22 novembre 2004

Stradarolo 2004. Una storia di passi, scarpe e tavole rotonde

Articolo pubblicato su "Carta"

“4 metri, ha detto”.
“Sei sicuro che devono essere per forza 4, con queste tavole viene perfetto di 3,60. Le mettiamo insieme, le inchiodiamo ed è fatta. Anzi, l’ideale sarebbe farla rettangolare o, al limite, quadrata. Si risparmierebbe un sacco di tempo e fatica”.
“No, 4 metri e rotonda, ha detto”.
“Vabbé se ha detto così… e le gambe? Di che misura vanno fatte?”
“Quelle vanno fatte sul posto, perché è in discesa…”
“…”
“Sì, in discesa, tutta Genazzano è in discesa”
“O in salita”
“In salita o in discesa le gambe vanno fatte sul posto… come fai senza misure altrimenti?”
“…”
“…”
“Rotonda, quattro metri, gambe sul posto… altro?”
“No, ha detto così”
“Vabbé se ha detto così… passami la tavola…”
“…”

“Cappe!”. Dario, due anni compiuti da appena due giorni, si è appena svegliato. Come apre gli occhi – dalla posizione supina in cui si trova sul suo passeggino – ha immediatamente modo di notare qualcosa di meravigliosamente sorprendente: tutte quelle scarpe appese là in alto. “Cappe!” Ripete nuovamente colmo di estatica meraviglia, accompagnando l’asserzione con un’ipotiposi digito-esclamativa (mi si perdoni il prestito da Gadda), con la manina alzata e l’indice rivolto verso il motivo del suo stupore.
“Che stronzata”. Antonio, 48 anni di lì a poco, è seduto a tavola con alcuni amici. “Mò vedrai che stanotte vado e gliele stacco tutte”. Questi non c’hanno proprio gnente da fà che annà in giro a mette ‘ste scarpe puzzolenti pe le vie".
Il crinale incerto sui cui si muove Stradarolo è un po’ tutto qui, nelle reazioni di Dario e di Antonio.
Non so se sia il caso di scomodare l’arte, la sua interpretazione, la sua lettura, l’ispirazione poetica che sottende l’opera o la provocazione di un’artista, il suo stimolo alla riflessione, la sua voglia di trasmettere un messaggio. Forse, per cogliere l’emozione o lo spunto di riflessione di Stradarolo, basta guardare le cose con gli occhi di Dario, con la voglia di stupirsi, di giocare e di sognare: insomma alzare il ditino e dire “Guarda, le scarpe!”. Infatti non si può negare che l’impatto dell’installazione artistica di Stradarolo 2004 – realizzata dall’architetto-artista Gabriele Amadori e costituita da oltre 2000 paia di scarpe usate – sia davvero di grande effetto.
Un effetto che parte prima di tutto dall’emozione istintiva (e visiva) che nasce dal percorrere un paese disseminato da centinaia di scarpe. L’elaborazione razionale – e rigorosamente individuale – viene dopo. Dopo si pensa al tema tema della VIII edizione del festival dell’arte su strada, che è, guarda caso, “passi”. E cosa meglio di tutte quelle scarpe, provenienti da tutto il mondo, ognuna con la sua storia (piccola o grande che sia) da raccontare, poteva esprimerlo così compiutamente?
Basta chiudere gli occhi – no, non necessariamente su un passeggino – riaprirli e guardare le scarpe, che ci portano lontano (o vicino, non importa) a ripercorrere i passi di chi le ha indossate. Magari una donna rumena o un bambino spagnolo o un uomo messicano, o un vecchio finlandese (no, i finlandesi no, perché – ci hanno spiegato – loro le scarpe le consumano fino alla fine e non hanno scarpe vecchie).
Sono tutte lì, pronte a farci camminare con la fantasia, unite non solo da un filo metallico (quello serve per problemi gravitazionali) ma da un filo invisibile cha unisce un po’ tutti o chissà se tra quelle scarpe legate dallo stesso filo non ci fosse una scarpa israeliana e una palestinese, una irachena e una americana, una curda, ma forse questo non c’entra e si rischia di cadere nella retorica.
Invece merita attenzione la valenza fortemente evocativa del tema – passi – ossia del rapporto tra l’uomo e la terra attraverso quel gesto naturale e istintivo che è quello del camminare. E così, nella visione onirica di un paese che non c’è come Stradarolo – una comunità virtuale e magica, abitata da musica e poesia, vitale e effimera allo stesso tempo – le scarpe scandiscono i passi del visitatore lungo le vie, accompagnandolo, di volta in volta, a scoprire i giochi, gli spettacoli, gli eventi, gli incontri, fino ad arrivare, come Alice nel paese delle meraviglie, in un luogo surreale, in fondo ad una scalnata, dove sotto una pioggia battente, ci sono persone riunite intorno ad una enorme tavola rotonda di quattro metri.
Al centro della tavola, allestita con una tovaglia decorata a mano (anzi a piede, visto che le impronte raffigurate sono state lasciate da alcuni bambini che hanno passeggiato sulla tovaglia con i piedini imbrattati di vernice), sbuca (da un buco, appunto) l’incantatore (al secolo Massimo Pasquini), che è colui che incanta con i passi, ma anche quello che i passi li vende all’incanto.
Attorno al tavolo ci sono vecchie e nuove glorie del calibro di Ricky Gianco, Francesco Di Giacomo e Sergio Endrigo, che mettono all’asta un pezzo della propria storia artistica o personale (che spesso coincidono). Qualcuno cede un vinile ormai introvabile, qualcuno un quadro, qualcuno un paio di scarpe da ciclista (sì, scarpe, ancora scarpe, inesorabilmente scarpe) che hanno attraversato lontani paesi africani con l’obiettivo di portare acqua a chi ne ha bisogno. Tutti oggetti rigorosamente inutili, che però attirano l’interesse del coraggioso pubblico (visto che non smette di piovere) che si sbizzarrisce in sconsiderati rilanci per impadronirsi del “passo” in vendita. Forse non bisognerebbe dirlo, in fondo è inelegante, ma il ricavato dell’asta andrà a favore della scuola del mercato di San Roque-Quito, in Ecuador dove, grazie a Terre des Hommes, viene insegnata anche la lingua Quechua.
Per la cronaca la tavola verrà recuperata, dotata di gambe della medesima lunghezza e destinata ad uso conviviale, Pasquini è uscito dal buco e adesso fa gli acquisti su E-bay e Dario ricorda ancora perfettamente quel momento irripetibile in cui le scarpe volavano nel cielo. Antonio? Beh, il pensiero di Antonio è rimasto quello: “Che stronzata!”. E chissà che, in fondo, non abbia ragione lui.

