La comunicazione – non solo
politica – spesso funziona bene quando è caratterizzata dalla semplicità. I
messaggi diretti arrivano più facilmente. Per fare messaggi semplici servono
poche parole. E le parole che suscitano sensazioni positive sono un numero limitato.
Di conseguenza non è infrequente vedere le stesse identiche parole negli slogan
e addirittura nei nomi delle forze e dei movimenti politici, anche molto
diversi tra loro. La parola “libertà”, ad esempio, è nel nome del partito che
fino a pochi mesi fa era il principale attore politico (Popolo della libertà),
sia nel nome di uno dei suoi più determinati antagonisti (Sinistra, ecologia e
libertà). O le parole “alleanza” e “democrazia” (e derivati) che troviamo sia a
destra che a sinistra. E anche gli slogan spesso sono davvero molto simili ed è
veramente difficile pensare di poter decidere in base a questi pochi (e vaghi)
elementi. Ovviamente bisogna seguire la sensibilità del momento ed è per questo
che, da poco tempo, hanno fatto il loro ingresso nel vocabolario della politica
due parole del tutto assenti fino a qualche anno fa: “bene comune” (o “beni
comuni”). Un certo movimento culturale e di opinione è riuscito, lavorando con
fatica ed in controtendenza rispetto alla crescente legittimazione delle
politiche predatorie, ad affermare l’importanza della tutela e valorizzazione
di tutto ciò che ha un incommensurabile valore per la collettività e che,
pertanto, non può e non deve essere danneggiato, alienato, privatizzato o,
semplicemente, dissipato. Con la battaglia per l’acqua pubblica c’è stato un
momento di grande crescita di questa consapevolezza e la vittoria al referendum
ha convinto molte forze politiche ad “inseguire” il trend. Non per convinzione,
ma per opportunità. E il modo più immediato è quello del ritocco estetico. Così
i “beni comuni” sono entrati prepotentemente nel lessico della politica. Da
perfetti sconosciuti a protagonisti della scena. Chi non è riuscito a infilarli
nella ragione sociale ha dedicato loro almeno uno slogan. Uno slogan semplice, diretto, efficace.
Quanto innocuo. Perché chiunque può dire: “Viva i beni comuni”. Persino Berlusconi,
notoriamente ostile a tutto ciò che non è suo e di cui non si può appropriare.
Infatti, dopo lo slogan, si annida sempre, perniciosa e preoccupante, la
postilla, la specificazione, la precisazione. Spesso sottaciuta. E così gli autentici beni comuni:
l’acqua pubblica, il territorio, l’ambiente, la salute, la cultura, passano, di
fatto, in secondo piano rispetto alle reali (e inespresse) priorità. Il “bene comune” diventa il classico
specchietto per le allodole, il variopinto imballo per indurre il consumatore disattento
a comprare un prodotto. Attratto più dai colori della confezione che dalla
qualità del contenuto. Memo per le prossime elezioni: leggere con attenzione
gli ingredienti prima di scegliere il prodotto.
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