ostentata indifferenza a far
calare, anche se solo per pochi istanti, il buio nella mente di Ruth. A farle
abbandonare ogni logica, ogni riflessione, ogni scrupolo (anche per il futuro
dei suoi figli) e a farle premere il grilletto. Una prima volta, andata a
vuoto, e poi, una seconda, una terza, una quarta. Fino all’ultima, quando ormai
David è a terra. Avvicina la pistola al suo corpo e spara ancora.
Le
indagini della polizia sono decisamente agevoli e rapide. Ruth non nega mai
alcuna responsabilità, né cerca di assecondare le strategie difensive che il
suo legale le propone, per esempio sconsigliandole un abbigliamento troppo
“vistoso”. Affronta il processo a testa alta e forse qualcuno della giuria interpreta
come arrogante il suo atteggiamento.
Quando
il pubblico ministero le chiede perché abbia sparato a David, lei risponde
candidamente: “E’ ovvio, per ucciderlo”. Non c’è bisogno di molto altro per
chiudere velocemente il processo. Nessuno pensa di farsi (e di fare) troppe
domande. Nessuno, ad esempio, chiede come mai Ruth avesse una pistola. L’arma
le è stata data da Desmond, che l’ha persino accompagnata sul luogo del
delitto. Un comportamento quantomeno irresponsabile. La donna era sicuramente
agitata e nessuno, con un briciolo di buonsenso, avrebbe dovuto darle un’arma
carica e accompagnarla dall’uomo verso il quale Ruth prova collera e rancore,
ma che era convinta di amare. Lo scrive anche nell’ultima lettera che manda ai
genitori di David: “Ho sempre amato vostro figlio, e morirò continuando ad
amarlo”. Non cerca perdono, non chiede commiserazione.
Tutto
questo non è stato minimamente considerato. Del resto, lo scenario è l’ideale
per una condanna esemplare. Lui, la vittima, un “bravo ragazzo” colpevole solamente
di essersi infatuato di “quel” tipo di donna. Lei, l’assassina, bella e algida
seduttrice, che non ha sopportato l’idea che lui si sia stancato di lei. Il
dramma perfetto. Infatti, la giuria ci mette appena 14 minuti a stabilire, non
la colpevolezza di Ruth, che non è in discussione, ma che Ruth meriti di essere
impiccata. Non c’è bisogno di aprire un dibattito sulla pena capitale, sulla
sua efficacia in termini preventivi e sulla sua giustizia in termini
retributivi (la punizione per quanto commesso). Bisogna solo farsi una semplice
domanda. A parti invertite, se David, il bravo ragazzo accecato dalla gelosia,
avesse ucciso Ruth, la donna dai facili costumi, sarebbero bastati 14 minuti
per emanare una sentenza di morte?
13 novembre 2012
La colpa di andare in bicicletta
C’è una frase che mi riecheggia
in testa continuamente. “Eh, però, questi ciclisti che stanno in mezzo alla
strada…”. Fa il paio con “Sì, sì, ma andava in giro con certe minigonne”.
Affermazioni che, più o meno inconsciamente, portano a giustificare e deresponsabilizzare
chi commette reati gravissimi. Una ragazza di 17 anni è morta nei giorni
scorsi, uccisa da un SUV che è piombato su un gruppo di scout in bicicletta. Il
SUV, a quanto sembra, andava velocissimo. Ci ha messo 300 metri a fermare la
sua folle corsa, trascinando la ragazza per 200 metri . Probabilmente
non era un extracomunitario, altrimenti l’avrebbero messo nel titolo e questo
ci avrebbe sollevati tutti. Certo, il solito rumeno. Per fortuna era risultato
positivo al testo alcolemico. Questo ci tranquillizza un po’. Beh, era ubriaco
fradicio. L’ultimo appiglio per salvare il nostro modello mentale sarebbe
stato, appunto, “questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Perché
questo? Perché la nostra cultura della sicurezza stradale si basa su un assioma
– tutto da dimostrare e sulla cui genesi preferisco non pronunciarmi – che
considera il mezzo motorizzato il padrone indiscusso della rete viaria. Fatti
salvi alcuni distinguo, e anche qualche rivalità, tra le varie tipologie (auto,
moto, camion), la strada appartiene ai “potenti” - nella doppia accezione, in
cavalli e in (presunto) peso sociale – e gli altri – in primis ciclisti e
pedoni - sono ospiti appena tollerati, se non proprio indesiderati.
Da questa visione distorta nasce
la convinzione, nell’automobilista medio, che il ciclista sulla strada sia un
fastidioso ostacolo alla propria legittima esigenza di mobilità. L’automobile
ha sempre la precedenza, anche se la sto usando per andare all’outlet e il
ciclista sta andando al lavoro. Chi va in bici dovrebbe farsi da parte, non
essere d’intralcio. Non ci si aspetta che lo faccia un camion o un’automobile
che va più piano di noi. Un ciclista, sì. Lui dà fastidio. E se sono un gruppo,
levati cielo, diventa un attentato alla Costituzione. Va tutto bene.
L’automobilista che lascia l’auto in doppia fila. Il corteo nuziale lento e
strombazzante lungo le vie della città. Il raduno di moto o auto d’epoca
rombante e allegro che blocca il traffico. Tutto, tranne i ciclisti. Loro non
hanno diritto di cittadinanza e, se proprio vogliono andare per strada, non
devono dare fastidio. Lo stesso codice della strada che per gli automobilisti è
a malapena un compendio di suggerimenti, consigli e linee di indirizzo, diventa
una norma cogente ed inderogabile per i ciclisti, che devono attenersi
scrupolosamente ad ogni singolo comma del codice, la cui interpretazione
diventa particolarmente rigorosa. Ed è così che il ciclista dovrebbe stare sul
margine destro della carreggiata, preferibilmente a destra della linea bianca,
senza tenere conto della pericolosità di una simile condotta per un veicolo a
due ruote, considerando il non impeccabile stato dell’asfalto delle nostre
strade.
