In occasione del flash mob di San Valentino, l'associazione "Socialmente donna" di Labico mi ha chiesto di raccontare le storie (vere) di due donne vittime di violenza. Questa è la seconda. Purtroppo anche in questo caso il racconto si basa sulla realtà.
Questa è una storia “sliding doors” - citando il film nel quale il destino della protagonista dipende dal fatto di riuscire o meno a prendere una metropolitana - il cui sviluppo è condizionato dalle porte scorrevoli del fato, un fato che, in questo caso, si chiama giustizia. Pensate: dal funzionamento della giustizia può dipendere la vita e il destino di una persona. La persona in questione si chiama Giovanna e ci racconta la sua storia.
Questa è una storia “sliding doors” - citando il film nel quale il destino della protagonista dipende dal fatto di riuscire o meno a prendere una metropolitana - il cui sviluppo è condizionato dalle porte scorrevoli del fato, un fato che, in questo caso, si chiama giustizia. Pensate: dal funzionamento della giustizia può dipendere la vita e il destino di una persona. La persona in questione si chiama Giovanna e ci racconta la sua storia.
Ho conosciuto Antonio nove anni fa.
C’è voluto poco perché iniziassimo a vederci, a frequentarci, insomma perché
iniziasse una “storia”. C’è voluto poco per decidere anche di andare a vivere
insieme. E c’è voluto poco, purtroppo
perché Antonio cambiasse, a cominciare dai modi, divenuti improvvisamente
sgarbati, volgari, offensivi. Così come è scomparsa la gentilezza, e sono
apparsi l’uso irrinunciabile dell’imperativo – nel modo e nel tono – e
l’indifferenza. Poi sono arrivate le parole. Dure come pietre, taglienti come
lame. Non serve la violenza a provocare il dolore. Spesso bastano le parole.
E ci si inizia a sentire sole e
inadeguate. Si comincia a percepire la propria casa come un ambiente ostile.
Però anche questo segnale non è sufficiente. Pensi: è solo un momento; forse
sono io ad irritarlo, dovrei essere più comprensiva. Alla fine però, come se
non bastasse, arrivano anche le botte. Senza una ragione plausibile. Arrivano e
basta. E, nonostante tutto, pensi ancora che le cose possano cambiare. Che
magari tra un’ora, o domani, o la settimana prossima tornerà tutto “normale”,
senza renderti conto che in realtà la normalità è proprio quella. E che l’unica
possibilità è quella di voltare pagina, fuggire.
Del resto non potevo neppure contare
sulla solidarietà femminile dell’altra donna che viveva con noi, la madre di
Antonio. Per lei, evidentemente, non ero all’altezza del figlio e non faceva
nulla per nascondere il suo disprezzo e rendere più mortificanti le umiliazioni
che ero costretta a subire. In qualche modo è stata lei a darmi l’opportunità
di fuggire, cacciandomi in malo modo da casa al termine dell’ennesimo, futile,
episodio di prevaricazione.
Quando mi si è chiusa quella porta
alle spalle ho capito che la mia vita non poteva essere lì dentro. Non era vita
quella e, soprattutto, non era mia. Non è facile allontanarsi dal proprio
figlio, ma la mia disperazione era tale da non permettermi altra scelta. E poi
io credevo nella giustizia. Avevo raggiunto la consapevolezza dei miei diritti
e non intendevo rinunciarvi. Avevo diritto alla mia vita, alla mia dignità,
alla mia libertà e, soprattutto, a mio figlio.
Ero orgogliosa della mia decisione.
An che se piena di paura e di incertezza sapevo di fare la cosa giusta. Sono
andata in un centro antiviolenza dove mi hanno accolta e aiutata. E’ stato
importantissimo e mi ha fatto tornare un po’ di fiducia e di speranza.
Purtroppo non riuscivo a vedere mio figlio, nonostante ne avessi il pieno
diritto. Eh sì, perché ho scoperto sulla mia pelle che avere un diritto e
poterlo esercitare non è esattamente la stessa cosa.
L’uomo che mi ha ferita e umiliata
per anni ha pensato bene di usare la più subdola delle rappresaglie per avere
osato ribellarmi e fuggire: impedirmi di vedere il mio bambino. Ma io avevo
fiducia nella giustizia, e con l’aiuto del centro antiviolenza, ho chiesto alle
“autorità competenti” di garantire il diritto mio e di mio figlio. Purtroppo la
giustizia non sta funzionando bene. Attendo invano da mesi senza poter riabbracciare il mio bambino.
C’è qualcosa che non funziona se la burocrazia statale favorisce gli aguzzini e
punisce le vittime. Io e Marco siamo indubbiamente le vittime, ma siamo stati
fagocitati in una procedura di difficile comprensione. Lo psicologo ha anche
detto che era necessario “preparare il bambino all’incontro con la madre”. Un incontro che comunque non è stato
possibile perché il padre – l’autore delle violenze – si è opposto. A nulla
sono serviti i tentativi di contattarlo direttamente, chiamandolo e mandandogli
degli sms in cui cercavo di fargli capire che il suo comportamento penalizzava
non solo me, ma anche nostro figlio.