5 novembre 2004

Tra Bush e Kerry gli americani scelgono Bush

Presidenziali USA 2004. Ha vinto Bush. Su questo non si discute. Si discute e si discuterà – e molto – su come interpretare il risultato del voto degli americano e su quali valutazioni “politiche” emergono dall’orientamento chiaro e deciso che gli abitanti del nuovo continente hanno dato con la propria scheda elettorale, ben al di là del numero di grandi elettori assegnati all’uno o all’altro contendente. Stavolta infatti non ci dovrebbero essere recriminazioni su una scorretta gestione del voto di stati chiave – come avvenne per la Florida 4 anni fa, dove si verificarono discutibili episodi che, secondo alcuni osservatori, alterarono il risultato finale delle operazioni di spoglio – né sull’anomalo meccanismo elettorale che – in linea teorica – potrebbe assegnare la presidenza degli Stati Uniti al candidato che ottiene meno voti del suo avversario diretto, né su una scarsa affluenza alle urne che è sempre un segnale negativo, soprattutto perché esprime disattenzione o indifferenza nei confronti di un evento da cui dipendono i destini non solo degli americani.
Niente di tutto ciò. Il dato da cui bisogna partire è che gli americani hanno scelto in modo convinto il proprio presidente, esprimendo contestualmente apprezzamento per l’opera svolta nei quattro anni passati.
Ora l’idea di dare un giudizio positivo all’azione di governo svolta da George dabliù Bush mi crea un disagio interiore che fatico ad esprimere. Per fortuna negli Stati Uniti non c’è il problema della mancanza di informazione e ci sono giornali e soprattutto emittenti televisive che mettono chiunque ne abbia voglia nella condizione di “informarsi” e di sapere quindi che George W. Bush, figlio d’arte, è l’espressione politica della potentissima lobby dei petrolieri e delle multinazionali. Che ha interessi personali enormi in molti settori economici chiave, tra cui – manco a dirlo – l’industria delle armi, ossia quella che trae maggiore profitto dallo stato di guerra permanente avviato da Bush & company.
I madornali errori commessi da Bush nella gestione della politica non sono passati inosservati: l’opinione pubblica d’oltreoceano, volendo, aveva tutti gli strumenti per valutarne la portata e le conseguenze. Gli americani, insomma, sanno molto bene che l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre del 2001 non poteva essere attribuito così superficialmente al regime talibano in Afghanistan – tutti gli attentatori erano sauditi, il che non significa certo che ci sia stata una responsabilità dell’Arabia Saudita, ma, a maggior ragione, non ci sono elementi per addossarne la colpa ad un qualche altro Stato a caso (magari dove passa qualche oleodotto strategico) – così come era chiaro che la presunta presenza di armi di distruzione di massa nel territorio iracheno, altro non era che una scusa per attaccare uno dei più grandi produttori di petrolio del mondo.
Né aveva senso parlare di “esportazione” della democrazia, perché in tal caso non si capisce per quale ragione gli USA non decidano di attaccare anche gli altri 150 paesi citati dal Rapporto di Amnesty International, che continuava a commettere gravi violazioni ai diritti umani. Forse perché l’obiettivo di “democratizzare” la Cina è fuori dalla portata anche di un’imponente forza militare come quella a stelle e strisce.
La vera ragione delle scelte di politica estera degli Stati Uniti non è quindi quella di portare la pace, la democrazia e la sicurezza in tutto il mondo. Là dove i conflitti e le tensioni non disturbano il manovratore e non intaccano le risorse energetiche, l’attenzione del grande fratello americano è molto vicina allo zero. L’interventismo USA è motivato da una sola e semplice ragione: mantenere i consumi dei paesi occidentali ad un livello che sarà sostenibile solo finché saremo in pochi a permetterceli. L’obiettivo è quindi esattamente quello di continuare a sfruttare le risorse degli altri a costi accessibili. Infatti, il picco della curva di Hubbert (il grafico che porta il nome del geofisico Marion King Hubbert e che indica l’andamento della produzione petrolifera) gli americani l’hanno registrato ormai trent’anni fa e adesso sono costretti a importare buona parte dei combustibili di origine fossile a loro necessari.
Le altre questioni che in qualche modo avrebbero dovuto far “pensare” gli americani sono state messe in secondo piano dalla grande attenzione rivolta alla falsa questione terrorismo/sicurezza. Muoiono molti più americani per il pessimo servizio sanitario che a seguito di azioni terroristiche. Con i 143 miliardi di dollari investiti fino ad ora per massacrare le popolazioni afgane e irachene chissà di quanto si sarebbe potuto migliorare la sanità, la previdenza, l’assistenza per gli americani (e magari, con un po’ di buona volontà, anche per popoli meno fortunati). Per non parlare delle questioni ambientali, del tutto assenti dall’agenda politica degli Stati Uniti, unico paese occidentale a non aver aderito al Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni dei gas che causano alterazioni climatiche.
E’ chiaro quindi che per gli americani questa è la politica da seguire. Una politica basata sugli egoismi e su una visione che mette al centro di ogni ragionamento l’interesse dell’america e dei suoi cittadini più ricchi. Cosa avrebbe potuto fare Kerry per ribaltare il risultato? Dubito che avrebbe potuto portare i democratici a posizioni ancora più moderate, nel disperato tentativo di raccogliere consensi “al centro” (pratica questa molto seguita anche in Italia) mentre proprio questa sostanziale equivalenza su molti temi ha raffreddato gli entusiasmi di molti simpatizzanti democratici.
Lo stesso regista e scrittore Michael Moore – che, beninteso, ha tifato per Kerry – ha messo in evidenza le contraddizioni della precedente presidenza democratica (Bill Clinton) che, tra le altre cose, ha ridotto il numero delle persone che avevano diritto all’assistenza pubblica, ha rifiutato di firmare il trattato per la messa al bando delle mine antiuomo, ha iniziato l’opera di boicottaggio del Protocollo di Kyoto, ha dato il via alla devastazione ambientale dell’Alaska per le trivellazioni petrolifere. Molti americani avranno pensato che se proprio si deve scegliere per un certo tipo di politica conservatrice, conviene dare il voto direttamente all’originale e non alla sua copia sbiadita. La vittoria di Bush è nella sostanza tutta qui: da un lato gran parte degli americani condivide la politica arrogante e supponente portata avanti in questi anni, dall’altro Kerry ha cercato di dare un’immagine mitigata degli stessi principi, suscitando modesti entusiasmi tra i democratici e diffidenza tra i moderati.
In una situazione “normale” il dibattito preelettorale avrebbe dovuto vertere su questioni programmatiche importanti come sanità, istruzione, politiche produttive, diritti dei lavoratori, diritti delle persone, tutela ambientale, ma tutto ciò non è avvenuto perché si è deciso di concentrare l’attenzione su aspetti che stimolano l’emotività (e la paura) più che il ragionamento.
A me – sul piano emotivo - resta l’incredulità nel sapere che 59 milioni di persone hanno deciso di confermare alla guida dello Stato più potente del mondo un uomo che ha deliberatamente deciso di condannare a morte per colpe non commesse centomila iracheni (fonte più che autorevole: The Lancet, rivista americana di medicina, che ha stilato un rapporto sui cosiddetti effetti collaterali dell’aggressione all’Iraq), la maggior parte dei quali civili, donne e bambini. In questa orrenda contabilità funebre tra i morti delle torre gemelle e la “vendetta” (sì, spesso negli States si utilizza con fierezza questo termine a proposito dell’attacco all’Iraq) è di 40 a 1. Noi, in Italia, ne sappiamo qualcosa di queste forme di rappresaglia e ancora ne serbiamo un doloroso ricordo (anche se all’epoca la proporzione era di 10 a 1, ma, si sa, l’inflazione galoppa dappertutto). Anche gli iracheni ricorderanno a lungo l’agghiacciante successione di lutti, privazioni, dolore a cui sono stati ingiustamente sottoposti. Così come i più poveri tra gli americani (ossia quelli che la guerra sono costretti a farla davvero e non da un campo di golf) stanno subendo lutti per questo conflitto (siamo ad oltre 1100 morti tra i militari USA). E per usare le parole di Bertolt Brecht “Alla fine dell'ultima guerra c'erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”. Neanche questa guerra evidentemente farà eccezione.


