In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne l'associazione "Socialmente donna" di Labico ha organizzato tre giorni di iniziative. Questo è il mio contributo. Racconto la storia dell'ultima donna condannata a morte nel Regno Unito: Ruth Ellis.
Ruth
Ruth
Ellis e Albert Pierrepoint si incontrano il 13 luglio del 1955. Non è
esattamente un appuntamento galante, il loro. Ruth è una splendida donna. Ha 28
anni. E’ bionda e attraente. Ruth ha ucciso un uomo. E’ un assassina. Albert di
uomini (e di donne) ne ha uccisi molti di più… Però, tecnicamente – almeno sul
piano del diritto –, non è un assassino. Albert è un boia, lui uccide, sì, ma
per lavoro. E il suo lavoro, in quella tiepida mattina di luglio, si chiama
Ruth Ellis.
Siamo
nel Regno Unito, uscito vincitore dal conflitto mondiale e animato da un grande
fermento sociale, culturale ed economico. Winston Churchill si è appena dimesso
da primo ministro. La regina è Elisabetta II, sì, proprio lei. E’ salita al
trono da soli due anni ed è molto giovane. E’ una coetanea di Ruth. Ma
l’orologio della vita di Ruth si fermerà quella mattina. Alla regina le cose
andranno decisamente meglio.
Albert
è un professionista scrupoloso. Figlio d’arte. Il padre, Henry, gli ha
insegnato molto presto il mestiere e lui ormai sa fare molto bene il suo
lavoro. Lo strumento usato per le esecuzioni nel civilissimo Regno Unito è la forca. I malviventi
vengono impiccati. E se la pena capitale è barbarie, l’impiccagione lo è un po’
di più. Il rischio è che l’esecuzione si trasformi in un’angosciante agonia.
Albert lo sa bene e ha studiato, come fa sempre, con cura la situazione. Ha
preso le misure di Ruth e ha preparato gli strumenti: il metro da sarto, una
corda di due metri e mezzo e un peso di 47 kg da legare ai piedi di Ruth. Il peso serve
a ridurre al minimo la sofferenza, ma non deve essere eccessivo per non
rischiare che la scena di morte diventi ancora più cruenta. I preparativi
producono l’effetto desiderato. Ruth ci mette appena 12 secondi a morire.
Certo, per la povera Ruth
quei 12 secondi saranno stati interminabili, ma meglio di così Albert proprio
non poteva fare. Poi, per un’ora, il corpo senza vita di Ruth rimane appeso al
patibolo. L’esecuzione pubblica e l’orrore supplementare dell’esposizione del
corpo trovano la loro giustificazione in una cultura giuridica che attribuisce
alla pena un’efficacia sotto il profilo della prevenzione (la vista di quel
corpo senza vita penzolante come monito al rispetto delle leggi).
Fermiamoci
un istante e torniamo indietro. Chi è Ruth?
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Ruth
Hornby è una donna affascinante, bionda e appariscente. Nata nel 1926 (come
Elisabetta…) in una cittadina gallese sul mare, dalle parti di Liverpool. Il
padre suonava il violoncello e la madre era una rifugiata belga. E’ la terza di
sei figli. Origini modeste, dunque, ma Ruth non si può certo definire figlia
del degrado e della disperazione.
Certo,
è cresciuta in fretta, ma è difficile misurare le cose con il metro dei nostri
tempi. Ruth, ad esempio, ha iniziato a lavorare come cameriera a 14 anni. Nulla
di strano, all’epoca. Così come non è insolito che una ragazza rimanga incinta
a 17 anni, come capita a Ruth a seguito di un fugace incontro con un soldato
canadese, già sposato e che per circa un anno le manda qualche soldo per il
mantenimento del figlio, ma che fa perdere in fretta la proprie tracce.
Insomma
a 18 anni Ruth è già una ragazza madre e in qualche modo cerca di arrangiarsi.
