2 maggio 2006

Riflessioni ad alta velocità…


TAV. NOTAV. Prodi o Berlusconi. Destra o sinistra. Procreazione assistita sì, procreazione assistita no. Franzoni colpevole o Franzoni innocente. Centro-destra o centro-sinistra (e, nel centro*sinistra trattino sì o trattino no). Amnistia sì, amnistia no. E poi, andando indietro nel tempo, Nucleare si nucleare no. Divorzio sì, divorzio no. Coppi o Bartali. Fino ad arrivare al primo referendum che ha diviso in due l’Italia: monarchia o repubblica.
Ci siamo abituati. Tutte le volte che una qualunque questione diventa di pubblico dominio e attiva un qualche dibattito collettivo, le ragioni sragionano, gli approfondimenti non approfondiscono, le analisi non analizzano, le valutazioni non valutano. Il “merito” non esiste più. Lo scontro diventa preconcetto, ideologico, avulso da ogni considerazione sul fatto in sé: o di qua, o di là, per dirla con una sgradevole quanto azzeccata locuzione del nostro ex (vivaddio) premier.
La realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità in val di Susa non si sottrae a questa logica delirante. Come è stato brillantemente fatto notare durante i giorni caldi della protesta, nessuno tra gli autorevoli (e non) commentatori che hanno descritto le proteste dei valsusini ha spiegato in modo chiaro le ragioni del sì e, tantomeno, le ragioni del no. Per chi fosse – se mai ci sia stato qualcuno – scevro da condizionamenti ideologici era davvero difficile farsi un’idea di chi avesse ragione, tenendo conto del celeberrimo monito manzoniano sulla non agevole separazione tra torto e ragione.
E così, anche la vicenda della TAV in Val di Susa è stata liquidata da gran parte dei media in modo piuttosto superficiale come la solita disputa tra ambientalisti-integralisti e modernisti-sviluppisti. Descrivendo – nella stragrande maggioranza dei casi – i primi come ottusi oppositori ad interventi non più differibili e i secondi come animati da un sano e razionale approccio alle esigenze di un paese moderno ed europeo.
Ma, nel merito, il silenzio rimane assordante. Eppure non è proprio difficile provare a spiegare le ragioni del no. Ragioni che perdono di credito quando ad esprimerle sono coloro i quali vengono penalizzati dal devastante impatto dell’opera – “non possiamo permetterci di anteporre gli interessi di pochi a quelli della collettività”, hanno prontamente sostenuto i ministri del passato governo (ma temo che sarà così anche per qualcuno del prossimo) – ma che invece hanno piena dignità e che andrebbero valutate con una certa attenzione.
Vorrei tralasciare le questioni che ritengo prioritarie, proprio per la soggettività che le caratterizza: le questioni ambientali. Normalmente infatti la controargomentazione rispetto alle preoccupazioni di tipo ambientale fa riferimento alla dottrina utilitaristica: l’importanza strategica dell’opera giustifica il prezzo da pagare in termini ambientali. Sempre e comunque.
E’ quindi il caso di valutare con più attenzione i reali benefici dell’opera, confrontandoli magari con i costi – ambientali, ma anche economici – per capire quanto sia davvero irrinunciabile la sua realizzazione.
I costi ambientali non sono facilmente misurabili (non con un’unità di misura che possa permettere confronti) e quindi conviene concentrarsi sul costo dell’opera. Si parla di 20 miliardi di euro. Una cifra pazzesca e, al contrario di quanto si dice, interamente a carico della collettività. La quale collettività dovrebbe quindi essere consapevole del fatto che 20 miliardi di euro destinati alla Torino-Lione sono 20 miliardi di euro sottratti ad una qualunque altro uso pubblico di interesse – davvero – generale.
Normalmente questa considerazione viene accolta con un atteggiamento che è una via di mezzo tra paternalistica rassegnazione e spocchiosa saccenteria. Perché preoccuparsi – che so – di asili nido o di assistenza sanitaria o dell’ammodernamento del “materiale rotabile” che coraggiosamente presta servizio a beneficio di chi il treno lo prende tutti i giorni, ossia i pendolari, significa avere una visione minimale delle questioni. Perché è riduttivo preoccuparsi di queste inezie, quando il progresso e la modernità passano per le “grandi opere”, attribuendo all’aggettivo “grandi” il primo – banale, forse scontato – dei significati, quello dimensionale. Un po’ come in quella vecchia pubblicità che giocava sulla sfumatura semantica tra “pennello grande” e “grande pennello”. Tra le due opzioni io, preferisco la seconda, e, per “grandi opere” intendo quelle opere che danno davvero un contributo alla qualità della vita, al benessere, alla solidarietà, ai diritti. E queste grandi – anche se piccole – opere sono proprio quelle che più facilmente trascurate dai “grandi politici”. Facciamole dunque queste piccole grandi opere. Proviamo ad investire sugli interventi che migliorano la nostra quotidianità. Se poi questo comporterà l’effetto collaterale di avere utilizzato le risorse finanziarie che si volevano destinare alla devastazione di una magnifica valle alpina, compromettendo la vita, la salute e la serenità di un’intera popolazione… Beh!, in tal caso, cercheremo di farcene una ragione.

