16 febbraio 2014

Se questo è un uomo

In occasione del flash mob di San Valentino, l'associazione "Socialmente donna" di Labico mi ha chiesto di raccontare le storie (vere) di due donne vittime di violenza. Questa è la prima delle due. Gli unici elementi di fantasia sono i nomi dei protagonisti. Tutto il resto è drammaticamente vero.

Se questo è un uomo

I segnali. Bisogna saper cogliere i segnali. Spesso arrivano presto, prestissimo, ma non si riesce a dare loro la giusta importanza. In fondo, abbiamo sempre bisogno di dare fiducia alle persone e forse è giusto che sia così. Però i segnali non andrebbero ignorati del tutto.
Certo, all’inizio va sempre tutto bene. Conosci una persona, decidi che ti piace. Chissà poi perché proprio quella persona. Però ti piace e anche a lui tu piaci. Te ne accorgi da come ti cerca, da come ti guarda, dalle parole gentili nei tuoi confronti. Questa è una fase in cui i segnali non ci sono e, se ci sono, non è facile decifrarli. Ma è anche una fase – intensa, bella, appagante – destinata, prima o poi, a far posto alla “normalità”. Ad un rapporto -  come si dice? – stabile. Magari rafforzato dalla decisione di vivere insieme per condividere tutto. Quello è il momento in cui è difficile sembrare diversi da come si è in realtà. Si inizia a giocare a carte scoperte. I segnali, a questo punto, diventano sempre più evidenti. Il rispetto che si deve ad ogni essere umano e, a maggior ragione, a chi si dice di amare, viene meno. All’inizio in modo occasionale, poi sempre più frequentemente, finché l’equilibrio non si altera completamente, ma a quel punto è già tardi, la spirale della violenza è iniziata e uscirne non è facile. Stefania ne sa qualcosa.
Il primo episodio “grave”, tra Stefania e Michele, arriva a luglio del 2002. Hanno già un figlio, Giorgio, di appena sei mesi. Michele è disoccupato e il congedo per maternità di Stefania è ormai terminato. A casa servono i soldi e lei potrebbe riprendere a lavorare. Ne parla a Michele, la cui reazione è inattesa, immediata e violenta. Si mette ad urlare, afferra la moglie per i capelli, la sbatte contro il muro e inizia a picchiarla. Il bimbo, spaventato, piange. Secondo Michele è colpa di Stefania e delle sue urla. Già, Stefania, anziché subire in silenzio la violenza osa difendersi, gridare… Alla fine Michele si calma e chiede persino scusa, però, certo Stefania questa storia del lavoro se la poteva pure risparmiare. Stefania non denuncia Michele, anche per paura, e decide di lasciare il lavoro.
Ad aprile del 2004 Stefania è di nuovo incinta. Michele è disoccupato e Stefania è preoccupata. C’è bisogno di un reddito su cui contare. Suggerisce a Michele di cercare un lavoro. Già dallo sguardo di Michele Stefania intuisce di aver detto le parole sbagliate. Michele inizia ad urlare. Gli anni di convivenza hanno insegnato a Stefania ad avere paura del marito. Scappa e cerca rifugio in bagno, ma non serve. Michele spacca la porta, la trascina fuori per i capelli e minaccia di farla abortire con un calcio sulla pancia. Giorgio, che adesso ha circa due anni, si mette a piangere per lo spavento. Michele non tollera che il figlio pianga e aumenta la rabbia nei confronti di Stefania, responsabile, a suo avviso, del pianto del figlio. Da quel momento la brutalità di Michele non risparmierà neppure il piccolo Giorgio…
L’incubo di Stefania e dei suoi figli è destinato a durare molto tempo. Gli episodi di violenza, per futili motivi, se non gratuita, si susseguono. Un giorno Michele, in presenza di un amico di famiglia, non si fa scrupolo di dare un calcio al piccolo Giorgio – di soli tre anni – così rabbioso e potente da farlo volare in aria e sbattere sul tavolo, per poi aggredire Stefania, rea di essere corsa ad abbracciare il figlio piangente.
Devono passare altri due anni di soprusi e violenze perché Stefania trovi il coraggio di denunciare Michele. E’ l’autunno del 2007 e Michele esplode di rabbia alla vista della moglie e dei figli sdraiati sul letto a vedere la TV. Michele è fatto così. Non sopporta l’idea che i suoi figli stiano sul suo letto. Per esprimere il suo disappunto pensa bene di sferrare un pugno alla porta, rompendola. Poi rompe il televisore e, non pago, se ne va in giro per casa a distruggere tutto ciò che trova sotto mano. Stefania sporge querela, prende i bambini e va a stare a casa della madre. Dopo un mese, però, si lascia convincere e torna dal marito.
Bastano poche settimane, siamo a febbraio 2008, e Michele picchia nuovamente prima Giorgio – che aveva osato provare ad accendere la TV (un’ossessione per Michele, a quanto pare) – e poi Stefania, intervenuta a difendere il figlio e punita con un vero e proprio pestaggio.
Fermiamoci un attimo. Lasciamo stare i primi – timidi? deboli? impercettibili? – segnali. Partiamo dalla prima assurda violenza. Non la parolaccia, non il gesto sgarbato, neppure lo schiaffo. Che pure sono all’ordine del giorno. “Troia”, “Incapace”, “Deficiente”, erano le parole con cui Michele apostrofava la moglie. Partiamo dal primo vergognoso e inqualificabile raptus di violenza cieca e furiosa.  Nel 2002. Sono passati sei anni. Sei lunghi anni dei quali – un po’ per pudore, un po’ per ipocrisia - omettiamo anche l’orrore degli stupri che Stefania impara a subire come qualcosa di inevitabile. Di quanto tempo c’è bisogno ancora per mettere la parola “fine” a tutto questo? Non è un giudizio. E’ la voglia di capire perché, stando “dentro”, è così difficile reagire, mentre “da fuori” sembra tutto così ovvio. Come quando guardi i film e urli al protagonista “scappa”, perché tu hai capito che sta per succedere qualcosa. Stefania, al momento, non ha la consapevolezza o la forza o il coraggio. E continua a subire.
A novembre del 2009 Michele aggredisce Stefania in cucina. Non serve neppure un perché. Magari ha lasciato la caffettiera nel lavandino, oppure non ha ancora preparato la cena. E’ indifferente. Michele picchia la moglie di fronte ai bimbi. Il più piccolino, piangendo, si butta sulla madre per proteggerla. Anche questa volta Stefania cerca di allontanarsi da Michele, si rivolge anche ad un centro antiviolenza, ma ancora una volta si lascia convincere a tornare a casa. Teme che possano portarle via i figli e decide di dare a Michele un’altra possibilità.
La “pace” – ma chiamarla così è un eufemismo, visto che i maltrattamenti psicologici non cessano mai – dura un paio d’anni. Nell’inverno del 2011 le violenze ricominciano. I figli intanto sono diventati tre e basta il pianto della nuova arrivata per scatenare l’ira di Michele, che sbatte il povero Luigi contro il muro e lo picchia senza pietà, per poi scagliarsi contro Stefania che cerca vanamente di difendere il figlio.
Ancora scene di ordinaria follia a maggio del 2012, a settembre del 2012, a gennaio 2013, a marzo 2013, ad aprile 2013. Una violenza che non risparmia nessuno. Non certo Stefania, ma neppure Giorgio, di 11 anni, neppure Luigi, che di anni ne ha 9, e nemmeno la piccola Barbara, di appena 7 anni.