Tullio Berlenghi

6 settembre 2004

La tragedia di Beslan

Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo per “Il giornale del Popolo”. Preferibilmente un argomento di interesse locale. Ci sto provando. E’ almeno mezz’ora che sono davanti al monitor, con le dita sulla tastiera, pensando a qualche possibile argomento: l’estate labicana, il bilancio comunale, i parcheggi, il piano regolatore, la scuola. Ecco, la scuola. Un argomento di grande interesse per la collettività. La scuola è uno dei servizi pubblici di cui abbiamo maggiore bisogno. E’ il posto al quale affidiamo i nostri figli a partire dai tre anni. Di cose da dire ce ne sarebbero, per carità. Però proprio non ci riesco. La parola scuola evoca in me le strazianti immagini di Beslan e dell’edificio scolastico dove è avvenuta una delle tragedie più inquietanti che abbiano colpito l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. E’ strano il meccanismo che sovrintende alle nostre emozioni. Se ci parlano di mille morti, diecimila morti, centomila morti reagiamo sì con amarezza e sbigottimento, ma il fatto di non dare nomi e volti alle vittime rende il nostro dolore come ovattato, sterile, astratto. Se invece abbiamo la possibilità di conoscere una storia, vedere un’immagine, condividere un frammento individuale di quella mostruosità, veniamo sopraffatti dallo sgomento, dall’impotenza, dall’incredulità. Ci chiediamo come sia possibile che esseri umani possano compiere terribili efferatezze ai danni di altri esseri umani, addirittura, come in questo tristissimo caso, nei confronti di incolpevoli bambini, quelli destinati troppo spesso a pagare un tributo di sangue altissimo per colpe che non hanno.
La violenza difficilmente nasce per caso. La violenza nasce, progredisce e prospera in situazioni ben precise e determinate. La violenza nasce dall’odio, dell’odio si nutre e con l’odio si rafforza. La violenza genera odio e l’odio genera altra violenza. E’ una perversa spirale la cui prevedibilità dovrebbe essere ben chiara a chi governa i destini del mondo e che pensa di portare ordine, democrazia e giustizia facendo ricorso esattamente allo stesso modello culturale che si dichiara di voler combattere. Non c’è giustificazione per quello che è avvenuto a Beslan. E non c’è giustificazione per tutte le ingiustizie e gli orrori perpetrati – magari proprio in nome della giustizia – ai danni delle popolazioni civili in molti luoghi della terra. Compresa la Cecenia, dove l’inaudito numero di morti – si stima che siano tra i centomila e i trecentomila i ceceni morti negli ultimi anni, per mano delle forze militari russe – ha innescato indubbiamente un crescendo di rabbia, rancore, frustrazione e odio che chissà quanto altro dolore potrà portare. Sarebbe sbagliato mettere sui due piatti di una bilancia gli orrori, gli stupri, le violenze, le torture, le uccisioni compiute da una parte e dall’altra per decidere chi ha ragione. Non ci può essere ragione che giustifichi la barbarie. La barbarie come strumento per combattere la barbarie altro non è che l’accreditamento della barbarie medesima come strumento per ottenere un obiettivo. E se siamo disposti ad accettare un simile, tragico principio (a cui spesso si è portati ad attribuire persino valore etico o morale) rischiamo di doverci preparare ad accettare qualunque cosa.