Tullio Berlenghi

Articolo pubblicato sul sito di Avantipop

30 gennaio 2006

Abusivismo edilizio. Dalla parte della legge

Ho la strana e sgradevole sensazione che sulla questione dell’abusivismo edilizio venga utilizzata una chiave di lettura fuorviante, anche se figlia di una cultura dell’illegalità purtroppo molto diffusa.
Partiamo da un presupposto incontrovertibile: l’edificazione in assenza delle prescritte autorizzazioni e licenze edilizie è illegale e, come tale, punita dalla legge. Chi lo fa sa di commettere un abuso e di correre il rischio di vedersi bloccati i lavori. E’ altrettanto evidente che chi costruisce illegalmente punta su due fattori: la frequenza di provvedimenti di sanatoria varati da governi disposti a tutto pur di fare cassa e la facilità con cui la stragrande maggioranza delle amministrazioni comunali tende a chiudere un occhio (se non due) sugli abusi commessi sul proprio territorio; magari per la preoccupazione che eventuali interventi per il ripristino della legalità possano comportare un calo dei consensi. In pratica chi costruisce una casa abusiva ritiene – a buon ragione peraltro – che ci siano ottime probabilità di farla franca. Un po’ come l’automobilista che percorre indisturbato la corsia preferenziale mentre gli altri sono pazientemente in coda. Lo fa pensando che le probabilità che venga fermato (e multato) sono piuttosto basse, ma se ciò avviene si ritiene vittima di una profonda ingiustizia.
Molto raramente gli abusi edilizi sono veri abusi “di necessità”. La cosa più frequente è la vera e propria speculazione edilizia. Spesso e volentieri a carattere familiare, come, ad esempio, il padre che trasforma il vecchio tinello nella zona agricola in villetta bifamiliare per garantire un tetto ai propri due figli. Il proposito è senza dubbio lodevole: quello che non va è la scorciatoia del mancato rispetto delle regole di civile convivenza.
Ciò che preoccupa è la mancanza di percezione dell’illegalità per quanto riguarda gli abusi edilizi. Molti di coloro che edificano abusivamente non pensano di fare qualcosa di sbagliato. E le stesse persone che hanno costruito immobili successivamente sanati sono pronte a protestare quando nuovi abusi (fatti da altri) possano in qualche modo danneggiarli. C’è sovente un atteggiamento miope ed egoistico e manca sostanzialmente il senso della collettività, il rispetto delle regole e degli altri e l’intervento dell’autorità giudiziaria viene visto come una ingiusta ingerenza.
Il fenomeno dell’abusivismo edilizio però andrebbe analizzato nella sua complessità e non attraverso la lettura – parziale - del caso singolo, nei cui confronti spesso viene naturale e quasi comprensibile un atteggiamento giustificatorio. Il fenomeno va letto in misura più ampia soprattutto per le conseguenze che porta all’intero territorio e alla comunità che ne pagherà i costi. Serve cioè la consapevolezza che chi costruisce una casa abusiva contribuisce ad alterare profondamente l’equilibrio territoriale, sociale ed economico (quanta economia agricola è andata in fumo per le speculazioni edilizie), comporta inevitabili conseguenze ambientali e paesaggistiche, rende necessarie opere di urbanizzazione primaria e secondaria che verranno sostenute dall’intera collettività, concorre alla formazione del fenomeno della “residenzalità diffusa”, rendendo pressoché impossibile una programmazione urbanistica coerente ed omogenea.
L’adozione di provvedimenti di sanatoria poi realizza una profonda ingiustizia, poiché comporta una sorta di premio per chi ha violato la legge e, qualora l’amministrazione comunale decida di attuare un piano di recupero, rischia di penalizzare chi la legge l’ha rispettata, magari attraverso l’esproprio di terreni necessari a realizzare servizi e strutture di pertinenza della zona sanata (e quindi a beneficio dei “trasgressori”). Oltre al danno quindi la beffa. Non stupisce pertanto che anche chi non aveva costruito in passato decida di farlo, considerandolo un diritto dovuto, visto che “così fan tutti”. I sindaci in questo caso se ne lavano le mani e spetta alla magistratura l’ingrato compito di sanzionare gli abusi, sapendo comunque di dare vita ad un’iniquità. E, d’altronde, non sanzionarli sarebbe un’omissione. Neanche una nuova sanatoria risolverebbe il problema perché darebbe vita a nuove aspettative, in una spirale perversa da cui sembra difficile trovare una via d’uscita.
Purtroppo non c’è soluzione. Se non quella di partire dalla consapevolezza di aver avallato in questi anni tante ingiustizie e tante regalie ai furbi della prima (e della seconda e della terza) ora, facendo pagare lo scotto agli onesti e ai furbi della quarta ora. Il Governo Berlusconi dopo il varo di ogni sanatoria ha sempre dichiarato che dall’indomani le violazioni urbanistiche non sarebbero più state tollerate e che avrebbe dato alle amministrazioni gli strumenti adeguati per difendere il territorio. Invece ha adottato la tecnica “Prendi i soldi e scappa”, lasciando i comuni – ma non per questo incolpevoli – a gestire in piena solitudine un fenomeno che ha radici profonde nella forma mentis dell’arbitrarietà, così diffusa e così perniciosa. E all’inerzia – se non alla connivenza - dei comuni difficilmente potrà far fronte l’impegno e il coraggio della magistratura, il cui intervento, pur se impeccabile sotto il profilo giuridico, quando non cade nell’indifferenza, diventa impopolare. E mentre l’impopolarità si spiega con l’interesse leso, l’indifferenza spaventa molto di più, visto che è il sintomo di una seria patologia sociale: la mancanza di un sentimento di appartenenza ad un organizzazione sociale. In pratica: la mancanza di senso civico.