Non ci mette molto a capire che la sua bellezza può permetterle compensi di
gran lunga più allettanti rispetto alla paga da cameriera. All’inizio le basta
mostrare il proprio corpo, sulle prime come modella di nudo, poi come entreneuse nei night club. Il passo
successivo non è difficile da immaginare. Probabilmente non è esattamente una
scelta “libera”. Inquadriamo il
contesto. Siamo in un locale dove gli avventori sono quasi esclusivamente
uomini e il “prodotto” offerto non è tanto il whisky scadente o la mediocre
orchestrina. Chi entra nel Court Club in Duke Street è interessato ad altro. E,
in quell’altro, c’è anche lei, Ruth, bellissima ventenne. Talmente bella che lo
stesso direttore del Court Club non se la lascia sfuggire e le fa capire un
paio di cose: che se vuole continuare a lavorare lì se lo deve meritare e che,
con un po’ di buona volontà, i suoi guadagni possono salire.
Ed è
così che Ruth, grazie alla sua buona volontà e a quella di uno dei clienti del
night club, si ritrova di nuovo incinta. E una gravidanza non è esattamente
gradita in un simile ambiente di “lavoro”, dove non sono certo previsti
l’astensione per maternità e i congedi per l’allattamento. Ancora una volta la
sua scelta è “condizionata” e abortisce (tra l’altro commettendo un reato). Deve
tornare a “lavorare” prima possibile.
Nel 1950, a 24 anni, si sposa con
un uomo decisamente grande di lei, George Ellis. 41 anni, dentista, divorziato
con due figli, George non sembra esattamente un marito modello. Chi lo conosce
lo descrive come un uomo dedito all’alcol, violento, geloso e possessivo.
Inutile dire che il matrimonio non durerà molto. George rifiuterà persino di
riconoscere la figlia, frutto della loro unione. L’unica cosa che le lascia è
il cognome: Ellis.
Nel
1953 Ruth migliora la sua posizione. Adesso è lei a gestire un nightclub. E’ un
periodo “buono”. Ha molti ammiratori, spesso celebri e generosi, tra cui Mike
Hawthorn, un pilota di Formula Uno, appena entrato a far parte dell’illustre
scuderia italiana, la Ferrari, con la quale vincerà anche un mondiale. Sarà lui
a presentarle David Blakely.
David
Blakely è un bel ragazzo, benestante e di buone maniere (almeno finché è
sobrio). Correre in pista probabilmente per lui è semplicemente il passatempo
del rampollo dell’alta società inglese. Nel complesso è quello che si può
definire un “bravo ragazzo”, forse un po’ viziato. Il suo unico difetto è che
ama bere.
Tra
i due nasce subito una forte attrazione e dopo poche settimane dal loro primo
incontro David diventa un ospite fisso dell’appartamento di cui Ruth dispone sopra
al club.
Ruth
rimane incinta per la quarta volta, ma decide di abortire. Teme di non essere
in grado di ricambiare il sentimento dimostrato da David nei suoi confronti.
Nel frattempo nasce una relazione con Desmond Cussen, un ex pilota della RAF.
Sarà lui ad ospitarla quando il Club le darà il benservito.
Ruth
e il figlio vivono con Desmond come se fossero una vera famiglia. Desmond si
occupa molto del bambino. Ruth, nel frattempo, continua a vedersi con David, in
una relazione che diventa sempre più conflittuale, morbosa e violenta. A un
certo punto David le propone di sposarla e lei, all’inizio, accetta. Al
matrimonio, però, non arriveranno. Durante uno dei frequenti litigi David la
colpisce violentemente al ventre con un pugno. Ruth di botte ne ha prese tante
in vita sua. Non è stata molto fortunata con gli uomini e un po’, alla
violenza, ci si è abituata. Stavolta è diverso. Forse perché quella notte Ruth
si sveglia in un lago di sangue. Quel cazzotto le causa il suo terzo aborto. Con
quel cazzotto, probabilmente, in Ruth si spezza anche qualcos’altro.
E’
chiaro che tra Ruth e David non ci sono prospettive, non c’è un futuro. David
ormai sembra non volerne più sapere di lei. Ruth è una donna innamorata e
ferita. Si sente umiliata e abbandonata. Il 10 aprile del 1955 è domenica. E’
la domenica di Pasqua. Ruth va a cercare David. Lo fa con una pistola in tasca.