11 agosto 2004

La festa è finita - Richard Heinberg

La festa è finita
Richard Heinberg
Fazi Editore – 18.50 €



Con apprezzabile tempismo è uscito “La festa è finita”, il saggio con il quale Richard Heinberg ci mette in guardia sulla incombente scarsità di petrolio, con la quale noi o – al più tardi – la prossima generazione dovrà fare inesorabilmente i conti.
E’ molto interessante la prima parte del libro, nella quale l’autore si sofferma in una lunga premessa con la quale spiega l’importanza del ruolo dell’energia nella nostra vita quotidiana e quanto sia stata la disponibilità dell’energia – più di ogni altro fattore – l’elemento essenziale di tutto il nostro progresso e dell’incredibile salto di qualità del nostro stile di vita e – ahinoi – dei nostri consumi. E, dopo un periodo durato migliaia di anni, durante il quale i progressi dell’umanità si registravano costantemente, ma con tempi “umani”, negli ultimi 150 anni, ossia da quando l’umanità ha cominciato a disporre di energia a basso costo, si è verificata una crescita esponenziale della qualità e quantità di tutte le attività antropiche. Di pari passo anche l’innovazione tecnologica è cresciuta in modo vertiginoso e il binomio energia-tecnologia ha avuto effetti dirompenti sulle nostre esistenze, portando tutti noi – ci ricorda l’autore – a disporre di energia equivalente al lavoro di 50 persone. Un piccolo esercito di collaboratori virtuali, al nostro servizio 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Un lusso ormai diffuso in tutto il mondo occidentale e che sino all’inizio del secolo scorso potevano permettersi davvero in pochi.
Con questa doverosa premessa il punto è, si chiede Heinberg, per quanto tempo potremo disporre di tutta questa energia, facile da usare e a basso costo? Le risposte che ci verranno date saranno diverse a seconda degli interlocutori presi in considerazione. Gli economisti, dei quali l’autore diffida, sono ottimisti per definizione e pensano che la risposta positiva la darà il mercato. Quando il petrolio costerà troppo il mercato (con l’ausilio della tecnologia) individuerà un prodotto più adatto alla bisogna e noi potremo continuare a mantenere i nostri livelli di consumo. I politici – che hanno il problema di ottenere il consenso – tenderanno a dare ragione agli economisti e non faranno nulla, soprattutto nulla di impopolare, per invertire la rotta, lasciando ad altri questa pericolosa bomba innescata. Tralasciando le considerazioni degli ambientalisti, verso i quali però Heinberg dimostra di nutrire il massimo rispetto, ma che sono in ogni caso contrari all’attuale modello di sviluppo e quindi considerano il probabile esaurimento delle risorse come un monito a cambiare strategie e livelli di consumo, la voce a cui Heinberg tende a dare più credito è quella degli “addetti ai lavori”, ossia i geologi, che sono quelli che meglio di chiunque altro sono in grado di capire e di prevedere se e quanto petrolio potrà ancora essere estratto a costi energetici vantaggiosi (è ovvio che il giorno che per estrarre un barile di petrolio avrò bisogno di utilizzarne l’equivalente quel pozzo lo potrò considerare esaurito). E i geologi sono stati sufficientemente chiari: la produzione di petrolio raggiungerà il massimo nell’intervallo compreso tra il 2010 e il 2020. A quel punto la curva di Hubbert – dal nome del geofisico Marion King Hubbert, che per primo aveva elaborato una previsione sull’andamento dei consumi petroliferi mondiali – sarà costretta necessariamente a scendere e questo comporterà conseguenze facilmente immaginabili sui mercati e sulle produzioni. Il prezzo del greggio a quel punto potrà solo salire perché non sarà possibile calmierare il mercato con l’aumento della produzione e altri inquietanti scenari potrebbero aprirsi e le guerre per il petrolio (magari sbandierate come lotta al terrorismo o difesa della democrazia) diventare ancora più frequenti.
Heinberg ha tutta l’aria di essere una persona concreta, uno studioso, uno che guarda con attenzione dati e cifre ed è ben lontano dall’atteggiamento di chi punta all’effetto panico delle teorie del catastrofismo. Heinberg ci porta semplicemente a conoscenza della situazione e ci spiega perché, a suo avviso, le convinzioni degli ottimisti – come Bjorn Lomborg, l’ambientalista scettico che sposa in toto le teorie degli economisti, minimizzando i pericoli di un’incombente calo di produzione e ipotizzando comunque una risposta immediata del mercato dell’energia – siano poco realistiche. E lo fa senza retorica e senza prosopopea, ma semplicemente facendo ricorso a dati, studi e ricerche, innaffiate con tanto sano buonsenso, ché non si può pensare che le scoperte di nuovi giacimenti possano continuare ad avvenire col ritmo della seconda metà del secolo scorso. E non è un caso infatti che di nuovi giacimenti se ne scoprono sempre meno, sempre più piccoli e con un “EROREI” (il rapporto tra energia investita ed energia restituita) sempre più basso. Forse, anche alla luce del prezzo del greggio in continua ascesa – pur se con dinamiche lievemente più complesse del semplice legame con l’avvicinarsi del picco della curva di Hubbert -, converrebbe tenere conto dell’avvertimento di Heinberg: la festa è davvero finita.

Tullio Berlenghi

23 giugno 2004

Quel semaforo lungo la Casilina

Labico per me non esisteva. Era un semaforo di dubbia utilità che talvolta aveva l’insolenza di interrompere il mio transito lungo la Casilina. Labico era un non-luogo. Uno di quei posti da cui devi passare perché la strada l’hanno messa lì (ma più probabilmente Labico è lì perché c’era la strada, ma non è il caso di divagare), ma la cui presenza è spesso avvertita con fastidio da chi non ha tempo da perdere. Il caso ha voluto che il non-luogo diventasse la mia residenza. Ho scoperto così l’esistenza di Labico. Ho scoperto che ai lati della Casilina, là dove c’è quel semaforo impertinente, ci sono case, strade, piazze, vicoli, negozi e, soprattutto, “persone”. Nella fretta di vivere la nostra vita concitata trascuriamo spesso di ricordarci che il mondo è fatto di altre realtà, a cui non facciamo caso e che tendiamo ad escludere dal nostro campo visivo. Non saprei dire cosa pensassi di Labico. Non saprei dire se pensassi che fosse bella o brutta. Non si giudica qualcosa di cui si ignora l’esistenza. Venire ad abitare a Labico mi ha permesso di familiarizzare con un posto che non conoscevo, di apprezzarne gli aspetti positivi e di criticarne gli elementi meno gradevoli.
Indubbiamente le testimonianze storiche e artistiche di Labico non possono certo competere con città che vantano doti ben più ricche e decantate, ma vi sono elementi che andrebbero comunque tutelati e valorizzati. D’altronde la bellezza di un paese dipende molto da questa capacità di valorizzarne le ricchezze e di migliorarne la qualità complessiva.
Una delle mie prime esperienze di conoscenza di Labico è stata “il percorso delle fonti”, una piacevole passeggiata tra il centro storico e quel poco che si è salvato dalla imponente cementificazione avviata nel paese – vanto di un’amministrazione comunale che circoscrive il significato della parola “sviluppo” alla sola proliferazione di case e villette - e che unisce alcune sorgenti e fontane (qualcuna anche piuttosto antica) del territorio labicano.
Mi colpì favorevolmente l’entusiasmo di chi si impegnava per il recupero di quel piccolo patrimonio – e a cui voglio esprimere il mio apprezzamento - e fui ben lieto di sapere che c’era l’intenzione di proseguire gli interventi di riqualificazione e rendere il percorso delle fonti una piacevolissima passeggiata tra storia e natura pienamente godibile da tutti i labicani (vecchi e nuovi).
Le cose, purtroppo, non sono andate così e non solo non si sono fatti passi avanti nell’opera di recupero ambientale, ma quel poco che era stato fatto veniva vanificato dalla trascuratezza e dall’incuria. Si potrebbe obiettare che Labico ha bisogno di utilizzare le proprie risorse per ben altro tipo di interventi, di gran lunga più importanti ed urgenti, come le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, le scuole, i servizi, ecc. Vero. Verissimo. Peccato che su questo versante sia tutto praticamente immobile e, anzi, si debbano registrare gravi omissioni e ritardi nella realizzazione di opere essenziali.
Dalla lettura del bilancio comunale – ancorché falcidiato dall’accorta politica economica di un governo che predica federalismo e riduzione fiscale e pratica l’indebolimento degli enti locali e la riduzione dei servizi ai cittadini – emerge in modo molto chiaro l’’assenza della volontà di intervenire su quelle indiscutibili priorità che consentirebbero – se realizzate – di dare al paese un ragionevole livello di qualità e funzionalità delle infrastrutture e dei servizi. Ed è paradossale che si lavori alla ricerca di zone di nuova edificazione senza prima aver messo mano alla sistemazione di tutto il pregresso.
Senza un inversione di rotta, senza un cambiamento dell’approccio sulla gestione amministrativa e territoriale si corre il rischio di trasformare – e di farlo colpevolmente – un piccolo e gradevole paese della campagna romana in una delle tante borgate di periferia, privandolo così della propria identità sociale e storica e negandogli ogni valenza culturale. Mi troverei, ci troveremmo, così ad abitare uno dei tanti quartieri-dormitorio della Capitale, uno di quei “nonluoghi” dove non ha senso rallentare quando si passa con la propria automobile e dove proprio non ci si riesce a spiegare la presenza di un semaforo inopportuno e impertinente.