3 gennaio 2006

La frana sulla ferrovia

Aldo: "Questa roccia e' franabile!". Giovanni: "Se mai e' friabile...". Aldo: "Ma questa qua frana, mica fria!". Questa memorabile gag surreale di Aldo, Giovanni e Giacomo, alle prese con un’arrampicata su un costone, continua a venirmi in mente dal giorno della frana che ha portato Labico agli onori della cronaca regionale. Un ben mesto motivo di popolarità e che tutti i labicani si sarebbero volentieri risparmiati.
A mente un po’ più calma credo che sarebbe opportuno fare qualche riflessione sulla vicenda in particolare e cercare di allargare gli orizzonti alla più generale gestione del territorio. Per quanto riguarda quello che è successo occorre sottolineare alcuni aspetti, serenamente e con razionalità:
- un ammasso di terra e detriti che scivola lungo un pendio per alcune decine di metri e finisce sopra una delle più trafficate arterie ferroviarie del paese è un evento di enorme gravità e solamente per puro caso non ci sono state conseguenze tragiche;
- la zona in prossimità del dirupo è stata dichiarata edificabile nel vecchio piano regolatore;
- sembra fosse abitudine diffusa – da parte delle ditte di costruzioni – abbandonare le terre di scavo lungo la parte sommitale del costone, senza che nessuno (o quasi) abbia mai espresso perplessità in proposito;
- sia il Comune che Trenitalia, per diversi aspetti e con livelli diversi di responsabiltà, erano tenuti a vigiliare sullo stato di stabilità del costone e valutare l’opportunità di intervenire per mettere in sicurezza l’area;
- il costo economico per la collettività di quanto è avvenuto è enorme e gran parte di esso non verrà indennizzato in alcun modo, a cominciare dalle ore (e in alcuni casi giornate) di lavoro perso da migliaia di pendolari, che pagheranno così di tasca propria le altrui responsabilità.
Vorrei sottolineare che questa non è che la punta dell’iceberg di un modello urbanistico che io sto criticando da tempo e che antepone gli interessi di chi costruisce a quelli di chi le case le va ad abitare. Un modello urbanistico che permette di realizzare abitazioni là dove il buonsenso (non la perizia geologica: il buonsenso) consiglierebbe di non farlo; un modello urbanistico che punta su edificazioni ad alto profitto e a bassa vivibilità, con spazi abitabili insufficienti e l’implicito invito ad usare per civile abitazione le parti dell’immobile con destinazioni diverse; un modello urbanistico che si esaurisce nella costruzione delle case, ma che nulla prevede (e fa) per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria; un modello urbanistico in cui sono insufficienti (o completamente assenti) quegli standard urbanistici (scuole, piazze, marciapiedi, giardini, servizi, verde pubblico) che distinguono una vera città da una borgata.

