C’è un affollatissimo carro dei vincitori
dal quale vorrei scendere prima che l’aria diventi irrespirabile, come sul 64 all’ora di punta. Sono contento del risultato del referendum, ma non la
considero una vittoria. Non una mia vittoria, almeno. Io ho interpretato il
quesito come prevede l’articolo 138 della Costituzione e l’ho fatto col massimo
zelo possibile: mi sono letto le proposte di modifica, ho cercato di
comprenderne il senso e la portata, ho elaborato una mia valutazione –
comprensiva di alcune riflessioni di carattere metodologico – e ho deciso di
esprimere un voto contrario. La chiave di lettura di questo referendum si
sarebbe potuta limitare a questo: il Parlamento propone una riforma
costituzionale e il Popolo – che detiene la sovranità – la boccia, senza conseguenze
sul piano politico e degli equilibri parlamentari e di Governo. Non è andata così: la riforma – imposta con
una certa protervia ad un Parlamento dubbioso e recalcitrante – è stata trasformata dal
Presidente del Consiglio in un plebiscito sulla sua persona. Ad essa sono stati
attribuiti significati che andavano ben
al di là della portata reale delle modifiche alla Carta costituzionale e si è
fatta una propaganda eccessiva, arrogante e fuorviante a favore delle modifiche
costituzionali. Il Governo ha messo in campo risorse enormi, ha occupato
militarmente le TV di Stato come neppure Berlusconi aveva mai fatto, e ha spaccato
in due il paese proprio sulla legge fondamentale dello Stato che, per
definizione, dovrebbe essere frutto del più ampio accordo possibile, politico e
sociale. Questa scelta scellerata ricade con enorme responsabilità su chi ha
deciso questo azzardo. Un azzardo da giocatore senza scrupoli che prova ad
alzare la posta e a far saltare il banco per accaparrarsi tutto. L’operazione
non è riuscita, ma lascia comunque il Paese in una brutta situazione ed è
troppo facile lavarsene le mani. Renzi fa bene a dimettersi, ma ci sono un
Presidente della Repubblica e un partito che ha la maggioranza in Parlamento che
hanno il dovere “politico” di indicare la strada per uscire da questo pantano.
Ed è infantile pretendere che la soluzione la trovino gli altri, colpevoli di
aver votato no. Gli altri non sono e non vogliono essere una coalizione. Non
hanno progetti condivisi e non hanno fatto scelte comuni. Sono, per dirla con
parole di Renzi, un’accozzaglia. Se il Presidente della Repubblica non trova le
condizioni per proseguire la legislatura si dovrà tornare alle urne. C’è una
brutta legge elettorale, anche questa imposta dal premier a colpi di fiducia e che
lui stesso avrebbe voluto cambiare, “monca” visto che nulla dice sull’elezione del Senato (sempre per
l’arroganza che ne ha caratterizzato l’agire politico). Con un po’ di buonsenso
e di disponibilità al dialogo se ne potrebbe fare una condivisa. Se non ci si
riesce – e sarebbe un errore - si dovrà usare quello che c’è. I riformisti
potranno costruire una coalizione il cui programma metta nero su bianco le
proposte che si intendono portare avanti e puntare a quel 40% di elettori che
aveva creduto alla bontà della riforma. Non è poco. Gli altri, se non vogliono
restare a guardare, dovranno formulare proposte programmatiche alternative
credibili. L’importante è voltare presto questa (brutta) pagina e ricominciare
a fare politica (in questi casi si dice sempre “nell’interesse del paese”).
Sarebbero da evitare piagnistei, accuse gratuite alla controparte e fosche
previsioni da parte dei sostenitori del SI e inutili (e in alcuni casi
ridicoli) trionfalismi da parte dei sostenitori del NO. La vera sconfitta di
questa partita è stata l’arroganza e non serve sostituirla con l’arroganza di
qualcun altro. Piuttosto bisognerebbe riprendere in considerazione un valore che
in politica sta scomparendo: il rispetto degli altri, che non sono il demonio,
ma qualcuno con cui è necessario dialogare e confrontarsi. La democrazia
funziona così.
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