Tullio Berlenghi

28 maggio 2004

Catastrofismo ambientalista

Il clima sta cambiando, la terra è in pericolo, il modello occidentale è sbagliato, le risorse non basteranno. A lanciare l’allarme non sono i soliti ecologisti, Verdi e no-global, ma gli americani, Pentagono in testa.


Giugno 2004. Nel giro di poche settimane escono in Italia un libro e un film che hanno il pianeta terra come protagonista. Il libro è “La festa è finita” di Richard Heinberg, mentre il film è “L’alba del giorno dopo”, di Roland Emmerich. Entrambi sono stati “introdotti” in Italia dai Verdi: il libro attraverso la prefazione di Alfonso Pecoraro Scanio e il film, con una proiezione in anteprima mondiale organizzata dalla Federazione Nazionale dei Verdi e con la partecipazione del noto economista ed ambientalista Jeremy Rifkin. L’abbondanza di coincidenze può voler dire due cose: o che davvero i Verdi portano sfiga ed è meglio starne alla larga, oppure che seguono con responsabile attenzione le questioni legate all’impatto delle attività antropiche sugli ecosistemi e quindi sono considerati a pieno diritto gli interlocutori naturali di chi proprio su queste tematiche elabora teorie e studi (il libro) o costruisce un affascinante prodotto cinematografico (il film), basandosi sugli scenari climatici ipotizzati a seguito di autorevoli studi scientifici. L’ultimo dei quali - in ordine di tempo - era stato commissionato dal Pentagono ed è stato tenuto segreto per mesi prima di essere divulgato, evidentemente a causa della recalcitranza del maggior produttore mondiale di gas serra (gli Stati Uniti) a sottoscrivere il protocollo di Kyoto (il rapporto del Pentagono sul clima è disponibile su: http://www.verdi.it/download/rapportopentagono.zip).
Né il libro, né il film possono essere tacciati di “antiamericanismo”, formula semplicistica con cui la mancanza di argomentazioni dei fautori della politica pseudo-liberista (ma nei fatti molto più protezionista di quanto si voglia far credere) di George W. Bush e dei suoi coscritti, per convinzione o per calcolo politico, liquida chiunque abbia l’ardire di esprimere critiche all’operato dell’”impero del bene”. L’autore del libro è uno scrittore americano ed insegna all’Università di Santa Rosa in California, mentre la casa cinematografica che ha prodotto “L’alba del giorno dopo” è niente po’ po’ di meno che la celeberrima 20th Century Fox, una delle più quotate major cinematografiche a stelle e strisce.
Ovviamente il libro, essendo un vero è proprio saggio, contiene molti elementi di approfondimento e basa le sue argomentazione su dati più che attendibili e su considerazioni molto ben circostanziate. In pratica la tesi del libro è che l’umanità ha potuto permettersi uno sviluppo (tecnologico, industriale, produttivo, ecc.) molto rapido nell’ultimo secolo grazie all’utilizzo di una risorsa energetica di facile utilizzabilità come il petrolio, le cui caratteristiche fisiche e chimiche ne hanno fatto la fonte di energia ideale per gran parte delle esigenze. Senza tenere conto delle conseguenze ambientali che un uso incontrollato delle risorse petrolifere comporta l’autore cerca di sottolineare che l’attuale trend di crescita dei consumi è del tutto insostenibile e alcuni dei grandi produttori (e consumatori) di petrolio (tra cui gli Stati Uniti) hanno già superato il cosiddetto “picco di produzione”, al di là del quale i costi di estrazione diventano sempre più elevati e per mantenere inalterati i consumi è necessario attingere ad altre riserve (siano esse fonti tradizionali o rinnovabili). E la continua crescita dei consumi a livello globale farà sì che nel giro di pochi anni (si parla del 2020) si arriverà al massimo della curva di Hubbert (che descrive l’andamento della produzione petrolifera mondiale). Facile immaginare cosa succederà “dopo”. La produzione petrolifera diminuirà costantemente. Il costo dell’estrazione aumenterà, visto che bisognerà trivellare a profondità sempre maggiori. L’energia (di qualunque tipo) costerà ogni giorno di più. Le conseguenze sull’economia, sull’industria, sui trasporti, sui salari saranno immediate e drammatiche. Se non si avrà la capacità di modificare la politica energetica prima che “finisca la festa”, l’impatto sarà davvero traumatico. Purtroppo, come sottolinea lo stesso autore, per i politici è più facile continuare a professare ottimismo e illusioni (e dalle nostre parti possiamo vantare uno dei migliori interpreti di questa filosofia), piuttosto che affrontare con senso di responsabilità un “redde rationem” non più differibile, spiegando che il nostro stile di vita e i nostri consumi non sono compatibili con le risorse del nostro pianeta. Per il momento si preferisce sacrificare vite umane e risorse (anche energetiche) per avventurarsi in improbabili crociate salvifiche che hanno come unico e malcelato obiettivo quello di prendere il controllo di importanti riserve petrolifere, rimandando semplicemente il problema (e solo per alcuni).
Il film non ha pretese pedagogiche. Trae spunto da alcuni studi scientifici sul clima, prende in considerazione una delle ipotesi emerse dagli studi dei climatologi, la adegua alle esigenze cinematografiche (contrazione dei tempi, accentuazione degli effetti delle calamità, ecc.) e ne fa una rappresentazione in stile hollywoodiano, inserendo tutti gli ingredienti necessari (effetti speciali, personaggi, suspance, sentimenti) per renderla godibile per un vasto pubblico. L’operazione riesce perfettamente e senza indebolire alcuni spunti di riflessione che il regista dissemina qua e là nella pellicola. Grazie ad essi Emmerich ci dà modo di pensare che non si appartiene al nord o al sud del mondo per meriti personali o scelte divine e che – a parti invertite, come avviene nel film – potremmo essere noi a bussare alla porta dell’altro emisfero in cerca di rifugio e cibo. Il regista ci ricorda infine che il pianeta terra è l’unico che abbiamo e dovremmo cercare di trattarlo con un po’ più di rispetto, non solo perché ci ospita, ma soprattutto tenendo conto che dalla sua buona salute dipende anche la nostra e quella dei nostri figli.


