In occasione del flash mob di San Valentino, l'associazione "Socialmente donna" di Labico mi ha chiesto di raccontare le storie (vere) di due donne vittime di violenza. Questa è la prima delle due. Gli unici elementi di fantasia sono i nomi dei protagonisti. Tutto il resto è drammaticamente vero.
Se questo è un uomo
I segnali.
Bisogna saper cogliere i segnali. Spesso arrivano presto, prestissimo, ma non
si riesce a dare loro la giusta importanza. In fondo, abbiamo sempre bisogno di
dare fiducia alle persone e forse è giusto che sia così. Però i segnali non
andrebbero ignorati del tutto.
Certo,
all’inizio va sempre tutto bene. Conosci una persona, decidi che ti piace.
Chissà poi perché proprio quella persona. Però ti piace e anche a lui tu piaci.
Te ne accorgi da come ti cerca, da come ti guarda, dalle parole gentili nei
tuoi confronti. Questa è una fase in cui i segnali non ci sono e, se ci sono,
non è facile decifrarli. Ma è anche una fase – intensa, bella, appagante –
destinata, prima o poi, a far posto alla “normalità”. Ad un rapporto - come si dice? – stabile. Magari rafforzato
dalla decisione di vivere insieme per condividere tutto. Quello è il momento in
cui è difficile sembrare diversi da come si è in realtà. Si inizia a giocare a
carte scoperte. I segnali, a questo punto, diventano sempre più evidenti. Il
rispetto che si deve ad ogni essere umano e, a maggior ragione, a chi si dice
di amare, viene meno. All’inizio in modo occasionale, poi sempre più
frequentemente, finché l’equilibrio non si altera completamente, ma a quel
punto è già tardi, la spirale della violenza è iniziata e uscirne non è facile.
Stefania ne sa qualcosa.
Il primo
episodio “grave”, tra Stefania e Michele, arriva a luglio del 2002. Hanno già
un figlio, Giorgio, di appena sei mesi. Michele è disoccupato e il congedo per
maternità di Stefania è ormai terminato. A casa servono i soldi e lei potrebbe
riprendere a lavorare. Ne parla a Michele, la cui reazione è inattesa,
immediata e violenta. Si mette ad urlare, afferra la moglie per i capelli, la
sbatte contro il muro e inizia a picchiarla. Il bimbo, spaventato, piange.
Secondo Michele è colpa di Stefania e delle sue urla. Già, Stefania, anziché
subire in silenzio la violenza osa difendersi, gridare… Alla fine Michele si
calma e chiede persino scusa, però, certo Stefania questa storia del lavoro se
la poteva pure risparmiare. Stefania non denuncia Michele, anche per paura, e
decide di lasciare il lavoro.
Ad aprile
del 2004 Stefania è di nuovo incinta. Michele è disoccupato e Stefania è
preoccupata. C’è bisogno di un reddito su cui contare. Suggerisce a Michele di
cercare un lavoro. Già dallo sguardo di Michele Stefania intuisce di aver detto
le parole sbagliate. Michele inizia ad urlare. Gli anni di convivenza hanno
insegnato a Stefania ad avere paura del marito. Scappa e cerca rifugio in
bagno, ma non serve. Michele spacca la porta, la trascina fuori per i capelli e
minaccia di farla abortire con un calcio sulla pancia. Giorgio, che adesso ha
circa due anni, si mette a piangere per lo spavento. Michele non tollera che il
figlio pianga e aumenta la rabbia nei confronti di Stefania, responsabile, a
suo avviso, del pianto del figlio. Da quel momento la brutalità di Michele non
risparmierà neppure il piccolo Giorgio…
L’incubo di
Stefania e dei suoi figli è destinato a durare molto tempo. Gli episodi di
violenza, per futili motivi, se non gratuita, si susseguono. Un giorno Michele,
in presenza di un amico di famiglia, non si fa scrupolo di dare un calcio al
piccolo Giorgio – di soli tre anni – così rabbioso e potente da farlo volare in
aria e sbattere sul tavolo, per poi aggredire Stefania, rea di essere corsa ad
abbracciare il figlio piangente.
Devono
passare altri due anni di soprusi e violenze perché Stefania trovi il coraggio
di denunciare Michele. E’ l’autunno del 2007 e Michele esplode di rabbia alla
vista della moglie e dei figli sdraiati sul letto a vedere la TV. Michele è fatto
così. Non sopporta l’idea che i suoi figli stiano sul suo letto. Per esprimere
il suo disappunto pensa bene di sferrare un pugno alla porta, rompendola. Poi
rompe il televisore e, non pago, se ne va in giro per casa a distruggere tutto
ciò che trova sotto mano. Stefania sporge querela, prende i bambini e va a
stare a casa della madre. Dopo un mese, però, si lascia convincere e torna dal
marito.