Solo nel 2013, dopo ben 11 di umiliazioni e soprusi, Stefania trova finalmente il coraggio di dire “basta”. Ha la fortuna di incontrare – oltre alle persone del centro antiviolenza – uomini delle istituzioni competenti e sensibili, che intervengono in modo efficace e tempestivo.  Stefania sta cercando di ricostruirsi una nuova vita. Sa che non sarà facile e sia lei che i bambini avranno bisogno di aiuto e sostegno, anche psicologico, per superare la paura e l’angoscia che li hanno accompagnati in questi lunghi anni. Il piccolo Giorgio ha voluto fare un brindisi alla mamma coraggiosa che è riuscita a liberarli da quel terribile incubo. Il piccolo Giorgio che, pochi mesi prima, aveva chiesto a Stefania: “perché papà fa così con me? Sembra che non sono suo figlio!”. No, Giorgio, non è così. Nessun uomo – che sia o meno il padre – ha il diritto di comportarsi così con un bambino. E nessun uomo – che sia o meno il marito – ha il diritto di ferire la dignità di una donna. Nessun uomo, per nessuna ragione, ha il diritto di abdicare alla propria umanità. 

1 commento:

  1. Ciao, ho voluto leggerla attentamente perchè durante il flash mob avevo perso molti passaggi. Bellissime le conclusioni. Grazie Tullio

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