Tullio Berlenghi

24 febbraio 2004

Fermatelo!

22 febbraio 2004. Una breve telefonata del presidente di una squadra di calcio ad una nota trasmissione sportiva innesca una inspiegabile polemica sull’opportunità del suo intervento televisivo. Il fatto che il presidente della squadra di calcio sia – del tutto incidentalmente – anche capo del Governo, nonché candidato (seppure incompatibile) al Parlamento europeo in cinque collegi elettorali su cinque appare ai più la trita litania cattocomunista antiliberista che vuole impedire a un semplice tifoso di esprimere le proprie valutazioni tattiche su una partita di calcio.
4 marzo 2004. Il proprietario di una nota compagnia di assicurazioni telefona alla trasmissione televisiva “Mi manda Raitre” per illustrare i vantaggi delle polizze assicurative della propria compagnia. Patetiche le critiche dei rappresentanti delle opposizioni, che ritengono l’episodio lesivo dei principi della trasparenza e della concorrenza e speculano ignobilmente sul fatto che l’autore della telefonata sia anche il Presidente del Consiglio, come se fosse una colpa.
6 marzo 2004. Tra gli ospiti della intramontabile kermesse canora, organizzata quest’anno da un celeberrimo cantante, apprezzato più per le prestigiose frequentazioni che per le doti canore, la figura di maggiore spicco è quella del compositore-paroliere-cantante che ha imposto sul mercato un sublime prodotto fonografico, che è andato letteralmente a ruba tra i quadri e gli iscritti del principale partito di maggioranza. Incomprensibili le proteste di un gruppo di facinorosi, immediatamente trasferite nella vicina caserma di Bolzaneto per accertamenti. Uno dei fermati sembra fosse in possesso di un’arma impropria (un doppio cd di De Gregori).
18 marzo 2004. A “La sai l’ultima” un simpaticissimo barzellettiere meneghino in doppio petto sbaraglia tutta la concorrenza con una esilarante serie di gag su ebrei, nazisti, negri e omosessuali. Incapaci di cogliere la qualità dell’umorismo molti rappresentanti dell’opposizione e della società civile scrivono una accorata lettera di protesta ai giornali per il contenuto delle barzellette e per il fatto che siano state raccontate dal primo ministro. La lettera è stata pubblicata solo dai giornali di chiara ispirazione comunista.
22 marzo 2004. Linea Verde trasmette uno speciale di quattro ore sulle essenze arboree all’interno di una splendida villa situata in un paesino della Lombardia. Sterili polemiche sul fatto che la villa sia di proprietà del presidente del Consiglio e che il padrone di casa abbia messo a disposizione la sua immensa competenza botanica a beneficio del pubblico.
8 aprile. A “La prova del cuoco” si esibisce una coppia formata dal cuoco Michele e dal suo datore di lavoro, un affermato imprenditore milanese che nel tempo libero si occupa anche di governare il paese. Il menù proposto è un successo strepitoso. Emilio Fede decide di preparare un tg speciale di approfondimento per dare ai telespettatori tutti i dettagli su come preparare la ricetta e su come scegliere gli ingredienti.
18 aprile. A “Per un pugno di libri” puntatona sull”Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Vince uno smagliante intellettuale liberista che dà prova di una grande conoscenza dell’opera. Incomprensibili le proteste di una certa sinistra, solo perché il vincitore, per celebrare il successo, intona l’ultima versione dell’inno di Forza Italia (Renis, Apicella, Bondi, Schifani) ed è costretto ad interromperlo all’arrivo del telegiornale della sera.
29 aprile. A “Bisturi” tutti i preparativi, i retroscena e le fasi salienti di una storica operazione di lifting che ha permesso ad un anziano signore pieno di rughe di trasformarsi in un anziano signore pieno di boria.
1 maggio. Megadiretta televisiva a reti unificate del concerto del 1° maggio, in modo che nessuno possa dire che non venga dato spazio alla sinistra e ai sindacati. Sul palco di San Giovanni sale il più facoltoso operaio della storia dei lavoratori italiani. Tripudio della folla, che ha reso necessario l’intervento dell’esercito e degli idranti per impedirne l’abbraccio affettuoso nei confronti dell’illustre ospite d’onore. La sinistra si spacca. C’è chi dice che vi sia stato un uso scorretto del mezzo televisivo e chi sostiene che in fondo va bene così purché poi lo si mandi sul serio in miniera.
4 maggio. Con un comunicato congiunto RAI-Mediaset si annuncia la programmazione di una striscia quotidiana a reti unificate di otto ore diretta e condotta da un volto nuovo del mondo dello spettacolo che, per la circostanza, scriverà le musiche, i testi, sceglierà gli ospiti, selezionerà gli argomenti, deciderà le inquadrature, coordinerà le luci e farà partire gli applausi preregistrati. Grande fermento e curiosità sul nome del protagonista.
14 giugno. Nessuno si preoccupa di come siano andate le elezioni. Sono tutti felicissimi. A destra, a sinistra, al centro. A quanto pare per qualche mese si potrà tornare a guardare la televisione in pace.

Tullio Berlenghi

20 gennaio 2004

E per la bicicletta briciole di strada

Questo articolo è stato pubblicato sull'inserto "Ecomondo" della rivista "Vita"


