Prendo spunto da un bell’articolo di Alberto Vannucci su
ilfattoquotidiano.it per fare qualche considerazione sulla vicenda della
celeberrima casa di Scajola al Colosseo e sul rapporto tra diritto penale e
politica. In questi giorni si sta assistendo ad un’incredibile “riabilitazione”
dell’ex ministro Claudio Scajola, assolto dall’accusa di finanziamento illecito
per l’acquisto di un appartamento con vista sul Colosseo. I giudici hanno
stabilito che il fatto non costituisce reato. Questo è bastato per far partire
un unanime laceramento di vesti sulla ingiusta gogna mediatica di cui è stato
vittima il povero Scajola e sul fatto che la giustizia – scagionandolo
dall’accusa di aver commesso un reato – avrebbe finalmente trionfato
(ovviamente c’è sempre pronto il piano B
del complotto giudiziario in caso di condanna). Tertium non datur. Credo che ci
siano due elementi su cui è opportuno riflettere.
Il primo è la difficoltà di individuare il nesso di correlazione
tra un fatto (in questo caso la dazione di denaro da parte del costruttore
Anemone, tramite un intermediario, per consentire a Scajola di acquistare un
immobile) e la condotta delittuosa dell’imputato (ad esempio un qualche
“favore” all’imprenditore utilizzando il proprio ruolo istituzionale). Questo
aspetto è l’elemento cardine della difficoltà che incontra il nostro sistema
politico-amministrativo (sempre che qualcuno lo voglia veramente) di eliminare
clientelismi e voti di scambio. Chiunque provi ad informarsi su quello che
succede nelle pubbliche amministrazioni è in grado di individuare agevolmente
casi che presentano qualche analogia con la vicenda Scajola. Può
capitare che un sindaco decida di dare un contributo a qualche soggetto
privato, magari giustificandolo con finalità sociali, e che ne tragga un non
dimostrabile vantaggio in termini di consenso elettorale (in ogni caso
insufficiente a configurare l’esistenza di un vero e proprio reato) oppure che
un concorso venga vinto in modo del tutto casuale proprio dalla persona che
tutti si sarebbero aspettati. Proprio in questi giorni c’è, ad esempio, la
notizia di una collaboratrice molto particolare del governatore Chiodi, vincitrice
di un concorso per un importante ruolo pubblico nella regione Abruzzo (tra i
fatti potrebbe non esserci alcuna correlazione, ma solo imbarazzanti
coincidenze). In alcuni casi la presenza di un “voto di scambio” è nota ed
evidente e talvolta c’è qualche illecito amministrativo, ma essendo
difficilmente dimostrabile l’elemento del dolo (si tratta infatti sempre, a
detta degli interessati, di distrazione o di imperizia) si è costretti ad
escludere l’ipotesi di reato, ma non la censurabilità della condotta.
Il secondo elemento di riflessione – diretta conseguenza del primo
– ci porta a dover dare un giudizio almeno politico, anzi etico di un
determinato comportamento. Se io scopro che Scajola è andato a comprare un
immobile del valore di un milione e settecentomila euro e l’ha pagato 800mila,
mentre la parte restante è stata versata da un imprenditore che prende appalti
dalla pubblica amministrazione non mi preoccupo di sapere se il fatto sia un
reato o meno. E neppure se Scajola fosse informato o meno (ma non saprei cosa
sia più preoccupante). Penserei semplicemente che Scajola dovrebbe smettere di
fare il ministro della Repubblica (ma anche il parlamentare o il consigliere
comunale). C’è un’incompatibilità etica tra il fatto avvenuto (la cui
veridicità che non è in discussione), ossia un regalo di enorme valore ricevuto
da un uomo delle istituzioni e la sua importante funzione pubblica. Non voglio
che Scajola vada in galera. Penso solo che farebbe bene a smettere di occuparsi
della cosa pubblica, perché temo di non potermi fidare della sua diligenza,
lealtà e, soprattutto, imparzialità nel ricoprire il suo incarico. Punto. E
questo dovrebbe valere a tutti i livelli della pubblica amministrazione.
Del resto c’è una recente norma del nostro ordinamento giuridico
che si chiama “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici” (d.p.r. n. 62
del 2013), che, all’articolo 4, dall’esplicativo titolo “Regali, compensi ed
altre utilità”, afferma che “Il dipendente non chiede, né sollecita, per sé o
per altri, regali o altre utilità”, con pochissime eccezioni (modico valore del
regalo e circostanze ben definite). Il codice di comportamento afferma anche
molto chiaramente che è irrilevante che il fatto costituisca reato, perché il
dipendente non deve chiedere né accettare regali o altre liberalità in ogni
caso. E al dipendente non è neppure permesso di avviare rapporti di
collaborazione con soggetti che abbiano o abbiano avuto un interesse economico
significativo in attività o decisioni dell’ufficio di appartenenza del
dipendente. Principi di assoluto buonsenso che dovrebbero valere a fortiori per
chi ricopre incarichi elettivi. Perché ciò avvenga non serve una legge che
sancisca l’illiceità di certi comportamenti, servirebbe una maggiore
consapevolezza da parte di chi decide a chi affidare l’amministrazione della
cosa pubblica. Basterebbe che ognuno di noi, andando alle urne, escludesse
automaticamente di votare per la lista dove c’è Scajola o dove c’è Chiodi o
dove c’è un qualunque altro politico che abbia, in qualche misura, esercitato
in modo improprio il potere istituzionale. L’unico rischio è che, nel panorama
attuale, non rimangano alternative. E questo sarebbe davvero frustrante per
chi, almeno un po’, crede ancora in una politica fatta davvero nell’interesse dei
cittadini.
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