Questa “cultura” autocentrica è
il terreno fertile per i comportamenti più sconsiderati e pericolosi. La sola
presenza del ciclista sulla strada è già una sua “colpa” ed una mia
deresponsabilizzazione per l’eventuale azzardo del mio sorpasso. Quanti
automobilisti non si preoccupano se lasciano pochi centimetri tra loro e il
ciclista quando lo superano? Loro non corrono alcun pericolo ben protetti
all’interno del proprio confortevole SUV. Quei pochi centimetri per il ciclista
possono determinare la perdita dell’equilibrio con conseguenze anche gravi. “Ma
stava in mezzo alla strada”. E probabilmente non era “in mezzo” era “sulla”
strada, magari anche in prossimità del margine destro (come prevede il codice).
Però, nella nostra testa, un ciclista sulla strada è sempre in mezzo. E se poi
fosse davvero in mezzo questo legittima il rischio di ucciderlo?
Ed è esattamente quello che ha
fatto il guidatore del SUV a Casalmaiocco. Non un delinquente, non un
extracomunitario. Sarà magari un libero professionista, che se ne andava a
spasso in una giornata festiva. Anche se ubriaco, non può non aver visto il gruppo
di ciclisti. Stava tranquillamente oltre i limiti di velocità (ma questo, come
automobilisti, lo consideriamo sempre un comportamento legittimo, sono i limiti
ad essere troppo bassi) e non aveva intenzione di rallentare. Erano i ciclisti
in torto. E lui ha deliberatamente deciso di mettere a repentaglio la loro vita
per non rinunciare al proprio diritto di andare alla velocità giudicata più
consona alle sue esigenze. Non è una semplice colpa. E’ una responsabilità più
grave. C’è il dolo, anche se solo eventuale. E’ evidente che non c’era la
volontà di uccidere, ma non poteva mancare la piena consapevolezza del rischio
di farlo. Vale il principio giuridico della sentenza di condanna – per omicidio
volontario con dolo eventuale - dell’amministratore della ThyssenKrupp per il
rogo in cui erano morti alcuni operai. Nessuno pensa che l’amministratore
volesse la morte degli operai. Il senso della sentenza è che chi ha deciso di
non installare i sistemi di sicurezza abbia accettato di mettere a repentaglio
la sicurezza delle persone, subordinato consapevolmente un determinato bene (la
vita umana) a un altro (probabilmente il risparmio per l’azienda). Nel caso del
nostro SUV il bene subordinato è sempre la vita umana, quello prevalente è
portare piuttosto in fretta la sua inutile testa... vuota da qualche parte.
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9 novembre 2012
Diffamazione: difendere un principio o una categoria?

Mi dicono che sulla bacheca del presidente dell'ordine dei giornalisti è apparso un appello per raccogliere dati sulle querele e citazioni in giudizio per diffamazione.
Ho deciso di mandargli questa mail.
Gent.mo Enzo Iacopino,
Su internet gira un suo appello
per raccogliere dati di querele/citazioni per diffamazione. Mi piacerebbe
rispondere alla sua richiesta. Nei miei confronti è stata annunciata, a mezzo
stampa, una querela (peraltro mai vista) e sono stato citato in giudizio per
una richiesta di risarcimento danni. E’ successo per aver scritto un articolo
su un foglio di informazione locale (tra l’altro denunciato per “stampa clandestina”) in merito al rilascio di un permesso di costruire, sulla cui
legittimità avevo espresso alcune perplessità. La controparte è il potentissimo
sindaco di un piccolo comune e ha pensato bene di chiedermi 50mila euro. Impensabile
fare politica a livello locale con simili “minacce”. Temo, però, che il mio
caso possa non interessarle. Non ho scritto su una testata giornalistica (del
resto non è facile trovare giornali registrati che si occupano di alcune
questioni locali) e non sono un giornalista. Quindi, la sacrosanta battaglia
per la difesa di alcuni principi potrebbe, paradossalmente, diventare
classista. Anzi - se dovesse passare il meccanismo che tutela i giornalisti
professionisti escludendo per loro l’ipotesi di pene detentive, ma solo
sanzioni pecuniarie - le “classi” diventerebbero tre. Al livello più basso i
semplici cittadini, magari impegnati in difficili lotte su temi ambientali,
sociali, culturali e per i diritti, che sarebbero privi di ogni forma di
tutela. Poi ci sarebbero i giornalisti “sfigati”, quelli che scrivono per
piccole testate oppure portano avanti faticosamente giornali locali di
approfondimento e inchiesta. Senza sponsor e senza finanziatori. Loro non
potrebbero certo permettersi contenziosi legali e risarcimenti milionari e
sarebbero costretti ad una certa cautela. Infine ci sarebbero i giornalisti
alla Sallusti (mi perdoni la semplificazione antonomastica). Con le spalle
coperte da ricchi editori, non avrebbero problemi a portare avanti campagne realmente
denigratorie. Qualcuno disposto a pagare il “disturbo” lo troverebbero
sicuramente. Mi piacerebbe che la vostra battaglia – che condivido e appoggio a
prescindere – fosse a tutto tondo per la difesa dell’articolo 21 della
Costituzione. Se desidera, le mando i miei “dati” per la sua indagine.