Quando si parla di pianificazione della mobilità urbana, di strategie per il trasporto, di interventi per la riduzione dell’inquinamento da traffico veicolare e per il miglioramento della qualità dell’aria (e della vita) viene individuata una serie di azioni possibili, in cui viene inserito (normalmente all’ultimo posto) anche il punto “piste ciclabili”, messo lì quasi a tacitare le coscienze di chi redige il programma di intervento, ma che ben poca fiducia ripone nella reale possibilità che la vecchia e scomoda bicicletta possa in qualche modo contribuire a risolvere i problemi della mobilità in ambito urbano. Le cose serie su cui intervenire sono altre e, di solito, si basano su un’impostazione che mette al centro di qualsiasi ragionamento sempre e indiscutibilmente l’automobile. Ecco quindi che si pensa alla realizzazione di nuovi parcheggi (talvolta in prossimità dei punti di attrazione sociale: zone commerciali, uffici, servizi, ecc.), agli interventi per la “fluidificazione” del traffico, a nuove infrastrutture di collegamento (assi viari, tangenziali, ecc.). In seconda battuta si pensa al potenziamento del trasporto pubblico (ma di rado in concomitanza con la creazione di percorsi riservati e protetti). Dopodiché si passa all’elencazione delle misure stravaganti, in ordine inverso rispetto alla fiducia che ispirano, come il car-pooling, il car-sharing, via via fino alle “piste ciclabili”.
Già il fatto che, anziché parlare di mobilità ciclistica, come correttamente fa la legge quadro che ne norma gli interventi di promozione e di diffusione (legge 19 ottobre 1998, n. 366), si parla di “piste ciclabili”, che costituiscono l’infrastruttura più onerosa e di difficile realizzazione (soprattutto in ambito urbano) la dice lunga sulla principale difficoltà che incontra la diffusione della mobilità in bicicletta. Questa difficoltà è culturale, prima ancora che infrastrutturale, e a ben poco servirebbe la realizzazione di una rete di piste ciclabili (sottraendo magari parcheggi e corsie alle automobili) se prima non si diffonde una cultura della bicicletta, magari cominciando da piccoli – e meno costosi – interventi per promuovere l’uso delle due ruote. La legge 366 del 1998 prevede un elenco di questi interventi e le piste ciclabili sono solamente una delle possibili realizzazioni.
Indubbiamente la loro presenza è una cartina di tornasole dello stato di salute della mobilità ciclistica di un determinato luogo. Ma Ferrara – che è la città ciclabile italiana per antonomasia – non vanta il 30 per cento degli spostamenti urbani in bicicletta perché ci sono le piste ciclabili. A Ferrara si va in bicicletta perché c’è una cultura della bicicletta e perché tutti sono consapevoli di quanto sia più pratico muoversi in bicicletta (sia riguardo ai tempi che ai costi) rispetto alla mobilità motorizzata. Se a questo si aggiunge una grande sensibilità dell’amministrazione comunale verso i ciclisti urbani e un maggiore rigore nell’applicazione del codice della strada ecco che si capisce quale sia la ricetta giusta.
Insomma sarebbe sufficiente che coloro i quali studiano gli interventi da attuare sulla mobilità urbana fossero consapevoli del fatto che il 40 per cento degli spostamenti in ambito urbano sono al di sotto dei 4 o 5 chilometri, distanza che può essere tranquillamente percorsa in bicicletta, per dare un serio impulso ad una politica dei trasporti in ambito urbano che abbia davvero come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita di tutti, automobilisti compresi.
L’altro punto dolente dell’attuazione della legge 366 del 1998 è il versante finanziario. La legge non ha mai avuto finanziamenti adeguati all’esigenza di compensare il gap (che abbiamo visto essere sia culturale che infrastrutturale) con le molte realtà europee, le quali, a dispetto di una situazione climatica meno clemente (si pensi a Danimarca, Olanda, Germania, Austria, Gran Bretagna), hanno una maggiore diffusione della mobilità ciclistica e investono somme ragguardevoli per il suo sviluppo (la sola Gran Bretagna ha dedicato una parte significativa del proprio piano decennale della mobilità allo sviluppo della mobilità ciclistica, prevedendo, nei primi cinque anni di azione del piano, la realizzazione di ben 4300 km di piste ciclabili: 850 km all’anno). E così il già poco confortante quadro finanziario della legge, sta vivendo, in questi ultimi tre anni, il momento più nero della sua storia. Le manovre economiche varate dal Governo Berlusconi degli ultimi tre anni hanno stanziato complessivamente 1,5 milioni di euro per finanziare la mobilità ciclistica nel quinquennio 2002-2006. Tradotto in piste ciclabili significa 12 chilometri. Meno di un chilometro di pista ciclabile a regione. Praticamente un metro e mezzo di pista ciclabile per ogni comune.

