Non è che si possa affrontare un
tema complesso e delicato, come quello dei migranti, in poche righe.
Bisognerebbe parlare delle cause che spingono le persone a fuggire dai luoghi
dove sono nati alla ricerca di qualcosa che a volte è solo la speranza di
rimanere vivi. Bisognerebbe parlare di guerre, conflitti, povertà, violazioni
dei diritti umani, dittature sanguinarie. Bisognerebbe anche spiegare il ruolo
del mondo occidentale in tutto questo, visto che - quando non è proprio la
causa – è almeno indifferente, connivente
o complice. Almeno per il momento, non parliamone. Parliamo però di persone.
Quelle che, in qualche modo, sono arrivate fin qui e ce le ritroviamo intorno.
Sono esseri umani. Sopravvissuti a qualcosa di indescrivibile e terrificante.
Tutti i loro beni sono contenuti in un sacchetto di plastica o una borsa (i più
fortunati). Non un posto dove dormire, non la sicurezza di un pasto, non un luogo
dove potersi lavare. Nulla. Ecco, immaginiamole dunque queste persone, uomini,
donne, bambini, disperati e indifesi in un paese che non conoscono, dove si
parla una lingua che non capiscono, che cercano di capire se riusciranno a
trovare un po’ di nutrimento o un giaciglio di fortuna. Immaginiamo 10, 50, 100
persone a Roma, capoluogo della Regione Lazio, capitale d’Italia. Città
benestante di una regione ricca di una delle nazioni “potenti” del mondo.
Forse, immaginiamo, le istituzioni dovrebbero occuparsi di loro. Tutte, nessuna
esclusa. E se non lo fanno? E se non lo fanno è naturale che ci siano altre
persone, consapevoli del proprio benessere, che cercheranno di dare un aiuto.
Si chiama misericordia e non c’è bisogno di essere credenti per farla. Basta
avere un briciolo di coscienza. E allora ecco che ci ritroviamo nella
situazione che si è visto negli ultimi anni al Baobab: l’intervento di
associazioni, cittadini, volontari per sopperire alla colpevole assenza delle
istituzioni. Che non solo si disinteressano, ma che di fatto riconoscono un
ruolo ad un sistema di accoglienza nato spontaneamente. Non va bene, ma almeno,
in qualche modo, funziona. Almeno si riesce a garantire un’assistenza minima.
Inadeguato e insufficiente, ma è quello che - con l’impegno e la disponibilità
di poche decine di volontari – si riesce a fare. Fino a quando? Fino a quando
la misericordia non diventa illegale. Fino a quando non si decide di sgomberare
il Baobab. Fino a quando qualcuno ha pensato bene che non bastava sgomberare il
Baobab, ma che non si poteva neppure cercare di dare assistenza ai chi ne aveva
bisogno. Fino a quando qualcuno non ha pensato bene di vietare – uso le espressioni
bibliche per rendere meglio l’idea – di dare da mangiare agli affamati, di visitare
gli infermi, di dare da bere agli assetati, di vestire gli ignudi, di alloggiare
i pellegrini. Non si può fare. E’ vietato. Ma non semplicemente “vietato”. Per
garantire il rispetto del divieto hanno militarizzato via Cupa (dove si trova
il Baobab) con uno spiegamento di forze più adatto a combattere il clan dei
Casalesi. Pattuglie di polizia e carabinieri mandate a perlustrare la zona alla
ricerca di non si sa bene quali possibili reati. E loro? I pellegrini,
affamati, assetati, spesso ignudi, qualche volta infermi? Loro costretti a
nascondersi e ad essere invisibili. In una società opulenta e ipocrita che preferisce
far finta di non vederli. Vietato esistere, dunque, e proprio nell’anno della
misericordia e mentre celebriamo in pompa magna la giornata dei migranti.
Ipocriti. Punto.