C’è bisogno di riforme… Sono
almeno 20 anni che la soluzione ai cosiddetti “problemi del paese” viene
individuata in questa parolina magica: “riforme”. Bisogna riformare lo Stato,
la Costituzione, la legge elettorale. Le cause dei mali sembra che siano sempre
da attribuire a un qualcosa di impalpabile, indefinito, impersonale, di cui
nessuno ha una precisa responsabilità. Un comodo capro espiatorio che serve a
distogliere l’attenzione dalle vere questioni: l’inadeguatezza del ceto
politico e la “colpa” di chi quel ceto politico sceglie, ossia noi
cittadini-elettori, talvolta distratti e superficiali quando decidiamo a chi
affidare la gestione della cosa pubblica. Prendersela col sistema elettorale,
con la forma di Governo, con l’organizzazione degli enti territoriali è il
solito modo, tutto italiano, di scaricare coscienze e responsabilità. Il
paradosso è che spesso le soluzioni che si propongono (e che spesso, infatti,
non risolvono un bel nulla) fanno l’esatto contrario di ciò che viene
sbandierato come scelta irrinunciabile. E così facendo ci ritroviamo ad
affrontare continue riforme, che spesso servono solo a creare confusione, ma
che poi – all’atto pratico – sono di ben poca utilità, se non addirittura
dannose. Ad esempio, dopo decine di anni di onesta carriera, la legge
elettorale del 1957 – basata su un meccanismo proporzionale “puro” e con
l’indicazione della preferenza - è stata rottamata in nome di due principi
considerati irrinunciabili: quella della governabilità e quello di poter
scegliere il proprio candidato (come se prima non fosse possibile). Correva
l’anno 1992 e la prima repubblica veniva sommersa dagli scandali di
tangentopoli. La soluzione fu presto trovata: è tutta colpa della legge
elettorale, cambiamola, andiamo a votare e il nuovo Parlamento sarà lindo e
specchiato come non mai. Si passò in fretta e furia ad un sistema anomalo, con
collegi uninominali a turno unico e il 25 per cento dei deputati eletti in
liste proporzionali bloccate. I risultati sono ben noti. Non si ebbe certo la
governabilità (la prima legislatura – 1994-1996 - durò appena due anni e quella
successiva fu un continuo avvicendarsi di governi e maggioranze) e la scelta
del proprio eletto era circoscritta ai pochi candidati decisi dalle segreterie
delle coalizioni politiche, magari paracadutati in zone di cui ignoravano persino
l’esatta collocazione geografica.
Dopo qualche anno si decise di
tornare al proporzionale, riuscendo però a snaturarne completamente il senso.
Con le liste bloccate le segreterie di partito si sono arrogate il diritto di
scegliere direttamente i propri eletti, con il premio di maggioranza si è
alterato completamente il principio di proporzionalità della rappresentanza e
con le soglie si è, da un lato, imposto un obbligo di alleanze che si sono
rivelate spesso di comodo e prive della necessaria condivisione programmatica,
dall’altro è stata sottratta la rappresentanza politica a milioni di italiani
(ad esempio la sinistra e l’ambientalismo spazzati via da un calcolo cinico
dell’allora segretario del PD, Veltroni). Un sistema elettorale criticato da
molti, ma che ha fatto molto comodo a chi manovrava i fili e non c’è da
stupirsi se il Parlamento non aveva mai affrontato seriamente la sua revisione
fino alla sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarava la sostanziale
incostituzionalità.
Adesso – è la parola d’ordine -
si cambia. Ma come si cambia? La sensazione è che tutte le volte che il
legislatore è chiamato a modificare le “regole” riesca a peggiorare le cose,
magari con il convinto appoggio di un’opinione pubblica abilmente
suggestionata. Penso ad alcune innovazioni giustificate con l’esigenza di
“ridurre i costi della politica”. E guai a sostenere che il principio – di per
sé ampiamente condivisibile – rischia una strumentalizzazione pericolosa e
profondamente antidemocratica. Penso alla riduzione del numero degli eletti,
che, insieme alle norme per azzerare la rappresentanza dei piccoli, costituisce
lo strumento perfetto per dare un potere enorme a chi ricopre un incarico
pubblico. E’ noto che partecipazione e delega devono trovare un ragionevole
punto di equilibrio per far sì che vi sia un’adeguata rappresentanza della
stragrande maggioranza dei cittadini. La democrazia costa e pensare di ridurre
gli sprechi tagliando sulla democrazia è un errore gravissimo. La presenza di
un’opposizione vigile potrà essere un’arma efficacissima per evitare che chi
amministra faccia scelte sbagliate e dispendiose. E sarò ben contento, come
cittadino, di avere un sistema amministrativo e di governo che non consenta a
nessuno – nemmeno se vicino a me ideologicamente e politicamente – di decidere pressoché
in solitudine. E’ già successo con la truffa della riduzione del numero dei
consiglieri comunali. Qualcuno pensa davvero che l’operazione – tutta mediatica
– abbia prodotto dei risultati apprezzabili in termini di risparmio? O non c’è
forse il rischio che, con consigli comunali ridotti a consigli di amministrazione,
da qualche parte ci siano appalti, opere pubbliche e sprechi a vario titolo per
i quali l’azione di controllo si sia gravemente indebolita?
Per non parlare della
“soppressione” (o presunta tale) di organi o enti giudicati “inutili”. Pensiamo
alle province, sulla cui effettiva utilità non mi soffermo, ma la cui
trasformazione in organi elettivi di secondo grado non ne ha certo eliminato la
struttura (che è il vero costo, ma che altrimenti andrebbe comunque trasferito
ad altro organo) e la sua gestione viene “spartita” tra le forze politiche più
influenti (ovviamente con doppio incarico e rafforzamento di quel potere
territoriale occulto di cui si nutrono le forme peggiori del clientelismo). In
modo analogo si propone di trasformare il Senato in un organo appannaggio delle
regioni. Anche in questo caso doppi incarichi e personaggi politici che
diventano sempre più influenti.
Ma per tornare alla legge
elettorale, frutto dell’accordo tra Renzi e Berlusconi (e già questo la
dovrebbe dire lunga sulla qualità del prodotto), sembra persino peggio del
cosiddetto Porcellum che vorrebbe sostituire. Come al solito è figlia di un
vecchio vizio della politica italiana, quello di cucire le leggi su misura per
chi le scrive e non di una loro astratta funzionalità. E così le soglie si
individuano sulla base dei sondaggi (e quindi Forza Italia vuole una soglia per
far fuori il nuovo centrodestra, così come Italia dei Valori accolse di buon
grado l’innalzamento della soglia per le europee per cannibalizzare i
principali “competitor” a sinistra del PD) e i premi di maggioranza si basano
sull’esigenza di colmare con una distorsione della rappresentatività la mancanza
di consenso. Insomma, anziché trovare un modo per costruire un’alleanza basata
su accordi programmatici (anche da far nascere in Parlamento, come prevede la
nostra forma di governo), si preferisce “scippare” ad una legittima
rappresentanza parlamentare (con soglie e premio di maggioranza) il numero di
seggi necessario a raggiungere una maggioranza parlamentare. Si tratta dell’ennesima
“legge truffa”, che aumenterà la disaffezione dei cittadini verso le istituzioni.
Magari, alle prossime elezioni, assisteremo agli show di politici che si
stracceranno pubblicamente le vesti per il preoccupante calo di affluenza alle
urne. Una preoccupazione ovviamente simulata. Quello che preoccupa molti
politici non è l’astensionismo, ma la gente che vota, soprattutto se usa il cervello
quando entra nella cabina elettorale.
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