22 dicembre 2005

Roccasecca: tragica fatalità o dramma evitabile?

Un giorno qualunque di una settimana qualunque di un pendolare qualunque. Il treno 3360 viaggia con 131 minuti di ritardo. Non è “the day after” la tragedia di Roccasecca. E’ un giorno qualunque di una settimana qualunque e il treno 3360 – per imprecisati motivi – viaggia con 131 minuti di ritardo. E’ singolare che un ritardo degno delle diligenze che attraversavano le praterie del nord America venga comunicato con la accuratezza di quel minuto in più oltre i 130. Potremmo chiamarlo – con un inquietante ossimoro – un ritardo di precisione. Ma quel ritardo non è un ritardo eccezionale. E’ un ritardo qualunque di un giorno qualunque di una settimana qualunque. Fa parte del calvario quotidiano di un numero sempre crescente di pendolari che si affidano – spesso più per necessità che per scelta – al trasporto pubblico per recarsi al lavoro. La qualità del servizio ferroviario sulle linee dei pendolari (al nord, al centro, al sud, non c’è molta differenza) – linee di serie B per una chiara scelta, vuoi aziendale, vuoi di politica dei trasporti – è evidentemente indecorosa. Anzi termini come “qualità” e “servizio” potrebbero persino apparire impropri, attese le circostanze.
Ma da cosa nasce il pendolarismo? Perché centinaia di migliaia di persone scelgono di percorrere lunghe distanze ogni giorno per andare a lavorare?
Il fenomeno – essendo tutt’altro che marginale – va inquadrato in un contesto molto ampio e deriva dalle politiche urbanistiche e abitative in stretta connessione con aspetti sociali ed economici. In estrema sintesi si può dire che da un lato c’è stata una lenta ma costante emorragia demografica dalla Capitale all’hinterland, dovuta a diversi fattori tra cui l’andamento del mercato immobiliare, la scelta di pianificazioni urbanistiche prive di programmazione infrastrutturale che ha portato a costruire moltissimi insediamenti abitativi nei comuni della provincia (senza tenere conto della domanda di mobilità che ne sarebbe conseguita), il fenomeno dell’abusivismo edilizio, spesso con la connivenza di amministratori compiacenti. Dall’altro lato c’è stata una trasformazione dell’economia territoriale che ha visto il forte indebolimento di alcuni settori “periferici” (in particolare quello agricolo) e il rafforzamento dei settori “romacentrici” (in particolare il terziario), con la conseguenza che molte città della provincia hanno smesso di avere una propria economia e sono diventate “satelliti” della Capitale e i suoi abitanti si sono trasformati in pendolari.
Nessuno ha pensato di governare (seriamente, almeno) questo fenomeno attraverso la realizzazione di infrastrutture e servizi adeguati alle importanti trasformazioni e il trasporto ferroviario, l’unico mezzo che con una qualche efficienza consentiva ai pochi (allora) viaggiatori di spostarsi da e verso Roma, non solo non è stato oggetto dei necessari interventi di innovazione tecnologica e di adeguamento, ma è stato progressivamente sempre più trascurato.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti e l’atteggiamento dei pendolari oscilla (sarà per questo che si chiamano pendolari) tra la malinconica rassegnazione e la rabbia incontenibile.