Altrimenti, grazie comunque per l’attenzione.
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8 novembre 2012
Evviva i beni comuni
La comunicazione – non solo
politica – spesso funziona bene quando è caratterizzata dalla semplicità. I
messaggi diretti arrivano più facilmente. Per fare messaggi semplici servono
poche parole. E le parole che suscitano sensazioni positive sono un numero limitato.
Di conseguenza non è infrequente vedere le stesse identiche parole negli slogan
e addirittura nei nomi delle forze e dei movimenti politici, anche molto
diversi tra loro. La parola “libertà”, ad esempio, è nel nome del partito che
fino a pochi mesi fa era il principale attore politico (Popolo della libertà),
sia nel nome di uno dei suoi più determinati antagonisti (Sinistra, ecologia e
libertà). O le parole “alleanza” e “democrazia” (e derivati) che troviamo sia a
destra che a sinistra. E anche gli slogan spesso sono davvero molto simili ed è
veramente difficile pensare di poter decidere in base a questi pochi (e vaghi)
elementi. Ovviamente bisogna seguire la sensibilità del momento ed è per questo
che, da poco tempo, hanno fatto il loro ingresso nel vocabolario della politica
due parole del tutto assenti fino a qualche anno fa: “bene comune” (o “beni
comuni”). Un certo movimento culturale e di opinione è riuscito, lavorando con
fatica ed in controtendenza rispetto alla crescente legittimazione delle
politiche predatorie, ad affermare l’importanza della tutela e valorizzazione
di tutto ciò che ha un incommensurabile valore per la collettività e che,
pertanto, non può e non deve essere danneggiato, alienato, privatizzato o,
semplicemente, dissipato. Con la battaglia per l’acqua pubblica c’è stato un
momento di grande crescita di questa consapevolezza e la vittoria al referendum
ha convinto molte forze politiche ad “inseguire” il trend. Non per convinzione,
ma per opportunità. E il modo più immediato è quello del ritocco estetico. Così
i “beni comuni” sono entrati prepotentemente nel lessico della politica. Da
perfetti sconosciuti a protagonisti della scena. Chi non è riuscito a infilarli
nella ragione sociale ha dedicato loro almeno uno slogan. Uno slogan semplice, diretto, efficace.
Quanto innocuo. Perché chiunque può dire: “Viva i beni comuni”. Persino Berlusconi,
notoriamente ostile a tutto ciò che non è suo e di cui non si può appropriare.
Infatti, dopo lo slogan, si annida sempre, perniciosa e preoccupante, la
postilla, la specificazione, la precisazione. Spesso sottaciuta. E così gli autentici beni comuni:
l’acqua pubblica, il territorio, l’ambiente, la salute, la cultura, passano, di
fatto, in secondo piano rispetto alle reali (e inespresse) priorità. Il “bene comune” diventa il classico
specchietto per le allodole, il variopinto imballo per indurre il consumatore disattento
a comprare un prodotto. Attratto più dai colori della confezione che dalla
qualità del contenuto. Memo per le prossime elezioni: leggere con attenzione
gli ingredienti prima di scegliere il prodotto.
31 ottobre 2012
Due o tre cose su Di Pietro e Travaglio
Quando
leggo i giornali cerco sempre di non perdermi gli articoli dei giornalisti che
stimo e dei quali so che, con molta probabilità, condividerò l’opinione e
l’analisi. Faccio un paio di nomi: Michele Serra e Marco Travaglio. Sono due
straordinari giornalisti. Spesso mi capita, soprattutto con l’amaca di Serra,
di leggere esattamente il mio pensiero, scritto – decisamente meglio – da
qualcun altro. In questi casi mi sento combattuto tra il piacere di questa
“sintonia” e il timore di perdere (o aver perso) la mia autonomia di pensiero.
E’ Serra che la pensa come me o sono talmente influenzabile dal fare mie le sue
opinioni? Quando capita, quindi, di non trovarmi d’accordo mi sento sollevato.
Ah. Meno male. La mia indipendenza è salva. A salvare il mio ego oggi è stato
l’editoriale di Travaglio sulla vicenda Di Pietro. L’analisi di Travaglio mi è
sembrata un po’ debole, nonostante la sua proverbiale bravura nell’usare la
penna, ed influenzata da una sorta di pregiudizio positivo nei confronti di Di
Pietro.
La tesi di Travaglio sta prevalentemente nel circoscrivere gli
episodi in cui è coinvolto Di Pietro al solo ambito giuridico, evitando, o
quasi, di dare un giudizio etico o politico a comportamenti di per se
discutibili proprio sotto questo aspetto. Spero che finisca presto questa
situazione in cui il principale discrimine di valutazione “politica” è il
codice penale, archiviando come marginale tutto ciò che non abbia rilevanza
penale. Non può e non deve essere così. Un elettore dell’Italia dei Valori –
come di molti altri partiti, a parte Forza Italia – si aspetta qualcosa di più,
spero, del semplice rispetto delle leggi. Perché anche aggirare le leggi è
lecito e, in caso di indagini, la magistratura sarà costretta ad archiviare.
