Che il nostro Paese stia vivendo un
momento difficile, sul piano economico e sociale, mi sembra un dato
difficilmente contestabile. Che questa difficoltà si superi con delle non
meglio precisate riforme è possibile, ma tutt’altro che certo, anche perché – spesso
– le riforme con cui si vorrebbe rilanciare l’economia, hanno il non
trascurabile effetto collaterale di ridurre diritti e tutele. Che poi le
riforme “necessarie” per risollevare le sorti dell’Italia siano quelle
costituzionali è davvero tutto da dimostrare. Al di là della sua reale
efficacia, lo spirito riformista sembra essere, chissà perché, un’intramontabile
arma di seduzione di massa, brandita ogni volta con entusiasmo e convinzione e
molte forze politiche e coalizioni hanno promesso ricette salvifiche basate su
nuovi e più funzionali assetti del nostro sistema costituzionale. L’ultimo, in
ordine di tempo, è l’attuale presidente del consiglio, Matteo Renzi, che sta
spingendo la sua proposta di riforma costituzionale con una veemenza davvero
incomprensibile. Sia per il discutibile contenuto della proposta, sia per il
metodo con cui si sta procedendo: si usa la forza dei numeri, con una
propensione al dialogo vicina allo zero e giustificando l’esigenza con
affermazioni del tutto prive di fondamento. In questi giorni ho spesso sentito
frasi del tipo “E’ il paese che ce lo chiede”. “Gli italiani stanno aspettando
le riforme” e via discorrendo. A fare queste affermazioni non è il Presidente
del Consiglio nominato a seguito di una indiscussa vittoria alle elezioni, alle
quali la sua coalizione aveva portato un programma di governo che conteneva
esattamente “questa” proposta di riforma costituzionale. Premesso che anche
così io avrei le mie perplessità - ché le regole non le può scrivere una parte
(ancorché vincitrice alle elezioni), ma devono essere ampiamente condivise (soprattutto
in considerazione del fatto che le regole devono essere un elemento di garanzia
per tutti) - l’attuale presidente del Consiglio “non” ha vinto le elezioni (ad
essere precisi era uscito anche sconfitto alle primarie). Non le ha vinte il
suo partito e non le ha vinte la sua coalizione. In più la sua coalizione non è
compattamente in maggioranza, ma una parte (segnatamente SEL) è all’opposizione
e contesta questa proposta di riforma. Il suo partito ha condotto una battaglia
elettorale contro una coalizione (PDL), una parte della quale è entrata in
maggioranza (quindi con buona pace delle proposte programmatiche di entrambi) e
tutti, dico tutti, risultano eletti in forza di una legge elettorale dichiarata
incostituzionale e con una ripartizione dei seggi alterata dal premio di
maggioranza. Né l’ampia e indiscussa affermazione del PD alle elezioni europee
può diventare il passepartout per fare qualunque cosa. Lo stesso Renzi aveva
dichiarato – correttamente - che le europee non avevano una relazione diretta
con la politica nazionale e che, in caso di insuccesso, avrebbe mantenuto la
guida del governo. Sicuramente il
governo è stato rafforzato dall’ottimo risultato, ma questo non solo non lo
rende onnipotente, ma non sana certo i numerosi vizi che ne hanno
caratterizzato la genesi. In una situazione di questo tipo sarebbe
comprensibile solo una riforma che metta d’accordo l’80 per cento del
Parlamento. Non certo una riforma che si basa su un accordo segreto con un
alleato quantomeno “imbarazzante” e che trova una ferma opposizione sia in una
parte significativa dell’emiciclo, sia nel Paese (checché ne dicano Renzi e,
purtroppo, i troppi media sensibili al potere).
Sempre a proposito del metodo, non
dobbiamo dimenticare la precedente proposta di modifica costituzionale, che
dieci anni fa un Berlusconi in gran spolvero (e corroborato da una solida
maggioranza) impose con la forza al Parlamento, attirandosi le accuse e le
critiche degli stessi che adesso usano le medesime armi per far passare le
proprie scelte. Con la piccola differenza che Berlusconi le elezioni politiche
le aveva vinte sul serio. Solo il referendum popolare permise la cancellazione
di quella modifica costituzionale, così tanto criticata dall’allora
centrosinistra. Quando Ciampi firmò la legge il coordinatore della segreteria DS,
Vannino Chiti, dichiarò "Il fatto che il presidente della Repubblica abbia
controfirmato la legge elettorale voluta dalla destra nulla toglie né alle
critiche né ai rilievi che il centrosinistra ha sollevato né alle critiche
severe di metodo" aggiungendo che "La destra, calpestando ogni regola
di rapporto con l'opposizione si è confezionata una legge non pensando
all'Italia ma ai suoi ristretti interessi".
