Costruire
una buona legge elettorale non è semplice. L’idea è quella di costruire un
impianto che sia in grado di garantire alcuni principi fondanti di un sistema
democratico efficiente: tra questi, in particolare, rappresentanza e
governabilità. In realtà solo il primo – la rappresentanza – è strettamente
connesso alla democrazia. Il secondo potrebbe vivere tranquillamente anche in
regimi autoritari (anzi è proprio in quelli che non soffre particolari
problemi). Tra i due – se si vuole salvaguardare la democrazia – la priorità
deve essere data, senza se e senza ma, alla rappresentanza. Rappresentanza che,
invece, viene sempre più penalizzata e spesso proprio con motivazioni apparentemente
condivisibili. Ho già avuto modo di esprimermi sulla sesquipedale sciocchezza –
sposata demagogicamente ormai da tutti, da Grillo a Berlusconi, da Bersani a
Monti – sull’esigenza di ridurre gli sprechi attraverso il taglio del numero
degli eletti, in una continua lotta al ribasso, come in un suk arabo. “600 sono
troppi? Facciamo la metà: 300” .
Ma un altro potrà dire “300? Esagerato. Ne bastano 200” . “Perché non 100, allora?”
Dirà prontamente qualcun altro. In una perenne rincorsa populista al taglio
della casta. Maturando, più o meno consapevolmente, la convinzione che i
politici (e la politica) siano un inutile spreco di soldi pubblici. E che per
risolvere i problemi è sufficiente eliminarne la maggior parte. Per carità.
Purtroppo di politici inutili e che spesso costano tanto alla collettività,
amministrando male e talvolta distraendo fondi pubblici, ne abbiamo avuti sin
troppi. Ma siamo certi che la mera riduzione numerica risolva il problema? Il
mio sospetto è che a salvarsi dalla sforbiciata siano più facilmente quelli che
praticano la politica meno “nobile”. Quella clientelare, quella affaristica,
quella degli accordi sottobanco. Un tipo di politica che riesce ad incanalare
agevolmente decine di migliaia di voti, frutto di favori, promesse, clientele.
Sono quelli disposti ad investire centinaia di migliaia di euro per andarne a
percepire molti meno (si pensi alle monumentali campagne elettorali per
diventare consiglieri comunali a Roma). Per quale motivo? Spirito di servizio?
E se fosse davvero così – e ho i miei dubbi – non sarebbe comunque una politica
riservata a pochi benestanti? Spero che i partiti riflettano prima di
proseguire questa crociata per ridurre il numero degli eletti, senza tenere
conto che è di un altro tipo di cura che ha bisogno il nostro sistema
istituzionale, a cominciare dal rigido divieto di doppi incarichi. Perché
dovrei preoccuparmi di avere troppi consiglieri comunali e non dell’enorme peso
politico che avrà un sindaco eletto consigliere regionale o parlamentare? Per
non parlare delle candidature multiple o in presenza di altri incarichi
istituzionali? Perché non proibire tassativamente tutte queste forme di
condizionamento degli equilibri politici?
Per
quanto riguarda il rapporto tra governabilità e rappresentanza, bisognerebbe
ammettere – finalmente – il totale fallimento di una legge nata con l’obiettivo
di dare governabilità, anche a scapito della rappresentanza. La governabilità a
quanto pare non è riuscita a garantirla. Non ci è riuscita nel 2006 con la
nascita di un debolissimo governo Prodi. E addirittura neppure nel 2008,
nonostante la straordinaria affermazione di Berlusconi, che però si è dovuto
dimettere nel 2011, lasciando spazio al governo tecnico di Monti. Infine nel
2013, con un ramo del Parlamento saldamente in mano alla coalizione del centro
sinistra, ma col Senato diviso in tre. E, a fronte di questa ingovernabilità,
quanto è stato alterato il principio della rappresentanza? Vediamolo attraverso
i numeri della Camera. I partiti del centro sinistra riescono ad aggiudicarsi
un deputato ogni 30mila voti, pari allo 0,08 per cento dei voti. Addirittura al
Centro Democratico sono bastati meno di 28mila voti per ognuno dei sei deputati
ottenuti con uno striminzito 0,5 per cento su base nazionale. E’ andata decisamente
peggio all’opposizione. Pdl, Grillo e gli altri, infatti, per avere un deputato
hanno dovuto racimolare tra i 73mila e gli 80 mila voti, con percentuali dello
0,22 e 0,23 per cento. La Destra, con 220mila voti e lo 0,6 per cento, pur
essendo in una coalizione che ha preso quasi gli stessi voti della coalizione
vincente, non è riuscita ad avere neppure un deputato.
I
più penalizzati sono stati quelli che, non facendo parte di raggruppamenti che
hanno superato la soglia dell’otto per cento, si sono visti negare la
rappresentanza anche in presenza di valori percentuali interi. Fare per fermare
il declino ha preso 380mila voti, pari all’1,1 per cento (l’equivalente di 13
deputati per una forza di centrosinistra e di 4 o 5 deputati per una delle
forze di opposizione). Il prezzo più altro l’ha pagato Rivoluzione Civile. Con
765mila voti e il 2,2 per cento non ha portato a casa neppure un eletto. Con
gli stessi voti i parlamentari eletti sarebbero stati 27 in maggioranza e 10
all’opposizione. Certo, una piccola lesione del principio di rappresentanza. Ma
vuoi mettere il vantaggio della governabilità?
Elezioni Camera dei deputati 2013. Rapporto voti/eletti delle forze politiche. |
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