Faccio un esempio molto pratico. Il finanziamento pubblico dei
partiti, nel momento in cui viene erogato ed entra nella disponibilità delle
forze politiche, diventa soggetto a norme di tipo privatistico e sarà il partito
a decidere come spendere quei soldi. Se, per ipotesi, la Lega Nord decide di
pagare macchina e autista al figlio del segretario del partito, non è che ci si
possa fare molto. Se sta bene alla dirigenza, agli iscritti e agli elettori che
con i soldi pubblici si scarrozzi il pupo del capo, nulla da eccepire. Almeno
sul piano giuridico. Lo stesso discorso vale per alcune delle operazioni fatte
da Di Pietro. Le quali, come ha evidenziato Travaglio, sono probabilmente tutte
legittime, ma rimangono decisamente discutibili – almeno dal mio punto di vista
- sul piano dell’opportunità. E il giustificazionismo di Travaglio proprio mi
sfugge. Proprio lui che, per dare forza ai numeri mette sullo stesso piano
indagati, imputati e condannati. A prescindere dal reato, come se si potesse
considerare allo stesso modo un condannato in via definitiva per mafia e, ad
esempio, il sottoscritto che è stato sottoposto ad indagine per “stampa
clandestina”e per “diffamazione”. In
questo caso invece si tiene conto solo dell’esito di alcuni procedimenti penali
che hanno visto imputato Antonio Di Pietro. E dai quali è uscito candido come
la neve. Perfetto. Sono contento per lui.
Anche sulla questione della donazione Di Pietro ha scelto – legittimamente – di
intascarsi i soldi (del resto non aveva un partito a cui darli). Lo stolto è
stato Romano Prodi che, pur non avendo un partito, ha girato le risorse alla
coalizione che poi l’avrebbe sostenuto (Prodi si è candidato nel 1996, un anno
dopo la donazione). Così come non c’è nulla di illecito nel far gestire tutte
le risorse del partito ad una triade composta da marito, moglie e l’amica di
famiglia. Proprio nulla. Anzi, in questo modo si circonda di persone di
assoluta fiducia. Del resto è vero che quando ha provato a riporre fiducia in
altri è andato incontro a molte delusioni. Penso a De Gregorio, Scilipoti,
Maruccio, Razzi. La differenza tra me e Travaglio sta tutta qui. Per lui l’unico
peccato, veniale, di Di Pietro sono state queste scelte e, forse, la poca
trasparenza. Per me un partito incapace di scegliere la propria classe politica
e privo – in sostanza – di una vera democrazia interna, non è esattamente l'ideale. Sarò choosy, ma sono convinto che si possa fare di meglio.
30 ottobre 2012
E' arrivato l'uomo nero
L’uomo nero. Non
credo sia mai capitato, nella pur breve storia repubblicana, un processo di
demonizzazione così feroce nei confronti di un interlocutore politico “nuovo”.
Almeno negli ultimi vent’anni ne ho visti nascere tanti. Quasi sempre sono
stati accolti con una certa preoccupazione. Spesso sono stati derisi e
ostacolati. Ma mai, proprio mai, ho visto una serrata così compatta e unanime,
da destra a sinistra, come nei confronti di Grillo e del Movimento Cinque
Stelle. Al quale non si sconta nulla di ciò che invece – e in modi e misure di
gran lunga peggiori – è stato facilmente perdonato ad altri. E’ un enorme
segnale di debolezza. Certo, Grillo fa molta demagogia. Ma chi non l’ha mai
fatto prima di lui? E’ una delle armi “facili” di chi non ha – ancora, almeno –
in mano le leve del potere. E’ indubbiamente più facile criticare quando non si
hanno responsabilità. E lo hanno fatto tutti. A cominciare da Berlusconi, il
quale, pur avendo tratto enormi benefici personali dalla degenerazione del
sistema partitocratico degli anni ’80, si è accreditato come il castigatore dei
partiti, la società civile che “scende in campo” contro i professionisti della
politica. E quanti di coloro che adesso stigmatizzano il populismo di Grillo
sono saltati lesti sul carro del sogno berlusconiano per elemosinare poltrone,
incarichi e potere.
Quanti partiti
sono nati come alternativi al sistema e portatori di un cambiamento? Più o meno
tutti hanno avuto credito e attenzione, almeno in un lato dello schieramento,
come possibili partner di alleanze elettorali. Perché Berlusconi sì? Perché la
Lega sì? Perché l’Italia dei Valori sì? Forse perché in tutti loro si è visto
un interlocutore possibile. Qualcuno con cui, alla fine, si parla lo stesso
linguaggio e si trova una possibile intesa.
Grillo e il
Movimento Cinque Stelle no. Loro preoccupano, spaventano, intimoriscono. Ho
sentito proprio queste parole: “Grillo mi fa paura”. Perché? Non si sa. Magari
si condivide in parte quello che dice, ma no, lui non va bene. Troppo
“estremista”. Il linguaggio, ad esempio. Il linguaggio cialtrone, offensivo e
razzista della lega è stato tollerato. Quello di Grillo, no. Dov’è la
differenza? La differenza – per il momento – è che la Lega, una volta arrivata
alle poltrone, è subito diventata più malleabile. Si teme forse che Grillo
potrebbe non essere sufficientemente “ragionevole”? E’ questo il problema?
Trovo poco
“politico” questo atteggiamento di chiusura preventiva. Un conto è una forza
politica dichiaratamente antidemocratica - penso ai vari gruppi di simpatie
neonaziste, con le quali, peraltro, da alcuni il dialogo è stato trovato senza troppi
problemi - un conto è una forza politica che ha semplicemente delle proposte ed
un consenso. Rifiutare il confronto e il dialogo palesa solo un’ingiustificabile
immaturità politica, un’insensata paura della “diversità”.