Ma la critica era anche nel merito e
se quella di Berlusconi era un attentato e quella di Renzi è la panacea di
tutti i mali c’è qualcosa che non quadra. Perché, in tal caso, qualcuno deve
avere cambiato idea, visto che adesso gli avversari dell’epoca sembrano andare
d’amore e d’accordo. Proviamo a vedere alcuni punti della proposta, magari
confrontandoli con quella di Berlusconi.
La prima differenza è all’articolo
55. Mentre Berlusconi riduceva il numero dei parlamentari in entrambi i rami
del Parlamento - in ossequio alla bufala sui costi della politica, mentre la
progressiva riduzione degli eletti è soprattutto
un taglio alla rappresentanza ed alla democrazia – lasciandoli entrambi
elettivi, Renzi trasforma il Senato in un organo di rappresentanza di secondo
livello, con l’evidente obiettivo di ridurre la rappresentanza diretta dei
cittadini ed aumentare il potere degli eletti nelle autonomie locali (il suo
ambito naturale di riferimento). La
logica è quella di avere pochi eletti con molte leve del potere e minori
meccanismi di controllo. I doppi incarichi sono da sempre una delle più preoccupanti
forme di inefficienza e creano sgradevoli cortocircuiti e conflitti di
interesse. Chi svolge con scrupolo il proprio ruolo di eletto, anche se è un
semplice consigliere comunale, non ha molto tempo per dedicarsi ad altro e una
vera importante riforma sarebbe proprio quella di impedire i doppi incarichi.
La riforma di Berlusconi prevedeva delle limitazioni, quella di Renzi, no.
Renzi lascia inalterato il numero dei
deputati, mentre Berlusconi li avrebbe ridotti da 630 a 518. Come ho detto non mi
entusiasma il principio, ma, sotto questo aspetto, quella riforma era più
coerente. E addirittura riduceva l’età di eleggibilità a 21 anni. Un altro
aspetto non disprezzabile della riforma berlusconiana era l’introduzione di una
maggioranza qualificata per le modifiche regolamentari, proprio per evitare i
colpi di mano di maggioranze prepotenti (ed è quello che dovrebbero pensare
tutti quelli che si ritrovano ad avere in mano le leve del comando: una
contrazione dei principi democratici potrebbe in futuro penalizzarli).
Per il resto, con modalità e
meccanismi differenti, entrambe le riforme costituzionali puntano non tanto (o almeno non solo) alla governabilità – anche comprimendo i diritti dell’opposizione -, ma ad un
quadro istituzionale verticistico in cui sempre meno persone decidono per tutti,
il Parlamento viene ridotto ad un organo di ratifica delle decisioni assunte
dal Governo e lo spazio per il dissenso (anche quello interno a partiti e
coalizioni) e sempre più ristretto e soggetto a facili ricatti. Questo anche
grazie ad una proposta di legge elettorale terribilmente simile a quella
dichiarata incostituzionale che permette alle segreterie dei partiti di
decidere i parlamentari.
Sappiamo che in politica si cambiano con
una certa disinvoltura coalizioni ed alleanze e, con loro, si cambiano o,
meglio, si ammorbidiscono idee e convinzioni. E il ventennio berlusconiano ci
ha regalato un lento quanto inesorabile avvicinamento dei due schieramenti
avversi e distanze che un tempo sembravano siderali adesso si sono praticamente
annullate. Mi piacerebbe sentire solo qualcuno dei leader che dieci anni fa (un’era
geologica in politica, mi rendo conto) tuonava contro la riforma costituzionale
di Berlusconi (tra cui lo stesso Renzi, come evidenzia il Fatto di oggi) dire: "scusate, abbiamo sbagliato, in fondo le riforme di Berlusconi (e lo stesso
Berlusconi) non erano poi così male", magari con un bell’hashtag:
#avevaragionesilvio.
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