In quei lunghi mesi ho fatto decine
di telefonate, ore di anticamera negli uffici dei servizi sociali. Il clima che
si è creato mi sta dando la sensazione di essere io il problema. In fondo per
gli impiegati degli uffici sembro essere una scocciatura… Alla fine, però, su
suggerimento delle persone a cui mi sono affidata, ho deciso di denunciare mio
marito per sottrazione di minore. Ora spero che la magistratura si muova in
tempi rapidi e mi renda giustizia…
Fermiamoci qui. Questa è la storia di Giovanna ad un certo punto. Se la
giustizia funzionerà come si deve, Giovanna potrebbe uscire dall’incubo della
violenza, riabbracciare il figlio e ricominciare una vita serena. Ma se la
giustizia non dovesse funzionare? E se Giovanna dovesse perdere la fiducia e
rinunciare all’affermazione dei propri diritti? Che storia ci racconterebbe
Giovanna? La stessa, almeno fino ad un certo punto? O? Sentiamo questa Giovanna
che ci racconta la sua storia.
Anche io ho conosciuto Antonio nove
anni fa. In effetti c’è voluto poco perché iniziassimo a vederci, a
frequentarci, insomma perché iniziasse una “storia”. Certo, c’è voluto poco per
decidere anche di andare a vivere insieme. Sì, in effetti, anche il mio Antonio
è diventato un po’ più intrattabile. Qualche volta forse non troppo gentile, ma
con tutti quei pensieri, poverino. Sì, anche qualche parolaccia, ogni tanto. Ma
chi non le dice al giorno d’oggi?.
Comunque mi sono sentita un po’ a
disagio. Forse ho dato peso a cose non troppo importanti. D’altronde pensavo:
“magari è solo un momento; forse sono io ad irritarlo, dovrei essere più
comprensiva”. Nel frattempo, era nato Marco, il mio, il nostro bambino. Ecco,
qualche volta mi ha picchiata, non so perché, forse era un periodo difficile
per lui. Nonostante qualche episodio, ero certa che le cose sarebbero cambiate
e che, presto o tardi, sarebbe tornato tutto normale.
Sì, ho avuto anche qualche problema
con la madre di Antonio, ma anche quella è una cosa a cui ho dato troppa
importanza. Le liti tra nuora e suocera sono all’ordine del giorno e non è che
si lascia il marito per quello. Certo, probabilmente, per lei non sono
all’altezza del figlio e non ha mai fatto nulla per nasconderlo. Ma come mi
comporterò io quando Marco avrà una moglie? In ogni caso è stato proprio un
litigio con mia suocera a farmi commettere l’errore di andarmene da casa.
Quando mi si è chiusa quella porta
alle spalle ero quasi convinta che la mia vita non poteva essere lì dentro. Ero
addolorata e sconvolta, al punto da abbandonare mio figlio. Fuori da lì ho
conosciuto delle persone che dicevano che mi avrebbero aiutato e mi hanno detto
che dovevo credere nella giustizia e che avevo diritto alla mia vita, alla mia
dignità, alla mia libertà e, soprattutto, a mio figlio.
Belle parole, le loro. Ero persino
orgogliosa della mia decisione. Anche se piena di paura e di incertezza ero
convinta di fare la cosa giusta. Mi hanno accolto al centro antiviolenza dove
mi hanno incoraggiato ad intraprendere le vie legali, sia nei confronti di
Antonio, sia con l’obiettivo di poter riabbracciare mio figlio, che da quel
momento non ho più visto.
Sono passati giorni, sono passate
settimane, sono passati mesi. Ma io continuavo a non poter vedere mio figlio. Mi
sono sentita sola. Ho fatto decine di
telefonate, ore di anticamera negli uffici dei servizi sociali. Il clima che si
era creato mi dava la sensazione di essere io il problema. In fondo per gli
impiegati degli uffici ero una scocciatura… Ancora una volta ho dato retta alle
persone che mi stavano “aiutando” e ho denunciato Antonio per sottrazione di
minore, con la sicurezza – dicevano – che in quel modo si sarebbe risolto tutto
in fretta.
E invece sono trascorsi altri lunghi
mesi senza poter vedere mio figlio e in me, piano piano, è iniziato il dubbio
di aver sbagliato. Forse aveva ragione mio marito a dirmi di non andare via da
casa. In fondo la cosa più importante per me è Marco. Tutto il resto non conta.
Non può essere più importante.
Alla fine ho chiamato Antonio. Mi ha
detto che posso vedere mio figlio. Devo solo smettere di incaponirmi con questa
storia. Forse davvero ho un po’ esagerato. Ho tolto il mandato all’avvocato,
una donna.
Sono a casa mia adesso. Con mio
figlio. Questo è l’importante. Se sono felice? Adesso non mi picchia più.
Certo, non dimentica di farmi notare quanti problemi abbiamo avuto per le mie
ubbie… ma non mi picchia. Felice? Beh. Ho mio figlio, l’amore della mia vita. E
lui? Lui un po’ è cambiato. Sì, mi fa sempre un po’ paura. Quando si
ammutolisce di colpo e capisco di aver detto o fatto qualcosa di male… ma
adesso si limita a urlare o a farmi rimanere male… Felice? Oddio felice… chi
può dirsi felice? Mi accontento, ecco, sì, mi accontento. E poi, avevo
un’alternativa?
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