Faccio una
precisazione. Non faccio parte del Movimento Cinque Stelle. Ne ho seguito la
storia fin dalla sua nascita, con rispetto e con simpatia. Ho apprezzato alcune
scelte (soprattutto sui temi ambientali). Ne ho giudicate altre un po’
superficiali e finalizzate alla sola ricerca del facile consenso. Altre le ho
considerate difficilmente compatibili con la mia formazione culturale e
politica. Ho il timore che le decisioni si basino troppo sul pensiero del suo
leader indiscusso e che questa democrazia assoluta in realtà nasconda un
meccanismo verticistico, nel quale gli aderenti hanno ben poco potere di
incidere sulle scelte “reali” del partito. Poi mi sembra manchi una visione di
insieme e che qualche volta la linea politica segua più gli umori del suo
leader che una attenta e ponderata valutazione delle problematiche da
affrontare (un po’ come le note esternazioni di Berlusconi, capace di cambiare
idea dal mattino alla sera e di ricambiarla al mattino successivo, con tutto il
codazzo dei miracolati sempre pronto a sostenerlo in queste sue acrobazie della
logica e del buonsenso). Questo non basta, a mio avviso, ad avere una
preclusione pregiudiziale nei confronti del Movimento Cinque Stelle, la cui
“ragione sociale” è meritoria e apprezzabile. In parte è la stessa di Italia
dei Valori, che però ha miseramente fallito la sua mission e ha perso ogni residua credibilità. Non bisogna averne
paura, ma confrontarsi. E anche loro, ancorché “zitelle acide” (la definizione
è la loro) farebbero bene a cercare sempre il dialogo, che è il sale della
politica. E loro sono “politica” (l’antipolitica non esiste) nell’accezione
piena (e mi auguro positiva) del termine. Sono chiamati ad un ruolo importante
e di grande responsabilità. Spero sinceramente che non deludano la fiducia e la
speranza guadagnate e che facciano quello che i cittadini si aspettano dai
propri eletti: mettersi al servizio del paese. Possibilmente senza salire su un
piedistallo. E magari senza insultare
tutti quelli che hanno la sola colpa di avere iniziato ad occuparsi di politica
prima di loro. Scopriranno, magari con un pizzico di stupore, che c’è qualche
brava persona anche lì. Anche se eletti con un altro simbolo. Non serve, in
questo momento, ostentare complessi di superiorità. Adesso serve la volontà e,
soprattutto, la capacità di mettere in pratica quella buona politica che in
tanti hanno predicato prima di loro e che mai – salvo rare eccezioni – sono
stati capaci di attuare concretamente. Ai “grillini” l’onere della prova. Adesso a
Pavia e in Sicilia, tra poco nel Lazio, in Lombardia e nel Parlamento italiano.
Spero sinceramente in un miglioramento. Per il momento, buona fortuna.
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26 ottobre 2012
Salviamo palazzo Giuliani
La voce circolava da tempo.
Qualche esponente della maggioranza l’aveva già ipotizzato: di fronte allo
sconquasso dei conti, l’unica è vendere – almeno in parte – il proprio
patrimonio. L’immagine non è confortante. La sensazione è quella di vedere un
casato nobiliare in declino, che per sopravvivere è costretto a vendere
l’antico palazzo di famiglia, quello sul cui frontone è scolpito lo scudo
araldico. Uno dei luoghi simbolo della storia di Labico è Palazzo Giuliani e,
probabilmente, sarà lui ad essere sacrificato. In diritto, quando si vuole
attribuire ponderatezza e responsabilità a chi amministra un bene che non gli
appartiene (ed è il caso degli amministratori pubblici) si usa la locuzione
“diligenza del buon padre di famiglia”, ad intendere che il rispetto e la cura
nei confronti della res publica
devono essere i medesimi che avrebbe appunto il “buon padre” nei confronti
delle proprietà di famiglia. E’ suo preciso interesse, come persona e come
genitore, garantire che quei beni siano utilizzati correttamente e in modo da
preservarne il più possibile valore e funzionalità. E la decisione di alienare
uno dei beni di famiglia ha senso quando quel bene non serve e il ricavato può
servire ad acquistare qualcosa di utile oppure quella vendita serve a risolvere
problemi importanti, ma con la consapevolezza che per la famiglia sarà un danno
e le future generazioni saranno private per sempre di quel bene. Ma se per un
padre le “future generazioni” altro non sono che i figli e i nipoti, per un
amministratore con pochi scrupoli le future generazioni sono un concetto
astratto, che tra l’altro neanche vota, e quindi non si preoccupa certo di
tutelarle. D’altronde, un amministratore coscienzioso non ci avrebbe portati
nell’incredibile situazione in cui ci troviamo, con i conti pubblici allo
sfascio e il sindaco che ha il coraggio di affermare che “in questo bilancio i
cittadini non pagheranno in più per il problema del depuratore”, smentendo il
fatto che proprio il documento di bilancio approvato annuncia – pur con estrema
vaghezza – un costo che si aggira tra i due e i tre milioni di euro. E se non
saranno – non tutti almeno – contabilizzati nel 2012 questo non significa che i
cittadini non saranno chiamati a pagare. Che poi Galli si lamenti dei continui
tagli degli ultimi Governi – peraltro da lui sostenuti – non cambia di una
virgola il problema ed è meglio ricordarlo. La magistratura ha riscontrato il
malfunzionamento dei due impianti di depurazione e ne ha disposto il sequestro.
Chi ha la responsabilità di un’infrastruttura fognaria e di depurazione che non
funzionano? Perché Galli e compagnia cantante continuano a parlare
dell’emergenza depuratori come se a Labico si fosse abbattuto un meteorite?
Sono talmente tante le anomalie in tutta la vicenda – e noi le abbiamo evidenziate
in modo molto circostanziato – da non potersene lavare le mani con tanta
disinvoltura.
Ad aggravare la situazione c’è, ad adiuvandum, un’inveterata incapacità
di amministrare la cosa pubblica e gli sprechi a Labico non si contano.