Spero che nessuno cominci a scomodare la fatalità o la sfortuna per giustificare il drammatico incidente di Roccasecca, magari scaricando tutto sui macchinisti. Sarebbe troppo facile e da irresponsabili. Quando si gestisce un servizio “al minimo”, quando i guasti meccanici sono la norma e non l’eccezione, quando i treni viaggiano sempre in condizioni di sovraffollamento disumane, quando gli orari sono un optional e le stazioni luoghi di degrado, non si può chiamare in causa il destino. Queste sono scelte – politiche, soprattutto – che attengono la vita di tutti noi. E se chi ci governa – Berlusconi da un lato con le sue faraoniche opere pubbliche, ma anche Marrazzo dall’altro che è titolare del contratto di servizio con Trenitalia – decide che la politica delle infrastrutture e dei trasporti non ha tra le proprie priorità l’ammodernamento, il potenziamento, la messa in sicurezza delle linee ferroviarie regionali e locali, fa una scelta chiara e legittima, ma sicuramente non condivisibile.
Né si può dire, come avviene spesso, soprattutto nelle iniziative del centro-sinistra, che bisogna fare la “cura del ferro” e che la cosa più importante è quella di potenziare il trasporto pubblico, e poi – in bilancio – stanziare cifre irrisorie alla bisogna. Le politiche dei trasporti si fanno coi bilanci e con gli stanziamenti e non con le parole. E allora appare del tutto incongruente che la Regione Lazio, per bocca di gran parte dei suoi esponenti, esprima soddisfazione perché il CIPE dia il via libera ad un’opera come la bretella Cisterna-Valmontone che costa 700 milioni di euro, ma faccia ben poco (anche sul piano degli investimenti) per dare ai pendolari un servizio efficiente. La Regione Liguria ha denunciato Trenitalia per inadempienza. Cosa aspetta Marrazzo a farsi carico dei sacrosanti diritti dei pendolari del Lazio?
Va infine sottolineato che, almeno nel centrosinistra, sembrano essere tutti concordi nel dichiarare la necessità di correggere lo squilibrio modale tra gomma e ferro in cui l’Italia vanta un ben poco invidiabile primato. Peccato che, in palese contraddizione con questi intendimenti, vengano caldeggiati interventi infrastrutturali che vanno nella direzione opposta, non solo per quanto riguarda il modello di trasporto, ma il modello produttivo e di consumo, perché non solo dobbiamo trasferire le merci dalla strada alla ferrovia, ma dobbiamo anche smettere di farle viaggiare queste benedette merci. E su questo non si può che dar ragione a Beppe Grillo quando dice che la Danimarca esporta migliaia di tonnellate di biscotti per gli Stati Uniti mentre gli Stati Uniti esportano migliaia di tonnellate di biscotti in Danimarca e si chiede sconsolato “Perché non si scambiano la ricetta?”.


