C’è una frase che mi riecheggia
in testa continuamente. “Eh, però, questi ciclisti che stanno in mezzo alla
strada…”. Fa il paio con “Sì, sì, ma andava in giro con certe minigonne”.
Affermazioni che, più o meno inconsciamente, portano a giustificare e deresponsabilizzare
chi commette reati gravissimi. Una ragazza di 17 anni è morta nei giorni
scorsi, uccisa da un SUV che è piombato su un gruppo di scout in bicicletta. Il
SUV, a quanto sembra, andava velocissimo. Ci ha messo 300 metri a fermare la
sua folle corsa, trascinando la ragazza per 200 metri . Probabilmente
non era un extracomunitario, altrimenti l’avrebbero messo nel titolo e questo
ci avrebbe sollevati tutti. Certo, il solito rumeno. Per fortuna era risultato
positivo al testo alcolemico. Questo ci tranquillizza un po’. Beh, era ubriaco
fradicio. L’ultimo appiglio per salvare il nostro modello mentale sarebbe
stato, appunto, “questi ciclisti che stanno in mezzo alla strada…”. Perché
questo? Perché la nostra cultura della sicurezza stradale si basa su un assioma
– tutto da dimostrare e sulla cui genesi preferisco non pronunciarmi – che
considera il mezzo motorizzato il padrone indiscusso della rete viaria. Fatti
salvi alcuni distinguo, e anche qualche rivalità, tra le varie tipologie (auto,
moto, camion), la strada appartiene ai “potenti” - nella doppia accezione, in
cavalli e in (presunto) peso sociale – e gli altri – in primis ciclisti e
pedoni - sono ospiti appena tollerati, se non proprio indesiderati.
Da questa visione distorta nasce
la convinzione, nell’automobilista medio, che il ciclista sulla strada sia un
fastidioso ostacolo alla propria legittima esigenza di mobilità. L’automobile
ha sempre la precedenza, anche se la sto usando per andare all’outlet e il
ciclista sta andando al lavoro. Chi va in bici dovrebbe farsi da parte, non
essere d’intralcio. Non ci si aspetta che lo faccia un camion o un’automobile
che va più piano di noi. Un ciclista, sì. Lui dà fastidio. E se sono un gruppo,
levati cielo, diventa un attentato alla Costituzione. Va tutto bene.
L’automobilista che lascia l’auto in doppia fila. Il corteo nuziale lento e
strombazzante lungo le vie della città. Il raduno di moto o auto d’epoca
rombante e allegro che blocca il traffico. Tutto, tranne i ciclisti. Loro non
hanno diritto di cittadinanza e, se proprio vogliono andare per strada, non
devono dare fastidio. Lo stesso codice della strada che per gli automobilisti è
a malapena un compendio di suggerimenti, consigli e linee di indirizzo, diventa
una norma cogente ed inderogabile per i ciclisti, che devono attenersi
scrupolosamente ad ogni singolo comma del codice, la cui interpretazione
diventa particolarmente rigorosa. Ed è così che il ciclista dovrebbe stare sul
margine destro della carreggiata, preferibilmente a destra della linea bianca,
senza tenere conto della pericolosità di una simile condotta per un veicolo a
due ruote, considerando il non impeccabile stato dell’asfalto delle nostre
strade.
Questa “cultura” autocentrica è
il terreno fertile per i comportamenti più sconsiderati e pericolosi. La sola
presenza del ciclista sulla strada è già una sua “colpa” ed una mia
deresponsabilizzazione per l’eventuale azzardo del mio sorpasso. Quanti
automobilisti non si preoccupano se lasciano pochi centimetri tra loro e il
ciclista quando lo superano? Loro non corrono alcun pericolo ben protetti
all’interno del proprio confortevole SUV. Quei pochi centimetri per il ciclista
possono determinare la perdita dell’equilibrio con conseguenze anche gravi. “Ma
stava in mezzo alla strada”. E probabilmente non era “in mezzo” era “sulla”
strada, magari anche in prossimità del margine destro (come prevede il codice).
Però, nella nostra testa, un ciclista sulla strada è sempre in mezzo. E se poi
fosse davvero in mezzo questo legittima il rischio di ucciderlo?
Ed è esattamente quello che ha
fatto il guidatore del SUV a Casalmaiocco. Non un delinquente, non un
extracomunitario. Sarà magari un libero professionista, che se ne andava a
spasso in una giornata festiva. Anche se ubriaco, non può non aver visto il gruppo
di ciclisti. Stava tranquillamente oltre i limiti di velocità (ma questo, come
automobilisti, lo consideriamo sempre un comportamento legittimo, sono i limiti
ad essere troppo bassi) e non aveva intenzione di rallentare. Erano i ciclisti
in torto. E lui ha deliberatamente deciso di mettere a repentaglio la loro vita
per non rinunciare al proprio diritto di andare alla velocità giudicata più
consona alle sue esigenze. Non è una semplice colpa. E’ una responsabilità più
grave. C’è il dolo, anche se solo eventuale. E’ evidente che non c’era la
volontà di uccidere, ma non poteva mancare la piena consapevolezza del rischio
di farlo. Vale il principio giuridico della sentenza di condanna – per omicidio
volontario con dolo eventuale - dell’amministratore della ThyssenKrupp per il
rogo in cui erano morti alcuni operai. Nessuno pensa che l’amministratore
volesse la morte degli operai. Il senso della sentenza è che chi ha deciso di
non installare i sistemi di sicurezza abbia accettato di mettere a repentaglio
la sicurezza delle persone, subordinato consapevolmente un determinato bene (la
vita umana) a un altro (probabilmente il risparmio per l’azienda). Nel caso del
nostro SUV il bene subordinato è sempre la vita umana, quello prevalente è
portare piuttosto in fretta la sua inutile testa... vuota da qualche parte.
grazie di quanto scritto mi risponde al meglio, meditamare@libero.it www.meditamare.it grazieee, matteo
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