Pensiamo al fallimento della raccolta differenziata, che non sembra aver
prodotto alcun vantaggio in termini di quantità di rifiuti conferiti in
discarica, ma il cui costo è aumentato (dal 2008 ad oggi) del 60 per cento.
Pensiamo alle cosiddette opere pubbliche, che a Labico sono una continua
emorragia di denaro pubblico, dalla finta ciclabile da 200mila euro (ma in
bilancio ce ne sono altri 700mila) all’operazione Eiffel per la quale stiamo
pagando le rate di un mutuo per avere acquistato della ferraglia di cui il comune
non ha neppure il possesso. Pensiamo ai soldi buttati per il progetto ASI, che
per fortuna siamo riusciti a fermare, e a quelli per i vari sportelli dai quali
non si è mai avuto alcun beneficio per la collettività. Potrei
andare avanti per pagine, ma non è il caso di sparare sulla croce rossa. La
questione è un’altra, siamo in mano ad una classe politica che gestisce la cosa
pubblica – nella sua complessità, dalle risorse economiche al territorio alle
infrastrutture ai beni immobili – con una sciatteria sconfortante. Molto è
lasciato al degrado e all’abbandono, proprio perché manca quella “diligenza del
buon padre di famiglia” che chiunque abbia in affidamento un bene che non gli
appartiene sarebbe in grado di usare. A chi amministra Labico manca del tutto
questa sensibilità. E non hanno avuto alcuno scrupolo ad inserire, nel bilancio
triennale, qualcosa come un milione e 348mila euro di entrate derivanti da
alienazione di beni patrimoniali. Ovviamente senza uno straccio di indicazione
su cosa vogliono vendere, su che stima sia stata fatta e da chi. Una mente un
po’ maliziosa potrebbe pensare che a trarre vantaggio da questa operazione di
salvataggio dei conti potrebbe essere qualcuno che opera nel campo degli
immobili e delle costruzioni. Chi svende per necessità trova sempre qualche
vorace imprenditore pronto all’affare. Chissà, magari ne conoscono anche
qualcuno… D’altronde non è che possiamo far loro una colpa se, rispetto al buon
padre di famiglia, sono privi di quella benedetta diligenza. Anzi, consci di
questa lacuna, hanno anche trovato la soluzione: l’assaltano.
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24 ottobre 2012
Non è cattiveria, è pigrizia.
Il Sindaco se la prende comoda. Il consiglio comunale lo
convoca alle 9:30 di mercoledì. Cosa importa al sindaco se qualche cittadino
che lavora – attività di cui probabilmente serba un lontano ricordo – vorrebbe
ascoltare cosa succede in consiglio comunale. Cosa importa se una legge dello
Stato stabilisce che i consigli comunali andrebbero convocati “in un arco
temporale non coincidente con l'orario di lavoro dei partecipanti”?
L’importante è proprio evitare il più possibile che i cittadini si rendano conto
dei danni che lui e i suoi accoliti stanno causando al paese. Ed è
evidentemente per questo che, dopo che per anni era stata consentita la
registrazione video dei consigli comunali, ha deciso di vietarla. La ragione è
una sola: si vergogna. Si vergogna lui e si vergogna la sua maggioranza e chi
la pensa diversamente, se c’è, si vergogna di avere un pensiero autonomo. Non
essendo abbastanza coraggioso da assumersi la responsabilità di commettere un
abuso di potere preferisce scaricare la colpa su qualcuno che in qualche modo
gli è “debitore” di un signor stipendio. Sto parlando del segretario comunale,
il cui rapporto con l’amministrazione è fiduciario e, di conseguenza, la sua
permanenza in un comune può in qualche modo essere influenzata dal fatto di
essere abbastanza “conciliante”. E il nostro nuovo segretario sembra esserlo persino
più del suo predecessore, che su questo non scherzava mica. Infatti, ha tirato
fuori dal cilindro la sublime scempiaggine della tutela del diritto del
lavoratore (che sarebbe lui) per impedire la registrazione video del consiglio
comunale. Torno sull’argomento per dimostrare quanto sia capzioso e subdolo
l’appiglio giuridico trovato per giustificare una cosa che ha un nome ben
diverso: censura. E il segretario si assume la responsabilità, sul piano etico
prima ancora che sul piano del diritto, di negare con un espediente (invero
piuttosto debole) i veri diritti dei cittadini: che sono il diritto di essere
informati, il diritto della trasparenza, il diritto di cronaca. Negare un diritto,
appellandosi ad uno pseudodiritto è una furbata da Azzeccarbugli, che di strada
ne fa poca e ridicolizza chi se ne fa scudo. L’articolo 4 dello Statuto dei
lavoratori, evocato (ma non citato, forse per pudore) per ben due volte nella
lettera di diniego firmata da Galli recita testualmente: “È vietato l'uso di
impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a
distanza dell'attività dei lavoratori”. Anche un bambino capisce il senso di
questa frase. Si parla di controllo a distanza da parte del datore di lavoro
nei confronti del lavoratore. Una pratica che, se consentita, mette in una
condizione di inaccettabile soggezione il lavoratore controllato e ne lede
inevitabilmente la
dignità. Non è certo il caso del segretario comunale, la cui
dignità è messa in discussione solo dal fatto di avallare simili forzature
giuridiche. E, se proprio avesse problemi di diffusione della sua “immagine”,
il nostro sensibile lavoratore potrebbe tranquillamente svolgere la sua
mansione mettendosi al margine dell’aula consiliare, fuori dall’inquadratura. Da
qui si capisce perfettamente che l’obiettivo del diniego è un altro, non certo
la sua tutela. Ma il nostro segretario, così ligio ad una norma che non c’è,
non è altrettanto severo nell’applicarne un’altra che lo riguarda direttamente.