Bastano
poche settimane, siamo a febbraio 2008, e Michele picchia nuovamente prima
Giorgio – che aveva osato provare ad accendere la TV (un’ossessione per
Michele, a quanto pare) – e poi Stefania, intervenuta a difendere il figlio e
punita con un vero e proprio pestaggio.
Fermiamoci
un attimo. Lasciamo stare i primi – timidi? deboli? impercettibili? – segnali.
Partiamo dalla prima assurda violenza. Non la parolaccia, non il gesto
sgarbato, neppure lo schiaffo. Che pure sono all’ordine del giorno. “Troia”,
“Incapace”, “Deficiente”, erano le parole con cui Michele apostrofava la moglie. Partiamo
dal primo vergognoso e inqualificabile raptus di violenza cieca e furiosa. Nel 2002. Sono passati sei anni. Sei
lunghi anni dei quali – un po’ per pudore, un po’ per ipocrisia - omettiamo
anche l’orrore degli stupri che Stefania impara a subire come qualcosa di
inevitabile. Di quanto tempo c’è bisogno ancora per mettere la parola “fine” a
tutto questo? Non è un giudizio. E’ la voglia di capire perché, stando
“dentro”, è così difficile reagire, mentre “da fuori” sembra tutto così ovvio.
Come quando guardi i film e urli al protagonista “scappa”, perché tu hai capito
che sta per succedere qualcosa. Stefania, al momento, non ha la consapevolezza
o la forza o il coraggio. E continua a subire.
A novembre
del 2009 Michele aggredisce Stefania in cucina. Non serve neppure un perché.
Magari ha lasciato la caffettiera nel lavandino, oppure non ha ancora preparato
la cena. E ’
indifferente. Michele picchia la moglie di fronte ai bimbi. Il più piccolino,
piangendo, si butta sulla madre per proteggerla. Anche questa volta Stefania
cerca di allontanarsi da Michele, si rivolge anche ad un centro antiviolenza,
ma ancora una volta si lascia convincere a tornare a casa. Teme che possano
portarle via i figli e decide di dare a Michele un’altra possibilità.
La “pace” –
ma chiamarla così è un eufemismo, visto che i maltrattamenti psicologici non
cessano mai – dura un paio d’anni. Nell’inverno del 2011 le violenze
ricominciano. I figli intanto sono diventati tre e basta il pianto della nuova
arrivata per scatenare l’ira di Michele, che sbatte il povero Luigi contro il
muro e lo picchia senza pietà, per poi scagliarsi contro Stefania che cerca
vanamente di difendere il figlio.
Ancora
scene di ordinaria follia a maggio del 2012, a settembre del 2012, a gennaio 2013, a marzo 2013, ad
aprile 2013. Una violenza che non risparmia nessuno. Non certo Stefania, ma
neppure Giorgio, di 11 anni, neppure Luigi, che di anni ne ha 9, e nemmeno la piccola Barbara ,
di appena 7 anni.
Solo nel 2013, dopo ben 11 di
umiliazioni e soprusi, Stefania trova finalmente il coraggio di dire “basta”.
Ha la fortuna di incontrare – oltre alle persone del centro antiviolenza –
uomini delle istituzioni competenti e sensibili, che intervengono in modo
efficace e tempestivo. Stefania sta
cercando di ricostruirsi una nuova vita. Sa che non sarà facile e sia lei che i
bambini avranno bisogno di aiuto e sostegno, anche psicologico, per superare la
paura e l’angoscia che li hanno accompagnati in questi lunghi anni. Il piccolo
Giorgio ha voluto fare un brindisi alla mamma coraggiosa che è riuscita a
liberarli da quel terribile incubo. Il piccolo Giorgio che, pochi mesi prima,
aveva chiesto a Stefania: “perché papà fa così con me? Sembra che non sono suo figlio!”. No,
Giorgio, non è così. Nessun uomo – che sia o meno il padre – ha il diritto di
comportarsi così con un bambino. E nessun uomo – che sia o meno il marito – ha
il diritto di ferire la dignità di una donna. Nessun uomo, per nessuna ragione,
ha il diritto di abdicare alla propria umanità.
Ciao, ho voluto leggerla attentamente perchè durante il flash mob avevo perso molti passaggi. Bellissime le conclusioni. Grazie Tullio
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