Una Smith & Wesson calibro 38, modello Victory. Un arnese di un chilo. A
tamburo, di quelle che non si inceppano. Roba in dotazione ai militari e alla
polizia. Chi ha dato la pistola a Ruth? Non è la sua, ma nessuno si preoccupa
di come se la sia procurata. Lo aspetta vicino alla sua automobile e, quando lo
vede arrivare, lo chiama per nome. Lui le passa davanti senza neppure degnarla
di uno sguardo. Il bivio che separa i possibili destini non è sempre facile da
riconoscere. E non sapremo mai se sia stata quell’ostentata indifferenza a far
calare, anche se solo per pochi istanti, il buio nella mente di Ruth. A farle
abbandonare ogni logica, ogni riflessione, ogni scrupolo (anche per il futuro
dei suoi figli) e a farle premere il grilletto. Una prima volta, andata a
vuoto, e poi, una seconda, una terza, una quarta. Fino all’ultima, quando ormai
David è a terra. Avvicina la pistola al suo corpo e spara ancora.
Le
indagini della polizia sono decisamente agevoli e rapide. Ruth non nega mai
alcuna responsabilità, né cerca di assecondare le strategie difensive che il
suo legale le propone, per esempio sconsigliandole un abbigliamento troppo
“vistoso”. Affronta il processo a testa alta e forse qualcuno della giuria interpreta
come arrogante il suo atteggiamento.
Quando
il pubblico ministero le chiede perché abbia sparato a David, lei risponde
candidamente: “E’ ovvio, per ucciderlo”. Non c’è bisogno di molto altro per
chiudere velocemente il processo. Nessuno pensa di farsi (e di fare) troppe
domande. Nessuno, ad esempio, chiede come mai Ruth avesse una pistola. L’arma
le è stata data da Desmond, che l’ha persino accompagnata sul luogo del
delitto. Un comportamento quantomeno irresponsabile. La donna era sicuramente
agitata e nessuno, con un briciolo di buonsenso, avrebbe dovuto darle un’arma
carica e accompagnarla dall’uomo verso il quale Ruth prova collera e rancore,
ma che era convinta di amare. Lo scrive anche nell’ultima lettera che manda ai
genitori di David: “Ho sempre amato vostro figlio, e morirò continuando ad
amarlo”. Non cerca perdono, non chiede commiserazione.
Tutto
questo non è stato minimamente considerato. Del resto, lo scenario è l’ideale
per una condanna esemplare. Lui, la vittima, un “bravo ragazzo” colpevole solamente
di essersi infatuato di “quel” tipo di donna. Lei, l’assassina, bella e algida
seduttrice, che non ha sopportato l’idea che lui si sia stancato di lei. Il
dramma perfetto. Infatti, la giuria ci mette appena 14 minuti a stabilire, non
la colpevolezza di Ruth, che non è in discussione, ma che Ruth meriti di essere
impiccata. Non c’è bisogno di aprire un dibattito sulla pena capitale, sulla
sua efficacia in termini preventivi e sulla sua giustizia in termini
retributivi (la punizione per quanto commesso). Bisogna solo farsi una semplice
domanda. A parti invertite, se David, il bravo ragazzo accecato dalla gelosia,
avesse ucciso Ruth, la donna dai facili costumi, sarebbero bastati 14 minuti
per emanare una sentenza di morte?
Ammiro molto il coraggio di Ruth Ellis! E anche la sua onestà nel voler pagare il suo crimine con la vita, affrontando l'impiccagione! L'autopsia confermò la rottura del collo, con morte istantanea, qualche secondo ed è tutto finito!
RispondiEliminaUna condanna senza pietà nei confronti di una donna che fu si carnefice del suo amante ma anche vittima. In in ordinamento più umano de la sarebbe cavata con non molti anni di carcere. Ma la giustizia britannica fu più spietata dei criminali che combatteva e non esitò s troncarle la vita sebbene militaddeyo diverse attenuanti a favore di questa sfortunata ragazza.
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