Parlo della legge 18 giugno 2009 n. 69, la quale, all’articolo 21 afferma che
il comune “ha l’obbligo di pubblicare nel proprio sito internet le retribuzioni
annuali, i curricula vitae, gli indirizzi di posta elettronica e i numeri
telefonici ad uso professionale dei dirigenti e dei segretari comunali”. In
questo caso il rispetto della legge va a farsi benedire e la sua lauta
remunerazione rimane un mistero. Cos’è? In questo caso si applica la legge
sulla privacy? Sul prospetto del bilancio si parla di 74mila euro l’anno. Non è
poco, considerando che per molti mesi è venuto due giorni alla settimana, che
solo recentemente è passato a tre e che oggi, ad esempio, ha presenziato appena
40 minuti di consiglio. Né stupisce che sia così sensibile ai desiderata del
sindaco. Il quale, a sua volta, è un maestro nell’interpretazione delle leggi a
suo uso e consumo. Solo questa mattina ha minacciato di cacciare le persone dal
consiglio comunale che, a suo avviso, violassero leggi che nessuno ha mai scritto. Ma lui è
fatto così. Troppo pigro per leggersi le norme, preferisce interpretarle,
quando ci sono, o inventarle, se proprio non ci sono. Poi, anche lui, le leggi
vere preferisce aggirarle. Anche in questo caso sarà del tutto incidentale che
la sua amministrazione sia indagata per reati ambientali in merito alla vicenda
dei depuratori e che lui stesso sia stato rinviato a giudizio per reati contro
la pubblica amministrazione. Perché stupirsi, in fondo fa orgogliosamente parte
dello stesso partito di Fiorito e di Scajola.
12 ottobre 2012
Galli: dalle virtù virtuali ai disastri reali
Fare il bilancio
di previsione a ottobre è un po’ come dare le previsioni del tempo alle sei del
pomeriggio. Guarda che oggi probabilmente piove. Ah, bene, grazie. Peccato che
mi sia già bagnato. A Labico usa così. Il bilancio di previsione a ottobre,
insieme al rendiconto dell’anno prima (ci sono voluti 10 mesi per far quadrare
i conti), agli equilibri di bilancio e alle castagne. Queste ultime faticheranno
non poco a levarle dal fuoco. Già immaginiamo che avranno anche fretta di
approvare tutto in un paio d’ore, ché loro mica hanno tempo da perdere con la
democrazia e non possono certo star lì a dare spiegazioni su come fanno a
sperperare i (nostri) soldi senza che i cittadini ne traggano apprezzabili
vantaggi. Fatto sta che il bilancio di previsione è finalmente arrivato. E
allora azzardo un’ipotesi: il sindaco si guarderà bene dal convocare il
consiglio sul bilancio in giorni o orari che consentano un’ampia partecipazione
della cittadinanza. Si accettano scommesse.
Vediamo, però,
cosa dice il documento contabile così faticosamente prodotto dai nostri
illustri statisti, gli stessi che fino all’anno scorso spacciavano come
virtuoso il bilancio del comune. Sbugiardati da noi in consiglio comunale, in
questo bilancio sono costretti ad ammettere che “il nostro ente figura tra i
comuni non virtuosi”. Finalmente ne sono accorti.
Evidentemente,
nel guardare i conti, dobbiamo partire da un presupposto innegabile: tutto il
bilancio, compresa la lunghezza dei tempi di approvazione, ruota intorno alla
questione “depuratori” e sarà, inevitabilmente, il filo conduttore di queste
considerazioni.
Un primo dato,
tanto per avere un’idea, è quello del confronto tra l’entità complessiva del
bilancio di previsione e quella che gli amministratori definiscono –
ipocritamente – “emergenza depuratori”. Si parla di 9,7 milioni di euro a
fronte di “ingenti spese che si aggirano tra i 2/3 milioni di euro” (testuale
dalla relazione previsionale e programmatica). A parte la sconcertante approssimazione
con cui ci presentano il conto dei guai di cui hanno una piena responsabilità
politica e amministrativa, quello che sconvolge è l’ammontare complessivo dei
costi che saremo chiamati a sostenere. Una cifra molto vicina ad un terzo
dell’intero bilancio. Come si fa a non andare in dissesto con questi numeri?
C’è una sola via, quella di truccarli, nasconderli, mascherarli, camuffarli.
Già immaginiamo le reazioni di fronte a questi termini. Ma come vi permettete?
Questa è diffamazione. Vi quereliamo!
In attesa delle
reazioni, proviamo a guardare alcuni elementi del bilancio con cui argomentare
meglio le nostre perplessità. Intanto è ben difficile capire dove si annidino
(nelle pieghe del bilancio) i soldi dei depuratori. Non parliamo della –
decisamente tardiva – spesa necessaria per l’adeguamento degli impianti di
depurazione, che rientrano nella parte investimenti e che dovrebbe essere
recuperata con i finanziamenti di regione e provincia. Parliamo dei soldi che
stiamo spendendo per portare via i nostri liquami dai depuratori dichiarati
fuorilegge dalla magistratura. A luglio Galli, in consiglio comunale, aveva
parlato di un milione e mezzo di euro. Adesso siamo ad ottobre e la cifra –
come ammesso dalla stessa amministrazione - è ben più elevata. Ma dov’è? A
rigor di logica dovrebbe essere nella tabella delle spese per servizi
istituzionali, alla voce “Fognatura e depurazione”. Una voce la cui componente
in entrata – e quindi ciò che pagano i cittadini - è raddoppiata dal 2009 a oggi (da 123mila euro
a 230mila euro). Una voce che, in uscita, è praticamente quadruplicata rispetto
agli anni passati (si passa dai 133mila euro del 2009 ai 647mila del 2012), ma
la differenza, in valore assoluto, è di “appena” 500mila euro. E gli altri
(almeno) due milioni? Dove sono stati messi? Certo, prima ancora
dell’approvazione del consuntivo, sono stati messi 150mila euro come avanzo di
amministrazione, dei quali è già indicata la finalizzazione di copertura dei
debiti fuori bilancio derivanti dal sequestro dei depuratori, ma all’appello
mancano ancora un sacco di soldi. Sono in bilancio? E, se ci sono, di grazia, dove
li avete ficcati?
