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Piogge, temporali, nubifragi, alluvioni sono eventi atmosferici naturali, in alcuni casi di forte intensità, quindi meno frequenti, ma che rientrano nella norma e sono prevedibili, magari non esattamente nel momento in cui si verificheranno (anche se l’attuale meteorologia ci consente di fare delle ipotesi abbastanza attendibili), ma sicuramente sul fatto che possano avvenire e più o meno si è in grado di immaginare le possibili conseguenze. Il vero problema è che quando si compiono scelte importanti nella pianificazione territoriale si tendono a trascurare aspetti importantissimi: il consumo del suolo, la fragilità del territorio, la razionale organizzazione dell’abitato, il rischio idrogeologico, il rischio sismico, la qualità complessiva degli edifici anche sotto il profilo energetico. Fattori questi che sono tristemente subordinati a quello che troppo spesso è il vero motore delle scelte urbanistiche: il profitto di (alcuni) privati. Il tutto scende a cascata in una serie di rivoli – metafora particolarmente adeguata – di meschini interessi, che concorrono a formare le scelte: il consenso per l’amministratore, qualche vantaggio (non sempre lecito) per il funzionario comunale, il presunto affare del privato cittadino convinto di aver risparmiato qualcosa, ecc. Il risultato sarà una città vulnerabile e nella quale i costi di gestione per il soggetto pubblico saranno ingenti e spesso insostenibili, con il risultato di non poter fare la dovuta manutenzione e di aumentare l’esposizione al rischio.
Purtroppo le modalità con cui si svolge ormai da qualche anno il dibattito politico – trasformato in scaramucce tra tifoserie antagoniste - rischia di deformare e banalizzare ogni tentativo di riflessione e la regola è quella di attaccare l’amministrazione di segno opposto che si ritrova a gestire la situazione emergenziale e che – con tutta probabilità - dovrà fare i conti con danni enormi. Del resto in molti casi non è semplice attribuire le responsabilità, quando le decisioni che hanno portato alla situazione attuale si sono succedute e stratificate nel tempo, andando presumibilmente ognuna di esse ad indebolire la sicurezza del territorio. Non sarà la deviazione di quel torrente, non sarà nemmeno l’impermeabilizzazione di quell’area verde a monte e neppure l’intubamento di quel canale, non sarà certo l’inadeguatezza della rete fognaria, né la disinvoltura con cui si sarà consentito di realizzare un immobile in un’area a rischio esondazione, né la sciatteria con cui si sarà ignorato quell’abuso edilizio o la faciloneria con cui qualcuno avrà concesso l’agibilità (rendendolo formalmente abitabile, quindi) di un seminterrato (a rischio allagamento per definizione). Non è quella singola decisione, ma la somma complessiva di ogni singolo atto scriteriato che avrà concorso a creare un assetto complessivo così fragile e i danni (e le vittime, purtroppo) conseguenti.
Indubbiamente una buona manutenzione può avere effetti significativi nella “riduzione del danno”, ma potrebbe non essere sufficiente. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il problema è molto più complesso e in molte realtà andrebbe riprogrammata, là dove possibile, la pianificazione urbanistica. Non serve – e soprattutto non serve a chi si candida a governare le città – ergersi a giudici e mettere sullo scranno degli imputati un amministratore che, in alcuni casi, si ritrova a gestire un’eredità scomoda. Anche perché al giro successivo i ruoli potrebbero invertirsi dando futilmente vita al patetico siparietto di accuse e scarichi di responsabilità. Responsabilità che, sia chiaro, ci sono e in qualche caso si possono anche provare ad individuare (punendo, se possibile, comportamenti illegittimi). In qualche caso si possono cancellare gli errori, in altri si può provare ad avviare interventi correttivi. Però sarebbe il caso di cambiare registro. Spendere meno energie per le polemiche “post”, ma dandosi da fare, sin da subito, per tutto quello che bisogna fare “prima”: prevenzione e pianificazione.
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