Tullio Berlenghi

5 dicembre 2005

La variante al prg di Labico

Ritengo che l’iniziativa di tenere un’assemblea pubblica di presentazione delle proposte in materia urbanistica elaborate dalla giunta comunale sia stata un’opportunità importante e apprezzabile e mi ha fatto piacere vedere una certa partecipazione da parte dei labicani, anche se – attesa l’importanza della questione – sarebbe stato lecito aspettarsi un pubblico molto più nutrito. Io ho approfittato ben volentieri di questa possibilità di confronto per esprimere le mie perplessità sull’impostazione generale del piano.
L’ho presa forse da lontano, ma ho ritenuto giusto basare le mie riflessioni sulla storia sociale ed urbanistica di un paese che è passato nel giro di un paio di generazioni da un’economia prevalentemente agricola ad una dipendenza economica pressoché totale da altri centri economici, sia per tipologia (in prevalenza terziario e servizi) sia per localizzazione (sostanzialmente Roma). Altri fattori – come il mercato immobiliare – hanno sancito il mutamento di Labico in “residenza per pendolari”, e la conseguente trasformazione urbanistica è stata rapida e devastante: abusivismo, edificazioni senza regole, senza criteri e, talvolta, senza servizi essenziali, hanno caratterizzato l’espansione edilizia degli ultimi decenni. E, per stessa ammissione dei rappresentanti istituzionali, poco o nulla è stato fatto in termini di opere di urbanizzazione e, soprattutto, per la realizzazione degli standard urbanistici che il precedente piano regolatore prevedeva (piazze, aree verdi, servizi per la collettività, ecc.). Le proposte avanzate con questo aggiornamento alla variante urbanistica sembrano purtroppo seguire la strada del passato e si ipotizza – senza imbarazzo – di far passare la popolazione labicana dai 2500 abitanti del 1992 ai 7500 previsti per il 2012, ossia di triplicarla nel giro di vent’anni, con un preoccupante consumo di territorio, con un evidente aumento del disagio complessivo (si pensi al prevedibile ingolfamento dell’asse viario della Casilina) e senza alcuna garanzia che i servizi in senso lato non rimangano gli stessi che già erano insufficienti per i 2500 abitanti del ’92.
Marc Augè, celebre sociologo e antropologo francese, ha coniato un termine felice per descrivere quei luoghi – contrapposti ai luoghi antropologici classici (città, mercati, teatri) – caratterizzati dalla mancanza di identità e di relazioni: i nonluoghi. Luoghi dove moltissime individualità si incrociano senza incontrarsi, senza entrare in relazione. I quartieri dormitorio e le borgate fanno parte di questa categoria. E Labico – con una programmazione urbanistica così spregiudicata - rischia di diventare un paese-dormitorio, quindi un nonluogo, destinato a perdere quel poco che le rimane di identità, di socialità e di storia.
L’altro elemento che mi preoccupa del governo del nostro territorio è l’individuazione – in una delle poche zone ancora risparmiate dal cemento (la zona dei Casali e di Valle Fredda) - dell’ennesima arteria stradale di dubbia utilità, dai costi elevatissimi e che distruggerebbe quel poco di verde e di aree agricole rimaste a Labico: l’innesto del raccordo stradale Cisterna-Valmontone. So bene che questa opera dipende in misura modesta dall’amministrazione comunale, ma non riesco a condividere la descrizione entusiastica che il sindaco ha fatto dell’intervento e dei suoi effetti sulla nostra economia.
Credo quindi che le priorità siano:
bloccare in tutti i modi la realizzazione della bretella Cisterna-Valmontone e chiedere alla Regione Lazio di investire quelle risorse per migliorare il trasporto ferroviario della linea Roma-Cassino e il trasporto pubblico della zona;
realizzare tutto quello che non è stato fatto negli ultimi anni in termini di standard urbanistici, servizi, aree verdi, strade, piazze, marciapiedi, illuminazione, impianti idrici e fognari, scuole, asili nido, stazione ferroviaria e tutto quanto può restituire a Labico la dignità di una Città vera e sottrarla al degrado dellla borgata;
puntare – in futuro – ad un’edilizia di qualità e a interventi che puntino soprattutto alla riqualificazione e al recupero urbanistico dell’intero territorio, con attenzione anche al centro storico, che potrebbe tornare ad essere il centro vitale e sociale di Labico.
Troppo spesso ci si riempie la bocca con parole come “sviluppo”, “crescita”, “incremento”, pensando che siano portatori di benefici e vantaggi. Questo, però, non è vero e, quando è vero, lo è solo in parte. Si pensi all’imprenditore avicolo che commercia uova. Egli penserà che lo “sviluppo” della sua azienda aumenterà raddoppiando il numero di galline per capannone. Avrà così indubbiamente una “crescita” della produzione e un “incremento” dei profitti. Per lui, quindi, un bel vantaggio. Un po’ meno per le galline, a cui lo spazio vitale viene drasticamente ridotto. Ecco, non vorrei che a Labico facessimo la fine di quelle sfortunate galline ovaiole…


Tullio Berlenghi

Alle colonne d'Ercole

Alle colonne d'Ercole
La mia ultima avventura