A rendere ancora
più incerto e fumoso il quadro ci sono una serie di voci “fittizie” di entrata,
la cui funzione sembra quella di infiocchettare un po’ un ben magro bilancio,
la cui lettura potrebbe causare facilmente l’insorgenza di crisi depressive. A
ottobre 2012, infatti, si mettono a bilancio qualcosa come 2,5 milioni di euro
di entrate in conto capitale da parte della Regione Lazio (tra cui le risorse
destinate al completamento della celebre ciclabile). Una somma che, per ovvie
ragioni, dubitiamo che arriverà a destinazione nei prossimi due mesi.
Il resto del
bilancio è costellato da inevitabili aumenti della pressione fiscale e tributaria
sui cittadini, formalmente destinati a migliorare la qualità dei servizi
comunali, ma che in pratica serviranno a pagare ben altro. Il dato numerico è
inquietante: il prelievo tributario procapite (ossia quanto paga di tasse ogni
cittadino, bambini compresi) passa dai 284 euro del 2009 ai 480 del 2012. Nel
giro di tre anni le imposte comunali sono aumentate del 70 per cento. La
consapevolezza che con quei soldi si paghino i viaggi dei nostri liquami non
sembra essere di alcun conforto.
Perché l’amministrazione
non ha prodotto uno specifico quadro economico della cosiddetta “emergenza”, in
modo da far capire esattamente come stanno le cose e come si intende procedere?
La ragione sembra abbastanza semplice. Si cerca di trovare qualche artifizio contabile
per far slittare alcune voci di spesa al 2013 e prendere un po’ di fiato.
Qualcuno - ingenuamente, pensando ad un atto di riguardo nei nostri confronti -
potrebbe apprezzare il gentile pensiero. Non bisogna farsi illusioni. Cercano
solo di guadagnarsi un po’ di sopravvivenza politica e incassare qualche altro
stipendio. Peccato che, infilando la testa sotto la sabbia o nascondendo i
problemi, questi non solo non si risolvono, ma si aggravano. E l’anno prossimo
il conto sarà ancora più salato.
11 ottobre 2012
Proposta indecente
Sotto il profilo penale, il reato
di cui è accusato l’assessore alla casa della Regione Lombardia è indubbiamente
molto grave: si parla di scambio elettorale politico-mafioso. E quando c’è di
mezzo la criminalità organizzata è meglio tenere alta la guardia. L ’idea che
organizzazioni di stampo mafioso esercitino un controllo “diretto” sugli eletti
è oggettivamente inquietante e va combattuta individuando strumenti normativi
specifici ed efficaci. Ma il voto di scambio non è solo quello di tipo mafioso.
C’è un altro tipo di voto di scambio, la cui pratica permea, inquina e altera in
maniera allarmante molte tornate elettorali, a tutti i livelli. Anche questo è
un reato, punito da una legge dello Stato. Chi di noi non ha mai sentito parlare
di voti comprati a 50 euro o con l’equivalente in buoni benzina? Chi di noi non
si è mai imbattuto in promesse di posti di lavoro - per chi non ce l’ha, il
lavoro -, in ricatti occupazionali - per chi il lavoro ce l’ha, ma la cui
continuità dipende dal politico o, che so, da un cognato o un parente -, in
avvisi bonari sui rischi che la propria pratica in comune si areni (se è
legittima) o in promesse di “oliarne” l’iter, quando è priva dei requisiti. In
alcuni casi il reato c’è ed è evidente. In altri il confine tra lecito e
illecito è molto più labile. Magari anche nel lessico. Meglio parlare di
cortesie, piaceri, aiuti. Per i quali però il politico sarà puntualissimo nel
batter cassa al momento del voto. Ormai è difficile trovare qualcuno che dica
“se mi dai il voto faccio questo”. D’altronde ci sono modi impliciti per
esprimere lo stesso concetto, tra l’altro deresponsabilizzando l’autore della
promessa qualora non sia in grado di mantenerla. Stupisce però che ci sia
ancora tanta gente disposta a rinunciare alla propria dignità per poche decine
di euro, per una cena o per accelerare una pratica amministrativa. Per poi
pagare un prezzo ben più alto in termini di cattiva amministrazione, se non addirittura
di aumenti delle tasse dovuti ad una pessima gestione della cosa pubblica. Mi auguro
che, da domani, ognuno di noi ci penserà bene prima di cedere alla proposta di
scambiare il proprio voto e la propria dignità con un “piacere”. Desidero che,
da domani, ognuno di noi avrà la consapevolezza che una proposta così è
offensiva e indecente. Spero che, da domani, ognuno di noi non sia più disposto
a farsi umiliare. Non auspico il ricorso alla magistratura (ché poi mi si
accusa di giustizialismo). Ma, almeno, di fronte ad una proposta indecente, si
può sempre chiamare la buoncostume.
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