13 gennaio 2004

Finanziaria 2004. Un po' meno per tutti

In un paese “normale” e democratico l’operato di un Governo, quale che sia, verrebbe valutato ed eventualmente sottoposto a critica da parte dei cosiddetti “organi di stampa”, molti dei quali senza preconcetti esprimerebbero un giudizio sulla qualità dell’azione di governo. Così non è in Italia, dove lo spazio per la critica viene lentamente, ma inesorabilmente ridotto e dove non arriva la censura, arrivano l’opera di persuasione da parte di chi ha un briciolo di potere nel mondo mediatico e il senso dell’opportunità da parte di chi in quel mondo ci lavora (il vecchio e mai tramontato “tengo famiglia”). Ne esce un desolante panorama (involontario il riferimento ad una delle testate del Presidente del Consiglio) in cui – facendosi beffe della Costituzione, delle sentenze della Suprema Corte, dei reiterati inviti da parte del Capo dello Stato – una maggioranza sempre più arrogante e spocchiosa e un capo del Governo privo di ogni senso dello Stato hanno occupato militarmente l’intero etere, ben sapendo che attraverso di esso passa il 95 per cento dell’informazione ufficiale. L’informazione della carta stampata (anch’essa in parte controllata dalla maggioranza) costituisce ben magro pericolo per chi guida un Paese dove si legge in media meno di un libro all’anno e dove i quotidiani sono letti da una modesta percentuale della popolazione. Ne consegue così un’informazione che assomiglia molto a quella del Ministero della Verità del ben noto romanzo di Orwell, 1984. Anche se la notorietà gli è stata purtroppo data dallo scippo della locuzione “grande fratello”, che ha dato il titolo ad una delle peggiori trasmissioni televisive della storia. In pratica alcuni funzionari di quel ministero, tra cui Winston, il protagonista, erano addetti alla modifica dei dati dell’archivio storico in modo da poter diffondere tutte le falsità possibili, senza tema di smentita, perché veniva cancellata anche la “memoria”. E se, ad esempio, venivano ridotte le razioni alimentari, il Ministero della Verità faceva credere che le razioni erano aumentate, illudendo i cittadini di un miglioramento del loro benessere. Guai ovviamente ad esprimere perplessità o critiche: il sistema interveniva prontamente con azioni intimidatorie (o peggio). Quello che avviene in Italia in questo momento ha delle preoccupanti similitudini con la dittatura in cui viveva Winston e non è un caso che si parli poco e in modo scorretto della situazione economica del nostro Paese e la stragrande maggioranza dei TG hanno preferito propinarci lunghi servizi sul cenone di Capodanno piuttosto che soffermarsi sui contenuti della terza manovra economica predisposta dall’ineffabile Tremonti. E allora proviamo noi a fare qualche considerazione sul contenuto della manovra, sull’andamento dei conti pubblici e sulle prospettive della nostra economia.
Dopo le roboanti promesse del 2001 e il loro puntuale rinnovo in ogni circostanza utile ci troviamo di fronte alla legge finanziaria per il 2004, quella che permette di fare il giro di boa della legislatura, e che dovrebbe consentire un primo rendiconto sull’attuazione del programma di governo (e questo esecutivo è stato persino capace di istituire un ministro con questa funzione). Per fare questo dovremmo dare un’occhiata – visto che ancora non esiste il Ministero della Verità – al primo Documento di Programmazione Economico-Finanziaria predisposto dal Governo Berlusconi, come aggiornato “dopo” l’11 settembre (in modo che non vi sia spazio per alibi di alcun tipo). Ebbene il documento contabile firmato dal tandem Berlusconi-Tremonti, prevedeva, in virtù dei prodigiosi interventi a sostegno dell’economia e dell’industria che avevano in animo di realizzare, una crescita del PIL superiore al 3 per cento su base annua a partire dal 2002, mettendo in pratica la semplice ricetta berlusconiana: infondere ottimismo e fiducia e creare così i presupposti per un rilancio delle spese e, di conseguenza, dell’economia.
A questo punto appare doveroso precisare che i paladini del totem PIL come valore unico e indiscutibile del benessere di una nazione sono quelli che siedono ai banchi del governo e sarebbe – da parte loro – ipocrita sminuirne proprio ora l’importanza. Personalmente ho un approccio molto più disincantato al modello economico a cui fanno riferimento i paesi occidentali e nutro delle personali perplessità sui parametri utilizzati per impostare i bilanci nazionali, attribuendo incomprensibili valori positivi ad eventi come alluvioni o disastri ambientali, solo perché – applicando pedissequamente le teorie keynesiane – mettono in moto dei settori economici. In pratica non si tiene mai conto della perdita in termini di “patrimonio” o di benessere che alcuni eventi determinano, leggendo solo in modo miope il modesto contributo al prodotto interno lordo.
Guardiamo ora l’economia italiana del 2003: in ciascuno dei primi due trimestri la crescita economica è risultata negativa per lo 0,1 per cento, determinando così quella che tecnicamente viene definita “recessione”. Il debito pubblico ha toccato il suo massimo storico superando la quota di 1400 miliardi di euro. Il terzo dei parametri di Maastricht sotto controllo da parte degli osservatori internazionali è il rapporto deficit/PIL che nel 2002 è stato del 2.3 per cento a fronte dello 0.5 ipotizzato dalle stime governative. Insomma un disastro su tutta la linea, ma non c’è da stupirsi visto che l’attività parlamentare dei primi due anni si è concentrata sugli “affari del presidente”, dalla depenalizzazione del falso in bilancio alla legge salva-Previti, dall’abolizione della tassa di successione per i grandi capitali (spacciata come un provvedimento di cui tutti avrebbero beneficiato in qualche modo) alle norme sulle rogatorie internazionale, dall’immunità ad personam alla legge Gasparri e al decreto-legge per aggirare il veto del Capo dello Stato. In fondo bisogna dare atto al Governo che, con tutto quel gran daffare per salvaguardare alcuni interessi privati, si è un po’ perso di vista quello pubblico (di interesse). E così, finita l’estate del 2003, Tremonti e i suoi si sono seduti intorno ad un tavolo per cercare di far quadrare i conti tra la mille promesse fatte, lo stato dell’economia, gli interventi da adottare. Ne è venuta fuori quella che è stata definita una “finanziaria di galleggiamento” (omettendo per carità di patria i riferimenti alla sostanza su cui avrebbe dovuto galleggiare), con la quale di fatto sono state rimandate ancora una volta le promesse di ridurre le tasse e di realizzare faraoniche opere pubbliche (qualcuno ricorda la famosa legge obiettivo? Ebbene, l’elenco di 250 opere previsto è ancora ben lungi dal vedere la luce) e sono state poste in essere molte delle creative misure che hanno reso Tremonti così celebre.
Per un deprecabile mix di pudore e ipocrisia i tagli alle famiglie sono stati fatti in maniera indiretta, agendo sulla riduzione dei servizi (sociali, sanitari, culturali, ecc.) o dei trasferimenti agli enti locali (secondo una stima dell’ANCI i comuni hanno subito un taglio di oltre 800 milioni di euro), penalizzando la ricerca, la tutela ambientale, la difesa del suolo, i trasporti. Non è stata prevista la restituzione del fiscal-drag e non è mai stata realmente attuata la famosa bufala sull’aumento delle pensioni minime. Ancora una volta, incurante dei continui richiami da Bruxelles, il Governo ha varato una manovra costituita in gran parte da misure una tantum, che non risolvono i problemi dei conti pubblici, ma che in compenso fanno perdere credibilità al sistema Paese. Si pensi ai numerosi condoni fiscali che, pur di raggranellare qualche spicciolo per l’erario, premiano gli evasori e costituiscono un incentivo alla violazione delle leggi, ma si pensi anche alla terribile iattura del secondo condono edilizio degli ultimi dieci anni (entrambi firmati da Berlusconi), che legalizza la devastazione del territorio, penalizza le amministrazioni comunali (alle quali spetta il compito di sostenere gli oneri di urbanizzazione), beffa i cittadini onesti che si sono visti negare autorizzazioni e concessioni e indebolisce la già fragile certezza del diritto.
Sul piano del metodo abbiamo assistito ad un incredibile scippo delle prerogative parlamentari. Tre quarti della manovra sono stati varati con decreto-legge, approvato a colpi di fiducia sia al Senato che alla Camera. Il disegno di legge finanziaria, che pure conteneva disposizioni importanti, è stato “imposto” alla Camera con tre voti di fiducia, senza che i parlamentari potessero esprimere alcuna valutazione sul contenuto del provvedimento. Il tutto per evitare che una coalizione rissosa e litigiosa (fatte salve le circostanze in cui – compatta – ha approvato le norme di stretto interesse personale del premier) rischiasse di sfaldare definitivamente una manovra già di per sé incerta e traballante.
E così, nell’indifferenza più inquietante, il nostro Paese si avvia ad iniziare il quarto anno del secondo governo Berlusconi. Con un’inflazione “reale” che galoppa, con una crescita economica vicina allo zero, con il debito pubblico che cresce in maniera impressionante, con provvedimenti tampone che non fanno altro che rimandare – aggravandoli – i problemi strutturali. Studiando come unica soluzione – e in parte attuando – lo smantellamento dello stato sociale, riducendo i servizi a tutela della salute pubblica, della scuola (e non è un caso che siano aumentati i trasferimenti alla scuola privata) e tutti quelli di pubblica utilità. L’importante è non accorgersene. Fede è sempre lì a rassicurarci e a spiegarci che – se proprio c’è qualche problema – è eredità dei governi del centro-sinistra. Ma possiamo stare tranquilli. Loro sistemeranno tutto. Bisogna aver fiducia. E magari continuare a comprare, spendere, consumare. Sigla. Pubblicità.

Tullio Berlenghi

Alle colonne d'Ercole

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La mia ultima avventura